Subculture politiche territoriali e capitale sociale
Il tema della cultura politica riconduce alle origini stesse del pensiero politico occidentale, ossia all’umanesimo classico e alle dispute relative ai fondamenti del diritto e ai rapporti fra leggi e costumi. Riguardo a quest’ultimo tema, che attraversa l’intero pensiero politico classico e medievale, la teoria politica moderna ha identificato due diversi filoni: il primo raccoglie l’eredità scolastica e annovera fra i propri fautori Thomas Hobbes (1588-1679) – e in modo diverso David Hume (1711-1776) –, sostenendo che un governo efficace presuppone, in primo luogo, istituzioni forti. Il secondo è legato a Niccolò Machiavelli (1469-1527), Montesquieu (1689-1755) e, in seguito, a Tocqueville (1805-1859) e ritiene che un governo efficace debba basarsi anche sullo spirito pubblico dei cittadini.
L’utilizzo dell’espressione ‘cultura politica’ nella scienza politica empirica avviene solo nel secondo dopoguerra, nell’ambito dell’analisi comparata dei sistemi politici. Nel 1963 Gabriel Almond e Sidney Verba pubblicano The civic culture, il primo studio empirico imperniato sulla cultura politica, un ambizioso tentativo di comparazione fra cinque diverse democrazie occidentali (Stati Uniti, Gran Bretagna, Messico, Italia e Germania), basato su dati di sondaggio. Almond e Verba indagano il nesso intercorrente fra strutture politiche e cultura politica, sostenendo che la possibilità di sviluppo di un sistema politico dipende dalla congruenza di tale relazione; la cultura politica è definita come «l’insieme degli orientamenti psicologici dei membri di una società nei confronti della politica» (p. 13). In base ai dati raccolti nella loro ricerca, gli autori sostengono che la democrazia possa durare nel tempo solamente se corroborata da un particolare tipo di cultura politica, la civicness («cultura civica»), che costituisce il risultato di una combinazione di forme tradizionali di partecipazione con elementi di apatia e passività politica e di deferenza verso le istituzioni politiche e le autorità costituite.
Tale contributo solleva rilevanti questioni epistemologiche e metodologiche. La disponibilità dei sondaggi e l’accentuata sensibilità nei confronti delle componenti psicologiche del comportamento umano, tratti caratteristici della cosiddetta Scuola di Chicago, costituiscono elementi fondamentali nella definizione almondiana di cultura politica, declinata in termini individualistici e astorici. Proprio a tale riguardo, numerosi scienziati sociali hanno espresso osservazioni critiche. Infatti, dal punto di vista epistemologico, se identifichiamo la cultura politica nell’accezione di Almond e Verba, con un orientamento psicologico, ossia un atteggiamento individuale, possiamo giungere a rilevare l’opinione ‘soggettiva’, ma non i significati ‘intersoggettivi’, poiché sfuggono all’analisi i meccanismi collettivi attraverso i quali le persone conferiscono ‘senso al mondo’. Pertanto, «la cultura politica va [...] ridefinita come un ambito relativamente sfuggente di significati condivisi, non catalogabile a priori secondo rigidi criteri funzionalisti ma piuttosto come un insieme di modelli cognitivi e valutativi relativi ad aspetti del mondo che assumono, direttamente o indirettamente, rilevanza politica» (R. Cartocci, Diventare grandi in tempi di cinismo, 2002, p. 25).
Questo passaggio richiama, quali elementi della cultura politica, i modelli cognitivi e valutativi, ossia quanto possiamo definire «sistemi di significati» (Allum 1988). È il caso di aggiungere a tali elementi anche le «prassi sociali» (A. Gramsci, Quaderni del carcere (1929-35), 1975). Infatti, la cultura politica di una società non è costituita solo da ciò che i suoi membri pensano o dicono di pensare, ma pure da ciò che essi concretamente fanno (anche senza pensare, oppure pensando e dicendo altro): essa vive di ‘atteggiamenti’ e di ‘comportamenti’. Inoltre, lo studio della cultura politica quale dimensione intersoggettiva induce a non predisporre distinzioni troppo rigide fra la cultura politica stessa e il sistema culturale in senso ampio: la religione o l’economia, anche se non percepite come immediatamente connesse alla sfera del politico, possono però condizionarla pesantemente ed esserne pesantemente condizionate. Circa il metodo, Giacomo Sani (The political culture of Italy: continuity and change, in The civic culture rivisited: an analitic study, a cura di G. Almond, S. Verba, 1980) ha sollevato dubbi sull’affidabilità dello strumento prescelto (il sondaggio), in particolare in relazione al caso italiano: le conclusioni tratte dagli autori si basano su un tasso di risposte relativo alle preferenze politiche corrispondenti ad appena il 52% degli intervistati (dato influenzato dalla reticenza degli italiani dell’epoca a parlare apertamente di politica). Tra coloro che hanno accettato di rendere esplicite le proprie preferenze, solo il 4,4% del campione (995 italiani contattati nel 1959) ha ammesso di votare per il Partito comunista italiano (PCI) e il 5,5% per il Partito socialista italiano (PSI), mentre alle elezioni del 1958 il PCI aveva raccolto il 22,7% dei voti e il PSI il 14,2.
Nonostante le riserve, il testo di Almond e Verba merita di essere considerato un classico delle scienze sociali. È stato infatti un notevole generatore di ipotesi e ha contribuito ad avviare numerosi studi concernenti la cultura politica. Tale dimensione, considerata fondamentale già negli anni Cinquanta da Almond e i suoi collaboratori per determinare lo stato di salute delle democrazie – e in particolare per individuare quali caratteristiche fossero in grado di spiegarne la stabilità – ha mantenuto la propria salienza anche nei decenni successivi: per es., ai nostri giorni l’analisi della cultura politica può essere utile per comprendere le possibilità di diffusione della democrazia e valutare le chances di successo dei processi di transizione e consolidamento democratico. Oppure, all’interno delle democrazie già consolidate, l’analisi della cultura politica può risultare determinante per comprendere il diffondersi delle sindromi del cosiddetto malessere democratico.
Parte degli studi successivi all’analisi almondiana ha adottato riferimenti epistemologici e metodologici differenti. L’utilizzo del sondaggio cross-national, basato sull’estrazione di un campione casuale della popolazione residente nei Paesi prescelti, presuppone che la distribuzione delle caratteristiche culturali nello spazio sia casuale e non invece il risultato di dinamiche storiche di lunga durata (Caciagli 1988b). Per tale motivo, già negli anni Sessanta molti studiosi hanno attinto a prospettive di ricerca diverse. In Italia, nella seconda metà degli anni Sessanta, sono stati avviati gli studi dell’Istituto Cattaneo di Bologna sulla partecipazione politica (Galli 1966; Capecchi et al. 1968; Sivini 1971), che hanno utilizzato metodologie di ricerca differenti da quelle adottate da Almond e Verba: studio di dati elettorali aggregati a livello comunale o provinciale, dell’organizzazione di partiti, sindacati, associazioni, e interviste in profondità ai militanti. In tale filone agiscono quanti utilizzano il concetto di cultura politica, applicandolo soprattutto a situazioni territoriali substatuali. È in questo ambito di ricerca che verranno a svilupparsi le analisi relative alle subculture politiche territoriali.
