stupefare III plur. imperf. ind. stupefaciensi]
Usato anche come intransitivo pronominale, vale " esser preso da stupore " (v.), cioè, secondo la definizione dantesca (cfr. Cv IV XXV 5), dal senso di stordimento provocato in noi da un fatto mirabile per la sua novità, il suo carattere eccezionale e l'ignoranza delle sue cause.
Pur nel numero limitato delle occorrenze, è pertanto una delle parole chiave del Paradiso, in quanto contribuisce a dare il senso di un mondo che soverchia l'esperienza umana: Pd XV 33 Così quel lume: ond'io m'attesi a lui; / poscia rivolsi a la mia donna il viso, / e quinci e quindi stupefatto fui; XXVI 80 quasi stupefatto domandai / d'un quarto lume ch'io vidi tra noi; XXXI 35 Se i barbari... / veggendo Roma e l'ardüa sua opra, / stupefaciensi... / ïo, che al divino da l'umano / ...era venuto, / di che stupor dovea esser compiuto!
Osserva con finezza L. Venturi (Le similitudini dantesche illustrate e confrontate, Firenze 1874, § 298): " il nostro poeta... chiamò stupido [cfr. Pg XXVI 67] il montanaro, perché tale e' diviene per povertà di cultura e inerzia d'intelletto; chiama stupefatti i Barbari, perché la stupefazione esprime impressione più prolungata dello stupore; e dice sé compiuto di stupore, cioè di quello che è proprio soltanto dell'ammirazione intelligente ".