Sempre in quegli anni, in Europa, prendeva le mosse la grande opera di ricerca di Stein Rokkan (Party systems and voter alignments: cross-national perspective, a cura di S.M. Lipset e S. Rokkan, 1967; Citizens, elections parties: approach to the comparative study of the process of development, 1970, trad. it. 1982, Cittadini, elezioni, partiti), secondo il quale per l’effettiva comprensione dei fenomeni politici era necessario considerare l’importanza del tempo e dello spazio. Più in generale, possiamo affermare che, per poter meglio aderire alle molteplici sfaccettature dei processi di mutamento sociale, dalla fine degli anni Sessanta lo studio della cultura politica si sottrae alle tendenze più generalizzanti degli approcci più rigidamente nomotetici. Nel clima di effervescenza sociale di quegli anni, sia negli Stati Uniti sia in Europa si riteneva fosse importante storicizzare e localizzare la politica, all’interno di «una rivoluzione che potremmo definire weberiana, tenendo conto degli apporti che Max Weber ha dato all’analisi dei sistemi politici nella loro globalità, alla prospettiva comparata, all’impostazione storica e all’importanza dei fattori culturali» (G. Pasquino, La complessità della politica, 1985, p. 31). Infatti, negli Stati Uniti, pochi anni dopo la pubblicazione dello studio di Almond e Verba, si è affermato l’indirizzo di ricerca proposto da Daniel J. Elazar (Cities of the prairie: the metropolitan frontier and American politics, New York 1970; The American mosaic: the impact of space, time and culture on American politics, 1994), orientato allo studio delle subculture dei diversi Stati dell’Unione.
Trent’anni esatti dopo la pubblicazione della ricerca di Almond e Verba, l’uscita del libro di un altro politologo americano, Making democracy work di Robert D. Putnam (1993, trad. it. La tradizione civica nelle regioni italiane, 1993) costituirà un’ulteriore importante cesura nella storia delle scienze sociali, proprio ponendo in evidenza la disomogeneità culturale degli italiani e utilizzando un concetto destinato a notevole fortuna nella scienza politica e in sociologia, il concetto di capitale sociale.
Il concetto era già diffusamente utilizzato nella sociologia dei processi economici, ma la sua popolarità è legata alla scelta di Putnam di applicare allo studio dei fenomeni politici, in particolare al rendimento delle istituzioni regionali italiane, la nozione di capitale sociale. Il punto di partenza dell’analisi di Putnam è l’assunto che l’introduzione in tutte le regioni italiane a statuto ordinario del medesimo modello istituzionale (negli anni Settanta del Novecento) abbia fatto emergere forti discrepanze fra i livelli di rendimento delle diverse regioni. Putnam evidenzia un’elevata correlazione fra il rendimento istituzionale e la presenza di una specifica cultura politica (locale): la civicness, consistente in un orientamento diffuso dei cittadini verso la politica sostenuto da un’estesa fiducia interpersonale e dalla consuetudine alla cooperazione. Sul piano empirico, la civicness è misurata attraverso quattro indicatori (trad. it 1993, p. 196): la partecipazione ad associazioni, la propensione alla lettura dei quotidiani, l’affluenza alle urne per le consultazioni referendarie, il limitato utilizzo del voto di preferenza, considerato elemento rivelatore di particolarismo se non di voto di scambio. Poi, ricollegandosi a una tradizione di pensiero che annovera Tocqueville fra i suoi più illustri esponenti, Putnam individua nella partecipazione ad associazioni l’antidoto più efficace contro la diffusione di comportamenti opportunistici.
Nella precisazione delle caratteristiche qualificanti del civismo compare una novità concettuale: la cultura civica, per Putnam, è tale in quanto ricca di capitale sociale. Per capitale sociale Putnam intende «la fiducia, le norme che regolano la convivenza, le reti di associazionismo civico, elementi che migliorano l’efficienza dell’organizzazione sociale promovendo iniziative prese di comune accordo» (p. 196). Anche se Putnam non è perfettamente chiaro al riguardo, il riferimento al capitale sociale costituisce una precisazione rispetto al concetto di cultura politica e un superamento della concezione che di essa hanno Almond e Verba: il capitale sociale, nell’accezione di Putnam, rimanda a una dimensione intersoggettiva non riconducibile a proprietà di singoli individui e scaturisce da processi storici determinati (Almagisti 2008).
Le differenze di rendimento a favore delle regioni del Centro-Nord dipenderebbero, secondo Putnam, da diverse dotazioni di capitale sociale, e l’origine di tale discrepanza andrebbe ricercata nelle vicende che hanno caratterizzato la nostra penisola quasi un millennio fa, quando nell’Italia centrosettentrionale riuscirono a prosperare i liberi comuni, mentre nell’Italia meridionale il Regno dei Normanni portava a compimento una centralizzazione gerarchica sull’eredità istituzionale bizantina e musulmana. Nel corso del divenire storico, questa contrapposizione avrebbe sedimentato istituzioni e culture politiche divergenti: ‘verticali’ al Sud e ‘orizzontali’ al Nord (Putnam, cit., p. 145). Sin dal momento della sua pubblicazione il testo di Putnam ha scatenato polemiche roventi, non soltanto in ambito accademico. In questa sede non ricostruiremo l’intero dibattito, limitandoci a evidenziare il rilievo dell’introduzione, nell’analisi dei fenomeni politici, del concetto di capitale sociale, che noi consideriamo come parte qualificante di una cultura politica (quella parte che attiene alla fiducia, alle norme di reciprocità e alle reti associative, cfr. Almagisti 2008).
Le linee di frattura (cleavages)
L’analisi di Putnam evoca la presenza di una linea di frattura decisiva per la politica italiana, che contrappone l’area centrosettentrionale e il Meridione, sia per il livello di sviluppo economico conseguito, sia per le caratteristiche della cultura politica. In effetti l’anno 1993, in cui il libro di Putnam venne pubblicato – l’edizione italiana è pressoché contemporanea – segna la crisi dell’intero sistema partitico italiano: una crisi che è considerata senza eguali nell’ambito delle democrazie consolidate. Secondo molti osservatori, al netto dei fattori internazionali (gli eventi del 1989, il crollo del Muro di Berlino) che stravolgono l’intero contesto politico planetario, la specifica concausa endogena che innesca la crisi italiana è proprio la questione territoriale (Diamanti 1993). Il sistema partitico italiano crolla perché, sotto la pressione degli avvenimenti internazionali, non riesce più a contenere e gestire le proprie linee di frattura.
Lo studio della formazione delle fratture sociali è stata considerata, sin dalle analisi di Rokkan, un’efficace chiave interpretativa delle dinamiche politiche. Secondo Rokkan, nella strutturazione dei sistemi di partito dell’Europa occidentale, si è formata una perdurante connessione fra le linee di frattura che attraversano la società e l’offerta politica, intesa quale insieme delle formazioni significativamente presenti nel sistema partitico. Riguardo all’origine delle linee di frattura, Rokkan evidenzia due processi generativi. Il primo è di natura culturale-territoriale e riguarda la costruzione dello Stato e della nazione, il secondo è di natura economica e consiste nella rivoluzione industriale. Entrambi i processi generativi producono due linee di frattura. La costruzione dello Stato-nazione genera una frattura centro-periferia che contrappone le élites di State builders orientate a perseguire l’obiettivo dell’integrazione nazionale alle élites periferiche (politiche, culturali o linguistiche) che resistono a tale tentativo; induce inoltre una frattura Stato-Chiesa avente quale posta in palio la produzione culturale e simbolica e la gestione del controllo sociale, soprattutto negli ambiti dell’istruzione di massa e dei riti collettivi. Anche la rivoluzione industriale produce due linee di frattura: una frattura città-campagna che contrappone gli interessi urbani (industriali e tendenzialmente liberoscambisti) a quelli del mondo agricolo (protezionisti); una frattura capitale-lavoro, che oppone gli interessi dei proprietari dei mezzi di produzione materiale e dei lavoratori. Quest’ultima frattura ne origina una ulteriore, che si risolve per intero nel campo della sinistra, contrapponendo (dopo la Rivoluzione russa) i partiti socialisti, divenuti tendenzialmente leali rispetto alle regole del proprio sistema politico nazionale, e i partiti comunisti, allineati a Mosca sul piano internazionale. In questo caso, l‘oggetto della contesa è l’egemonia sul movimento operaio.
Secondo Rokkan, la struttura dei sistemi di partito europei trae origine dalle diverse modalità di ricomposizione e politicizzazione di tali fratture. In particolare, il presidio organizzativo dei partiti sulle principali linee di frattura implicherebbe una marcata inerzia del quadro politico e un sostanziale congelamento dell’offerta politica, per cui i sistemi partitici europei, sino almeno agli anni Sessanta del Novecento, rifletterebbero, quasi integralmente, le contrapposizioni degli anni Venti. Questo schema path dependent è stato applicato anche allo studio del sistema politico italiano, dato il rilievo dei cleavages Stato-Chiesa e centro-periferia. Una critica a tale modello proviene da Giovanni Sartori (From the sociology of politics to political sociology, in Politics and the social sciences, a cura di S.M. Lipset, 1969), secondo il quale l’analisi della strutturazione dei sistemi politici deve evidenziare le variabili eminentemente politiche, come l’autonoma capacità di insediamento dei partiti e l’effetto dei sistemi elettorali. Abbiamo ipotizzato che fra l’impostazione di Rokkan e quella di Sartori non corrano rapporti di mutua esclusione, bensì di complementarietà, data la biunivocità dei legami fra società e istituzioni e dato anche il particolare ruolo ‘anfibio’ svolto dai partiti, in parte attori sociali – che riflettono (filtrandole) le domande verso le istituzioni – e in parte soggetti istituzionali che danno forma alla società (Almagisti 2008).
Nel caso italiano le identità politico-territoriali più significative, ossia le subculture politiche territoriali, si ricollegano alle linee di frattura generate dai processi di costruzione dello Stato e della nazione; lungo tali linee di frattura però, i partiti non si sono limitati a organizzare un presidio, bensì hanno organizzato la società locale, favorito il sedimentarsi di orientamenti politici convertibili all’interno del quadro costituzionale democratico (anche tramite il controllo delle istituzioni politiche locali), implementato diversi modi di regolazione per lo sviluppo locale e favorito l’estensione e l’ispessimento delle reti di fiducia. Queste ‘casseforti del capitale sociale’ sono alla radice sia della parabola dei partiti di massa del primo periodo repubblicano sia delle traiettorie dello sviluppo locale delle aree di piccola e media impresa (Almagisti 2008; Ramella 2005).
Secondo Putnam (cit.), le diverse dotazioni locali del capitale sociale risalirebbero non tanto alla fase di insediamento dei partiti, quanto a eventi storici antecedenti l’unificazione italiana (soprattutto l’esperienza comunale del Medioevo). Tale interpretazione troverebbe conferma nella sovrapponibilità fra l’area caratterizzata dalla presenza di liberi comuni nel Medioevo e quella contraddistinta dal civismo regionale negli anni Settanta del Novecento. Tuttavia, lo stesso Putnam afferma che «per decidere se questa affascinante correlazione rappresenta una vera continuità storica o semplicemente una curiosa coincidenza, si deve analizzare da vicino l’evoluzione della vita politica e sociale italiana nei successivi sette secoli» (cit., p. 156). L’invito di Putnam deve essere accolto, analizzando peculiarmente alcuni aspetti: la relazione fra produzione, trasformazione o distruzione di capitale sociale e le fasi storiche in cui i conflitti sono più acuti e strutturano identità collettive lungo linee di frattura relativamente durevoli; il rapporto fra le diverse modalità di ricomposizione dei conflitti e la produzione di diversi tipi di capitale sociale; la permanenza degli effetti di tali dinamiche di lungo periodo e la loro capacità di influenzare i fenomeni politici contemporanei.
Già le ricerche svolte negli anni Sessanta del Novecento dall’Istituto Cattaneo di Bologna evidenziano la capacità di persistenza degli insediamenti culturali di matrice cattolica e socialista, i quali erano in grado di influenzare molto significativamente i comportamenti elettorali (Galli 1966). Una prima traccia da seguire riguarda proprio le manifestazioni di voto. È quindi il caso di esplicitare una premessa metodologica che orienta la nostra analisi: «il ricorso a dati territoriali presuppone che il voto – che resta sempre un’espressione individuale – sia la manifestazione finale di una realtà densa e vischiosa, di ordine latamente culturale, che contraddistingue gli elettori non come monadi isolate, ma come membri di contesti locali sufficientemente caratterizzati» (R. Cartocci, L’Italia unita dal populismo, «Rassegna italiana di Sociologia», 1996, 2, p. 289). Tale premessa di metodo reca con sé una premessa di merito altrettanto rilevante, per introdurre la quale facciamo riferimento alla tipologia del voto proposta da Arturo Parisi e Gianfranco Pasquino (Relazioni partiti-elettori e tipi di voto, in Continuità e mutamento elettorale in Italia: le elezioni del 20 giugno 1976 e il sistema politico italiano, a cura di A. Parisi e G. Pasquino, 1977), i quali operano una distinzione fra il ‘voto di appartenenza’, legato alle linee di frattura e alla persistenza di subculture, il ‘voto di opinione’, determinato da valutazioni ponderate e razionali riguardo all’offerta politica, e infine il ‘voto di scambio’, strettamente ancorato al perseguimento di benefici di breve periodo. Si tratta di idealtipi weberiani, che sintetizzano le molteplici combinazioni possibili fra l’appartenenza e la definizione di interessi, ideali o materiali, di breve o di lungo periodo. Fra gli analisti è diffusa l’opinione secondo la quale l’adesione a una prospettiva subculturale costituisce un cascame irrazionale e, perciò, configura una manifestazione di comportamento politico poco ‘moderna’. In realtà, «il voto di appartenenza, quando non intriso di fanatismo e dogmatismo, può riflettere il riconoscimento fra i valori presenti nella società e quelli dichiarati dalle formazioni partitiche» (Gangemi 1994, p. 6).
Anche se le subculture politiche territoriali non possono essere considerate riduttivamente come zone elettoralmente omogenee, l’omogeneità del voto può tuttavia costituire un importante indicatore della presenza della subcultura, in quanto la manifestazione di voto costituisce un atto terminale di una più vasta trama di rapporti interpersonali. Per cogliere la densità di tali relazioni, l’analisi delle vicende elettorali si deve combinare con la ricostruzione degli elementi di contesto che poi confluiscono nella manifestazione di voto. Non casualmente, nelle prime definizioni delle subculture sono rintracciabili significativi elementi che, in seguito all’analisi di Putnam, si possono sintetizzare nella metafora del capitale sociale.
Paolo Farneti (Sistema politico e società civile. Saggi di teoria e ricerca politica, 1971, pp. 202-204, 280 e segg.) definisce la subcultura politica come un «insieme di tradizioni e norme che regolano i rapporti tra gli individui e tra questi e lo stato, espresso anche in linguaggi politici. [...] La forza delle subculture deriva dal fatto di regolare un insieme di rapporti ben più vasto dei rapporti politici e, primo fra tutti il rapporto associativo, di solidarietà o di interesse. [... Esse sono] vere forme complesse di legittimazione dell’autorità politica». Carlo Trigilia (1981) evidenzia il radicamento territoriale, proponendo di utilizzare il concetto di subcultura «non solo per indicare una particolare forma di cultura politica, ma anche caratteristiche complessive di un sistema politico locale, all’interno di quello nazionale, e il tipo di integrazione che esso realizza» (p. 8). Il concetto di subcultura politica territoriale, così ridefinito, indica pertanto «un particolare sistema politico locale, caratterizzato da un elevato grado di consenso per una determinata forza e da una elevata capacità di aggregazione e mediazione degli interessi a livello locale» (pp. 47-48), che si esprime in una fitta rete istituzionale (partito, Chiesa, gruppi di interesse, associazioni assistenziali, culturali e ricreative) coordinata dalla forza dominante.
Secondo Trigilia, gli elementi fondamentali della subcultura territoriale sono:
a) la presenza di un tendenziale localismo, derivante dal perdurare della frattura centro-periferia nel sistema politico nazionale;
b) l’esistenza di una rete di associazionismo diffusa e orientata ideologicamente;
c) la persistenza di un senso di appartenenza a uno specifico ambito politico e spaziale e alla rete associativa che lo rappresenta e tutela;
d) la continuità di un sistema politico locale egemonizzato da una forza politica specifica, capace di integrare i diversi interessi a livello locale e di rappresentarli presso il governo centrale.
Le subculture politiche italiane evidenziano la territorialità quale attributo costitutivo fondamentale (Caciagli 1998b). Rimandando ad altre sedi per i criteri di individuazione delle diverse subculture politiche territoriali, basterà qui ricordare che ci riferiamo con il termine subcultura bianca alla subcultura di matrice cattolica a lungo presente nell’Italia nord-orientale e con il termine subcultura rossa a quella di matrice socialcomunista presente nell’Italia centrale. Si rimanda altrove (Almagisti, 2008, 20112 cap. 3) anche per la comparazione per somiglianze e differenze fra le due subculture, sottolineando però che nell’interpretazione prevalente nella scienza politica italiana la differente connotazione cromatica (subcultura ‘bianca’ nel Nord-Est, subcultura ‘rossa’ nell’Italia centrale) deriva dalla diversa combinazione di cleavages prevalente nei diversi contesti.
Nell’Italia nordorientale il cleavage centro-periferia si salda con quello Stato-Chiesa a causa di molteplici fattori: la difficoltà dello Stato italiano a integrare gli ex territori della Serenissima Repubblica di Venezia e gli sconvolgimenti sociali dei primi decenni successivi all’Unità d’Italia che aggravano tale situazione; gli asperrimi conflitti sia precedenti sia successivi all’instaurazione del fascismo – ossia per il ripetersi di eventi traumatici di fronte ai quali la Chiesa si erge spesso quale unico punto di riferimento possibile per la società locale. Questo legame così forte fra questa porzione di mondo e il radicamento della Chiesa non è casuale: sin dal Cinquecento, la Chiesa ha individuato l’Italia nordorientale quale ambito cruciale di riconquista culturale e di presidio contro possibili minacce destabilizzanti, data la contiguità di queste terre con i Paesi in cui si è diffusa la Riforma luterana e il ciclico riproporsi di antichi culti paganeggianti (C. Ginzburg, Folklore, magia, religione, in Storia d’Italia, 1° vol., I caratteri originali, Torino 1972). Tale presenza organizzata della Chiesa nell’Italia nordorientale costituirà la base di consenso più rilevante per il partito dei cattolici costruito da Alcide De Gasperi (1881-1954) nel secondo dopoguerra: la Democrazia cristiana (DC).
Nell’Italia di mezzo, fattori quali la presenza meno capillare delle organizzazioni religiose nelle campagne, la prevalenza nell’agricoltura della figura del mezzadro (duramente penalizzata dalla revisione dei patti colonici, voluta dal fascismo) anziché della piccola proprietà della terra imperniata sulla famiglia contadina, la memoria delle mobilitazioni sociali di fine Ottocento e dei primi due decenni del Novecento, guidate soprattutto da movimenti e partiti di sinistra, portano a sovrapporre la frattura centro-periferia con il cleavage capitale-lavoro. Questa sedimentazione di capitale sociale – orientata alla giustizia sociale, intesa in senso più egualitario rispetto alla zona ‘bianca’ –, che già costituiva il principale riferimento sociale per il Partito socialista di fine Ottocento e di inizio Novecento, rappresenterà il principale contesto di radicamento per il Partito comunista di Palmiro Togliatti (1893-1964) nell’Italia repubblicana (riguardo a tale ricostruzione si considerino i rilievi critici contenuti in Arbitrio amministrativo e corruzione politica. La linea municipalista italiana di ispirazione anglosassone, a cura di G. Gangemi, 2011).
Il processo di unificazione italiana è frutto di un capolavoro diplomatico realizzato da Cavour in tempi storici relativamente rapidi. La stessa velocità con cui avviene tale processo costringe il Regno d’Italia ad affrontare nel breve volgere di qualche stagione processi storici altrove diluiti nel corso dei secoli: la costruzione dello Stato e della nazione, l’inclusione delle masse popolari e la redistribuzione delle risorse. A causa dell’allineamento temporale di tali questioni e della gravosa eredità politico-amministrativa di molti Stati preunitari, il rischio di ‘sovraccarico delle domande’ risulta congenito al sistema politico italiano (G. Zincone, Da sudditi a cittadini. Le vie dello Stato e della società civile, 1992; C. Guarnieri, Il sistema politico italiano, 2006).
Infatti, le condizioni economiche del Paese, aggravate dal peso del debito pubblico accumulato dal Regno di Sardegna durante le guerre d’indipendenza e dalle difficoltà di penetrazione fiscale della nuova amministrazione pubblica, impediscono l’adozione di una strategia in cui lo Stato possa affiancarsi ai corpi intermedi, agendo esso stesso come ‘capitalista sociale’, e producendo in proprio le risorse integrative giudicate necessarie, tramite la gestione dei servizi pubblici essenziali e dei riti collettivi. Data la condizione dell’Italia postunitaria «si può capire, quindi, che il regime liberale scelga di comprare la lealtà delle élites locali disponibili all’accordo utilizzando soprattutto risorse economiche locali, che abbandoni il costoso progetto di integrazione delle classi subalterne e che, al contempo, metta le proprie istituzioni al riparo da gruppi sleali» (Zincone, cit., p. 146).
Altrove, il compito di ampliare la sfera della legittimità democratica e di introdurre ampi strati popolari ai codici della moderna politica parlamentare è stato svolto dai partiti di massa. Tuttavia, nell’Italia ottocentesca contro tale possibilità interviene un fattore di ordine culturale, quale la sindrome elitaria che contraddistingue la cultura politica liberale italiana, da cui scaturisce «la concezione persistentemente elitista del sostegno politico» (p. 149). Ne discende la difficoltà a riconoscere legittimità al conflitto sociale e a ricomporlo mediante strumenti propriamente politici e il conseguente mancato radicamento del partito politico quale elemento di strutturazione e integrazione della società civile. Se è il mito dell’Inghilterra a ispirare la classe dirigente liberale, si deve notare che il sistema britannico, nel frattempo, con B. Disraeli (1804-1881) e E.H. Derby (1826-1893) ha provveduto a dotarsi di uno strumento, quale il partito di massa, in grado di garantire l’aggregazione delle domande e il contenimento delle spinte al cambiamento entro i limiti dello stesso sistema politico liberale (A. Pizzorno, Mutamenti nelle istituzioni rappresentative e sviluppo dei partiti politici, in Storia d’Europa, 5° vol., L’età contemporanea. Secoli XIX-XX, a cura di P. Bairoch, E.J. Hobsbawm, 1996, pp. 985-92). Sia l’attività delle strutture associative sia il ruolo del partito quale costruttore e garante di un legame fra associazioni e istituzioni sono considerati con sospetto, poiché nascono oltre i confini certi del sistema politico, assumendo tratti antisistema (P. Pombeni, Il problema del partito politico nella riflessione della scienza politica italiana (1870-1914), in I concetti fondamentali delle scienze sociali e dello Stato in Italia e Germania tra Otto e Novecento, a cura di R. Gherardi e G. Gozzi, 1992). Una scelta cosiffatta produce effetti rilevanti sia nell’atteggiamento dei ceti dirigenti verso le istituzioni, sia nelle forme di mobilitazione dei ceti subalterni. Per i ceti dirigenti questo si traduce nella scelta di pratiche trasformistiche da gestire attraverso l’occupazione dello Stato. Per i ceti subalterni, quanto detto spiega la connotazione antagonistica che assume inizialmente la loro mobilitazione attraverso i partiti di massa, i quali si sviluppano dai movimenti sociali in contrapposizione alle istituzioni politiche.
La necessità di affrontare tali sfide per mezzo di una macchina statuale ancora gracile comporta il radicalizzarsi delle contese, cui la classe dirigente del nuovo Stato nazionale risponde con metodi repressivi. Le modalità di gestione del conflitto contraddicono sovente il liberalismo costantemente evocato dalla classe dirigente, con il risultato di favorire la riproduzione del capitale sociale in ambiti lontani e contrapposti rispetto alle istituzioni politiche. Entro tale contesto, la presenza di capitale sociale non può produrre quegli effetti complessivi positivi delineati da Putnam, poiché il capitale sociale si riproduce fuori dallo Stato, quando non contro lo Stato (Almagisti 2008, 20112, cap. 3).
A causa dello stratificarsi di tali questioni irrisolte, negli anni Venti del Novecento l’Italia conosce la crisi del sistema politico democratico. La soluzione che il fascismo propone al sovrapporsi delle linee di frattura nella società italiana consiste nel controllo gerarchico e centralizzato della società stessa.
Con tale precedente alle spalle, è comprensibile che la Costituzione della Repubblica assuma quale decisiva la questione della responsabilità del potere politico, ossia dell’accountability, nei termini proposti dalla scienza politica contemporanea. La Costituzione dell’Italia repubblicana è ispirata a un modello di democrazia, che Arendt Lijphart (Patterns of democracy: government forms and performance in thirty-six countries, 1999) definirà consensuale e che prevede: un sistema di governo parlamentare accompagnato da una legge elettorale proporzionale e imperniato sul riconoscimento del protagonismo dei corpi intermedi e, fra questi, dei partiti politici; il bilanciamento dei poteri da perseguire mediante la predisposizione delle istituzioni di garanzia e un tendenziale decentramento da realizzarsi tramite il riconoscimento delle autonomie locali.
La presenza di una società civile in ampia misura non introdotta ai valori della democrazia, esclusa dalla vita politica attiva dello Stato liberale ottocentesco e segnata da un ventennio di dittatura e dalla guerra, ha indotto le élites politiche a impostare i rapporti con cittadini e gruppi sociali sulla base di relazioni significativamente caratterizzate dalla presenza dei partiti di massa. Si tratta di una variante peculiare del processo definito dalla scienza politica ancoraggio democratico (L. Morlino, Democracy between consolidation and crisis: parties, groups and citizens in Southern Europe, 1998). Infatti, nei contesti in cui la legittimità verso il nuovo ordine democratico è ancora limitata, il consolidamento delle istituzioni democratiche può avvenire soltanto se le élites riescono a produrre alcune ‘ancore’ in grado di trattenere le spinte contrastanti della società civile. In tale prospettiva, i partiti hanno ricomposto le principali linee di frattura riavvicinando il capitale sociale in esse incapsulato alle istituzioni democratiche. Riguardo al successo del consolidamento democratico nell’Italia repubblicana è opportuno ricordare che, se negli anni Cinquanta, a differenza degli altri Paesi dell’Europa mediterranea (quali Grecia, Spagna e Portogallo), l’Italia non si è ritrovata sotto il giogo di una dittatura di destra, lo si deve proprio al successo del consolidamento democratico garantito dall’ancoraggio svolto dai partiti di massa (G. Moro, Anni Settanta, 2007).
Tuttavia, i rapporti fra i partiti sono immediatamente condizionati dalle vicende internazionali: la spaccatura fra le potenze vincitrici della Seconda guerra mondiale si riflette nella crescente polarizzazione del sistema politico attorno alle due forze principali, la Democrazia cristiana e il Partito comunista. Ne discende una legittimazione esclusiva a danno dei comunisti che determina l’impossibilità dell’alternanza al governo fra i due principali partiti, con conseguenze rilevanti in termini di accountability. Infatti, il partito designato a governare (la DC), non deve rendere conto del suo operato, mentre il principale partito d’opposizione (il PCI) non è tenuto a rispondere delle promesse fatte al suo elettorato, considerata l’impossibilità di assumere responsabilità di governo.
Tale condizione spiega alcune caratteristiche funzionali che assume il Parlamento, nel quale tutti i membri possono contribuire alle attività, sebbene con diversa efficacia procedurale. L’iniziativa legislativa è attivabile da ogni singolo parlamentare, il quale può emendare le iniziative parlamentari altrui (G. Di Palma, Surviving without governing. The Italian parties in Parliament, 1977). Questo significa che anche le opposizioni hanno un considerevole potere di iniziativa legislativa, che produrrà risultati considerevoli soprattutto nella stagione di forti mobilitazioni sociali degli anni Sessanta e Settanta (A. Höbel, Il PCI di Luigi Longo (1964-1969), 2010).
È fuori dal Parlamento che la mancata legittimazione del PCI comporta notevoli ritardi nell’attuazione della Costituzione. Le istituzioni di garanzia vengono introdotte in ritardo (la Corte costituzionale entra in funzione nel 1956, mentre il Consiglio superiore della magistratura, garante dell’indipendenza dei giudici, solo nel 1959). Ancora più evidenti sono le conseguenze della mancata legittimazione dell’opposizione comunista nella questione del decentramento, decisiva per la gestione della frattura centro-periferia. Il timore che i comunisti possano governare importanti regioni italiane comporta la mancata istituzione delle regioni a statuto ordinario, che saranno realizzate soltanto nel 1970, in seguito alle mobilitazioni diffuse del decennio precedente.
L’approccio della politologia storica può aiutarci a comprendere appieno le ragioni sottostanti all’origine e applicazione della Costituzione repubblicana e le connessioni profonde della stessa Costituzione con le culture politiche fondatrici della democrazia italiana. Alla base della Costituzione si trovano le riflessioni di grandi intellettuali, fra i maggiori del Novecento italiano. Non può essere sottovalutato fra i cattolici il ruolo di De Gasperi, mentre contributi rilevanti giungono anche dalle altre culture politiche. Ai tempi della Costituente la cultura politica social-comunista può trarre beneficio dalle riflessioni compiute nei decenni precedenti da un altro grande intellettuale italiano, Antonio Gramsci. De Gasperi e Gramsci sono intellettuali italiani nati nella provincia e che dalla provincia hanno cominciato a pensare all’Italia e al mondo. Grazie alle riflessioni di questi grandi intellettuali le due principali culture politiche del primo periodo repubblicano cominciano ad affrontare l’esclusione politica e quella territoriale quali questioni interconnesse. È utile rilevare al riguardo, onde mitigare la staticità solitamente imputata alla prospettiva di Rokkan, che la continuità del presidio dei partiti sulle linee di frattura non significa affatto immobilità; infatti, la persistenza nei decenni delle subculture politiche a base territoriale non è stata solo frutto della loro funzione difensiva, a tutela delle classi subalterne, ed espressiva, a tutela dell’identità locale, bensì è scaturita anche dalla capacità di garantire il necessario adattamento delle società locali alle nuove sfide dello sviluppo (Cartocci 1994).
Come abbiamo accennato in apertura di questo contributo, già le ricerche svolte negli anni Sessanta dall’Istituto Cattaneo sull’omogeneità territoriale del voto evidenziano la connessione fra radicamento dei partiti di massa e persistenza di identità locali e di reticoli associativi ideologicamente orientati. È sempre utile ricordare che la formazione delle subculture politiche territoriali precede la nascita e il radicamento dei partiti di massa. Di conseguenza, pare opportuno ribadire che il radicamento dei partiti di massa ha consentito alle subculture locali di ottenere, pur entro processi non privi di ambiguità, un accesso al centro del sistema politico nazionale. Soltanto in questo modo, la vitalità di questi ‘mondi’ non si è dispersa in mille rivoli o, peggio, non ha trovato traduzione in modalità politiche antagonistiche rispetto al sistema politico democratico.
L’analisi diacronica delle subculture politiche territoriali mostra come l’ancoraggio svolto dai partiti durante il consolidamento delle istituzioni democratiche possa trasformare contesti storicamente caratterizzati da mobilitazioni antisistema in autentici serbatoi di quel capitale sociale che rappresenta una variabile essenziale per spiegare il miglior rendimento istituzionale di alcune regioni italiane.
Dopo aver visto in sintesi come il capitale sociale incapsulato nelle subculture sia risultato modificato dal fascismo e dalla Resistenza, ci soffermeremo sulle configurazioni specifiche delle zone ‘bianche’ e ‘rosse’.
Il capitale sociale locale risulta modificato dalla dittatura e dalla guerra civile in tre direzioni.
1) Durante il fascismo i corpi intermedi non sono stati solo controllati e depotenziati, ma annichiliti e spesso sostituiti con organizzazioni nuove e fittizie, calate dall’alto. Tuttavia, il capitale sociale in essi contenuto mostra, nelle condizioni di massima avversità, una vitalità straordinaria: soverchiati dal regime, i corpi intermedi ‘non allineati’ si sono mimetizzati, hanno operato nella latenza sociale, lontano dalla pubblica ribalta, riuscendo a non disperdere, con la propria memoria storica, anche il proprio potenziale di mobilitazione (Sivini 1971). Come sarà evidente nell’Italia centrale, la riemersione dalla latenza premia le componenti maggiormente organizzate.
2) È già stato notato a proposito del Veneto che la fine della dittatura non ripristina lo status quo ante. L’esperienza fascista ha provocato conseguenze differenti sugli insediamenti associativi collegati alle diverse tradizioni politiche, favorendo in molte aree del Paese il radicamento del capitale sociale ‘bianco’. Con il crollo del regime fascista e la guerra civile risulta decisivo il riferimento alla tradizione religiosa: di fronte a questi profondi sconvolgimenti, la Chiesa evita la distruzione del capitale sociale, tanto che risulta difficile non riconoscere il suo ruolo determinante (S. Lupo, Partito e antipartito. Una storia politica della prima repubblica (1946-78), 2004, p. 38). In virtù di tale opera, essa non vede intaccata la propria autorità spirituale e politica, nonostante i compromessi con il fascismo.
3) Oltre al collasso delle istituzioni politiche, l’eredità del fascismo all’Italia repubblicana consiste nell’affermazione, tramite l’esperienza del partito unico, di un fenomeno non completamente assimilato in precedenza: il partito di massa. Infatti, alla fine degli anni Quaranta, la DC e il PCI riescono a reclutare milioni di iscritti anche in seguito all’esperienza della mobilitazione fascista e della Resistenza antifascista. Dopo la conquista del potere politico, il Partito nazionale fascista (PNF) aveva inquadrato nelle proprie fila milioni di italiani, riuscendo a introdurre il concetto di ‘tessera di partito’ come elemento ‘normale’ della vita sociale (Galli 1966). Se all’inizio degli anni Quaranta circa il 12% degli italiani risulta iscritto al PNF, dopo la Liberazione la quota di popolazione reclutata dai partiti antifascisti appare analoga, pur raggiungendo l’apice negli anni Cinquanta.
Soltanto durante il fascismo la Chiesa riesce a estendere il proprio controllo anche al Veneto urbano, in virtù della libertà di iniziativa ottenuta tramite il compromesso con il regime (G. Riccamboni, Territorio e consenso: i mutamenti della geografia elettorale del Veneto fra il 1919 e il 1948, in «Quaderni dell’osservatorio elettorale» 1999, 42, pp. 49-74). La Chiesa ottiene il consenso dei nuovi ceti medi impiegatizi che hanno fatto esperienze orientate a costruire identità collettive nelle associazioni collaterali e soprattutto nell’Azione cattolica. Il passaggio attraverso il fascismo può essere identificato come una fase di mutamento del capitale sociale ‘bianco’, in seguito allo spostamento di enfasi operato dalla Chiesa: dall’intervento nel sociale, in funzione difensiva nei confronti dello Stato liberale e in concorrenza con il movimento socialista fino all’avvento del regime, al controllo dello spazio ideologico in funzione anticomunista nel secondo dopoguerra.
L’egemonia cattolica nel Veneto determina rapporti di forza peculiari tra la DC e il PCI, segnati dal netto predominio elettorale della prima a spese del secondo, e accompagna la trasformazione di un’area preminentemente rurale in zona ad alta densità di sviluppo industriale di piccola impresa. In Veneto, le fratture di origine culturale (centro-periferia e Stato-Chiesa) hanno preceduto e contenuto la frattura di classe, mentre il conflitto di classe si è manifestato in presenza di forme di controllo sociale capaci di impedirne una riproduzione in termini partitici significativi (Diamanti, Riccamboni 1992). Almeno nei primi decenni del secondo dopoguerra, in Veneto «il criterio decisivo di alleanza è il legame con il localismo e la sua cultura prevalente: voti allo stesso modo della tua comunità e dei suoi leader, senza tener alcun conto della tua posizione economica» (Rokkan, Cittadini, elezioni, partiti, cit., p. 173). Il localismo non si traduce in posizioni destabilizzanti o eversive in quanto la dimensione simbolica e quella organizzativa della Chiesa alimentano un capitale sociale che garantisce la coesione, l’articolazione, l’aggregazione e la soddisfazione delle domande sociali, mentre la presenza della DC assicura l’accesso al sistema politico e il rispetto delle sue regole.
Il fattore religioso non incide solo sul piano morale, bensì anche su quello dell’integrazione e dell’identità sociale e su quello materiale dell’organizzazione, della rappresentanza e della mediazione con le istituzioni. È quanto emerge dal recupero di un’indagine svolta negli anni Cinquanta presso i giovani della provincia di Vicenza per iniziativa delle ACLI (P. Allum, I. Diamanti, ’50-’80, vent’anni. Due generazioni di giovani a confronto, 1986). Dalla ricerca risulta che nella società veneta di quel periodo il rapporto con la politica è molto più complesso di quanto suggeriscono gli elementi quantitativi (come i rapporti di forza elettorali). La politica è una scena lontana eppure leggibile tramite una griglia interpretativa semplice ma ricca di significati. I partiti sono considerati attori non troppo amati né apprezzati, cui vengono attribuiti ruoli ben precisi: la Democrazia cristiana appare una forza attenta alla tutela della Chiesa e della libertà, ma poco ricettiva verso le richieste di chi lavora; mentre il Partito comunista e il Partito socialista figurano come nemici della religione, ma sostenitori dei lavoratori. La religione, anche se non è l’unica chiave di lettura, costituisce la filigrana che lega gli orientamenti di fondo. L’appartenenza alla Chiesa viene ritenuta una premessa sufficiente per attribuire il consenso a un partito che pure non sembra del tutto affidabile per aspetti rilevanti. Dall’analisi traspare come questo risultato sia conseguenza della capacità della Chiesa di gestire e riprodurre un sistema di significati incardinato nella vita quotidiana, all’interno del quale è la stessa istituzione ecclesiastica a fornire alla società una peculiare concezione del mondo.
Oltre a benefici simbolici, la Chiesa produce anche risorse organizzative e beni materiali, quali l’assistenza sociale, il sostegno economico e l’organizzazione territoriale. La dimensione religiosa e il sostegno allo sviluppo territoriale costituiscono aspetti complementari e intrecciati, dai quali la DC attinge essenziali risorse di consenso grazie all’egemonia della Chiesa nel contesto locale (Trigilia 1986). Pertanto, non stupisce che in Veneto falliscano i tentativi – come quello perseguito da Amintore Fanfani (1908-1999) – di edificare un partito cattolico fortemente strutturato. Proprio a causa del peso prevalente dell’identità cattolica e anche del poderoso reticolo associativo che vede la Chiesa al centro, la DC è un classico esempio di partito a ‘istituzionalizzazione debole’ (A. Panebianco, Modelli di partito: organizzazione e potere nei partiti politici, 1982, p. 129), nato per legittimazione esterna, con la Chiesa come sponsor.
L’autentica ‘istituzione forte’ capace di produrre e riprodurre capitale sociale è la Chiesa, con la propria rete associativa, che organizza la società locale e persino l’attività delle istituzioni amministrative. In questo modo si consolida lo stereotipo, fortemente radicato nella cultura politica veneta sin dall’Ottocento, secondo cui chi opera al livello del governo locale non svolge un’attività politica, bensì amministrativa, entro un contesto nel quale l’attività dell’ente locale si orienta prevalentemente al contenimento di interventi e spese e all’appoggio esterno alla rete organizzativa cattolica, in particolare alle sue strutture creditizie e assistenziali.
In questo ruolo di mediazione tra centro e periferia la DC è percepita a lungo quale garante e interprete della società locale e il voto è la prova e la misura dell’appartenenza e della condivisione del sistema di significati e delle prassi prevalenti nella società locale stessa. Il reticolo associativo cattolico svolge una funzione di integrazione nel sistema politico di una vasta porzione di ceti medi e subalterni. Sarà a causa del progressivo attenuarsi dell’intervento della Chiesa sul terreno politico, a seguito dei nuovi fermenti rappresentati e riproposti dal Concilio Vaticano II, che il ceto dirigente democristiano dovrà sostituire le fonti di legittimazione di carattere religioso, per es. rivendicando il proprio ruolo centrale nel governo nazionale, con la conseguente disponibilità di risorse. Mentre negli anni Cinquanta le immagini delle formazioni partitiche appaiono nette in virtù della discriminante costituita dall’appartenenza religiosa, alcune ricerche condotte nel Veneto degli anni Ottanta evidenziano che, per valutare i partiti, l’appartenenza religiosa e quella di classe perdono rilevanza, soprattutto tra le componenti giovanili, mentre acquistano importanza i risultati concretamente prodotti, cioè l’efficacia, e la qualità dello stile operativo, ovvero l’efficienza (Allum, Diamanti, ’50-’80, vent’anni, cit.).
Passando dagli atteggiamenti ai comportamenti politici, la vicenda del Veneto ‘bianco’ nell’Italia repubblicana può essere suddivisa in due sottoperiodi: nel primo, che intercorre dalla conclusione della Seconda guerra mondiale fino al termine degli anni Sessanta, prevale una logica di appartenenza politica su basi di identità, in cui il voto alla DC costituisce un riflesso del ruolo di integrazione sociale e di orientamento culturale della Chiesa. Il secondo sottoperiodo, dagli anni Settanta ai primi anni Novanta, è caratterizzato dal processo di secolarizzazione e di pluralizzazione delle logiche degli attori nella società e da una crescente autonomia della DC dalla Chiesa. Questa fase coincide con il diffondersi degli effetti dello sviluppo economico e con la crisi che attraversa il mondo cattolico dopo le speranze suscitate dal Concilio Vaticano II. All’interno della DC si afferma il doroteismo ispirato da Antonio Bisaglia (1929-1984), in contrapposizione alla precedente conduzione di Mariano Rumor (1915-1990), ossia si impone un modello di azione politica orientato alla mediazione di interessi territoriali e di gruppo, di breve periodo, piuttosto che alla rappresentanza dell’identità cattolica.
Da partito di appartenenza religiosa la DC si trasforma in partito di amministratori che cerca di tutelare gli interessi del Veneto in ambito nazionale, rispecchiando e alimentando il processo di laicizzazione della società in ambito politico e ponendo le basi di una possibile trasmigrazione dei consensi verso formazioni politiche concorrenti. Non è casuale che i risultati elettorali della Liga Veneta nel 1983 raggiungano «il livello più elevato proprio nei comuni dove maggiore si rivela il declino della pratica religiosa nel ventennio precedente. Più esattamente, dove si osserva [...] la coincidenza tra un basso livello di frequenza alla messa e un alto livello di voto alla DC: nei comuni nei quali, di conseguenza [la Liga] disponeva di una base elettorale meno vincolata all’identità cattolica e, presumibilmente, caratterizzata da motivazioni diverse, di natura laica e/o strumentale» (Diamanti 1993, 19952, p. 51). La secolarizzazione lascia dunque affiorare un orientamento antico, quale il localismo antistatalista, non più mediato dalla Chiesa e dai corpi intermedi a essa collegati.
La riemersione della subcultura ‘rossa’ dopo il fascismo si caratterizza per la presenza dominante di un nuovo protagonista. È il Partito comunista italiano, nato nel 1921 dalla scissione dal Partito socialista, come piccolo partito di ‘quadri’. Durante il periodo di clandestinità imposto dal fascismo il PCI è l’unico partito a conservare una presenza organizzata. Con la fine della dittatura la strategia del PCI si colloca all’interno di un quadro costituzionale: secondo il suo leader, Palmiro Togliatti, il partito deve conseguire il potere attraverso mezzi legali nel quadro della Costituzione democratica. L’elemento rilevante è costituito dalla capacità del PCI di tesaurizzare l’ingente capitale di fiducia accumulato durante la Resistenza e nei Comitati di liberazione nazionale e di trasformarsi in un partito ‘nuovo’: un partito di massa. Il PCI si caratterizza per il radicamento organizzativo capillare e per il rigido meccanismo del ‘centralismo democratico’, in virtù del quale le decisioni prese dal centro del partito (Comitato centrale) vincolano tutte le sue componenti. Riprendendo lo schema proposto da Angelo Panebianco (Modelli di partito, cit.), a differenza della DC, si può considerare il PCI come un esempio di partito a ‘istituzionalizzazione forte’. Mentre nel caso della DC il sistema di relazioni significative per attivisti e simpatizzanti è in gran parte esterno al partito (legato alla Chiesa e alle associazioni collaterali), per gli attivisti del PCI il capitale sociale si sedimenta prevalentemente all’interno dell’organizzazione partitica, sia per effetto della conversione delle precedenti esperienze alla luce della nuova militanza, sia per effetto della nuova produzione mitopoietica alimentata dal partito attorno alla propria attività.
Il PCI condivide con la DC l’essere un partito avente una legittimazione esterna: lo sponsor dei partiti comunisti è il Comintern. Pertanto, il PCI si pone in una situazione ambigua: persegue l’integrazione nel sistema democratico, ma, al contempo, mantiene nella propria ragion d’essere (e nella relativa mitologia) il riferimento a un modello alternativo di società, vivificato dal legame con l’URSS. Tale situazione non si riflette soltanto nella ‘doppiezza’ della leadership, ma indica una potenziale divaricazione all’interno del partito lungo l’asse centro-periferia, fra la politica togliattiana di collaborazione nazionale e le aspettative rivoluzionarie coltivate dalla periferia del partito. Ne derivano due conseguenze: nonostante la rigida disciplina di partito, che differenzia il PCI dal PSI d’anteguerra, le componenti periferiche mantengono una certa irriducibilità, amalgamando l’identità politica con specifici elementi territoriali; inoltre, l’ambigua collocazione del partito si traduce nella presenza di atteggiamenti bifronti nella sua cultura politica. La promozione dei valori della Resistenza e della Costituzione convive infatti con il mito del sovietismo, soprattutto nella cultura politica della base comunista; questo profilo bifronte riemergerà nei momenti cruciali, in concomitanza con ipotesi di alleanza con altri partiti (come ai tempi del ‘compromesso storico’ negli anni Settanta), limitandone il potenziale di mobilitazione e alimentando la frattura ‘rokkaniana’ fra riformisti e massimalisti.
A livello locale, anche le zone ‘rosse’ subiscono profonde trasformazioni per effetto del fascismo e della transizione alla democrazia: laddove la subcultura ‘rossa’ era già presente nei primi anni del Novecento, come in Emilia-Romagna, l’avvento della dittatura evidenzia che i tratti subculturali, per quanto politicamente devitalizzati dal punto di vista politico, mantengono una straordinaria vischiosità riguardo all’identità sociale (Sivini 1971). Tuttavia, il fascismo induce una trasformazione decisiva favorendo il passaggio di egemonia dai socialisti ai comunisti.
Commentando una ricerca condotta in una zona specifica della Toscana a metà degli anni Ottanta, Mario Caciagli ha evidenziato che, per gli intervistati, il senso di appartenenza alla società locale si intreccia fortemente con un’identità collettiva antifascista, legata alla Resistenza: «Gli intervistati più anziani, ma anche molti fra i meno anziani, facevano sempre riferimento agli ideali dell’antifascismo e al lascito della Resistenza e indicavano fra le più forti motivazioni di voto al PCI la coerenza antifascista di questo partito [...]. È stato in particolare negli ex-mezzadri e nei figli dei mezzadri che abbiamo riscontrato questa profonda e ancora viva avversione al regime fascista, a distanza di quarant’anni e più dalla sua caduta. Di qui la nostra curiosità di risalire indietro nel tempo alla ricerca delle cause originarie di tale atteggiamento» (Caciagli 1988a, p. 286).
A differenza di molte zone dell’Emilia-Romagna e della stessa Valdelsa, in zone rurali come il medio Valdarno inferiore i socialisti non si erano ancora affermati agli inizi del secolo. Essi sono presenti soprattutto in prossimità delle prime concentrazioni industriali, ma per l’accentuata incomprensione della questione mezzadrile, i contadini restano fedeli all’orientamento liberalconservatore dei ceti dominanti e si avvicinano parzialmente alle associazioni cattoliche, pur meno radicate che in Veneto.
La Prima guerra mondiale moltiplica il potenziale di mobilitazione dei contadini toscani: le disastrose condizioni economiche dell’ultimo anno di guerra conducono nel novembre del 1918 al primo sciopero generale dei mezzadri. I risultati elettorali del 1919 premiano in modo netto i socialisti e in subordine i popolari e riflettono l’azione nelle campagne delle leghe rosse’ e ‘bianche’, che conduce nel 1920 a un nuovo patto colonico in grado di alleviare molti obblighi gravanti sui mezzadri.
Anche in Toscana il prezzo del mancato compromesso fra socialisti e popolari risulta molto elevato: i partiti di massa non riescono a strutturare la protesta, riducendo i propri consensi alle elezioni del 1921, in un contesto fortemente segnato dall’azione violenta delle squadre fasciste. L’azione dei fascisti, sostenuta dagli agrari, colpisce particolarmente i mezzadri: nel novembre 1922 il governo Mussolini rivede il patto colonico approvato solo due anni prima. La condizione mezzadrile viene ulteriormente peggiorata quando il contratto collettivo del 1928 restaura nelle campagne toscane gli antichi rapporti di potere che nel decennio precedente erano stati lievemente mitigati.
L’attività clandestina antifascista è sostenuta dal Partito comunista, protagonista di primo piano della Resistenza, la quale è vissuta dai mezzadri come lotta di classe e per l’affrancamento dagli antichi rapporti di soggezione. Il PCI riesce a diventare la forza egemone nelle campagne toscane già nel corso del 1944, assecondando le spinte rivendicative dei mezzadri e sostenendo le lotte agrarie immediatamente seguenti la fine della guerra. Tali esperienze di mobilitazione collettiva saldano ampi strati della società toscana al reticolo organizzativo gravitante attorno al PCI e alle relative idee guida.
Anche in questo caso affiora l’esistenza di una filigrana (‘rossa’ stavolta), in grado di coniugare le spinte alla modernizzazione con la salvaguardia di forme più antiche di capitale sociale. Infatti, nel dopoguerra la tensione al rinnovamento da parte dei nuovi ceti acquisiti alla subcultura ‘rossa’ non si limita alla partecipazione alle battaglie sindacali nelle campagne, ma si traduce nella disponibilità a modificare il proprio ruolo sociale tradizionale con l’ingresso dei mezzadri più giovani in fabbrica come operai e, in alcuni casi, come piccoli imprenditori (Trigilia 1986).
Tuttavia, alcuni fattori di mutamento appaiono molto marcati: a causa del clima della guerra fredda, i riferimenti al socialismo municipale (e da questo, a ritroso, al municipalismo medievale) risultano offuscati dal richiamo al mito dello Stato socialista, l’URSS, risalente agli entusiasmi delle masse contadine negli anni Venti, ma rafforzato nella temperie della Seconda guerra mondiale e alimentato anche nei decenni successivi. Inoltre, dagli anni Quaranta il paesaggio sociale della subcultura ‘rossa’ si caratterizza per il capillare radicamento del Partito comunista, che lo induce a costruire ‘una sezione per ogni campanile’.
Il PCI ha sempre avuto un numero di iscritti (in rapporto ai voti) fra i più alti d’Europa (Caciagli, 1993, p. 86), ma sul totale degli iscritti il peso delle regioni ‘rosse’ è sempre stato fortissimo. Dal 1946 al 1991 circa la metà degli iscritti al PCI è costituita da emiliani, toscani e umbri, mentre gli elettori di queste regioni hanno fornito al PCI circa un quarto dell’elettorato complessivo. In alcune province il rapporto voti/iscritti ha raggiunto livelli comparabili solo con quelli dei partiti austriaci e della socialdemocrazia svedese:
La fede nel partito e la tensione escatologica riversata sull’URSS nutrivano lo spirito di lotta e di resistenza degli operai e, soprattutto, dei mezzadri, nel primo decennio repubblicano, quando più dure furono le condizioni dei ceti subalterni. In quegli anni le regioni rosse si sentivano veramente un fortilizio assediato che resisteva all’oppressione del capitale e dei governi centrali, difendendo la sua autonomia e aspettando la palingenesi che doveva venire da Est. La subcultura territoriale divenne luogo di un’identità sempre più forte, ma rivolta tutta verso sé stessa, priva certamente di ogni pretesa di egemonia sul resto del paese. Se non altro perché la terra promessa era altrove. Il PCI rivolse strategia e politica a integrare le masse nel sistema democratico nazionale. Lo fece rivendicando l’origine dello Stato repubblicano dalla Resistenza, momento decisivo e simbolo tenace dei valori della subcultura rossa (Caciagli 1993, pp. 86-87).
Appare, tuttavia, un poco forzata la rappresentazione della subcultura ‘rossa’ proposta da Sartori ancora negli anni Sessanta, secondo la quale il centralismo democratico del partito, l’ideologia marxista e «una rete capillare e onnipresente [creano] aree sorde, impermeabili, vere e proprie isole senza accesso» (Bipartitismo imperfetto o pluralismo polarizzato?, «Tempi moderni» 1967, 31, pp. 1-34). Infatti, anche nelle zone ‘rosse’ esistono gli accessi per le altre forme di produzione culturale: sin dagli anni Quaranta tutta la stampa di informazione è anticomunista, in particolare nella zona ‘rossa’ (a Bologna con «Il Resto del carlino» e a Firenze con «La Nazione»), la radio – e in seguito la televisione – saranno per decenni sotto il controllo monopolistico del partito di maggioranza relativa. Inoltre, va considerato il ruolo della Chiesa, naturalmente presente anche in quelle zone. Negli anni Cinquanta la stampa cattolica produce circa 1800 pubblicazioni annue, per una diffusione complessiva di circa 16 milioni di copie, ossia più della metà dei periodici venduti in Italia (cfr. S. Lupo Partito e antipartito cit.; P. Allum, La Repubblica in bilico, Napoli 2005). Pur mantenendo sempre una forte disciplina interna, il PCI modificherà i rapporti con i soggetti sociali, una volta superato il periodo critico degli anni Cinquanta.
Passando dagli atteggiamenti ai comportamenti politici, come per il Veneto ‘bianco’, anche per le zone ‘rosse’ è possibile evidenziare alcuni sottoperiodi che segnano l’evoluzione della subcultura. Francesco Ramella (2005, pp. 49-57) individua tre fasi: radicamento, crescita, declino. La fase di radicamento si apre con le elezioni all’Assemblea costituente del 1946 e si conclude con le elezioni politiche nel 1958; essa segna il periodo di maggior isolamento nazionale e internazionale dei comunisti. Il PCI subentra – ampliandolo – all’insediamento dei socialisti, dedicandosi alla costruzione del ‘partito nuovo’, potenziando le funzioni di socializzazione e mobilitazione poitica. La fase di crescita intercorre fra il 1958 e le elezioni politiche del 1976, periodo nel quale il PCI guadagna consensi in tutta l’Italia centrale, sfiorando la maggioranza assoluta. Si tratta di un periodo di espansione economica, in cui il PCI attraverso i governi locali «svolge una funzione di sostegno alle piccole imprese e di mediazione del conflitto sociale, assicurando politiche infrastrutturali e servizi sociali che favoriscono il compromesso sociale fra le classi» (p. 51). Muta al contempo l’elettorato di riferimento (aumenta il peso dei ceti legati all’industria, dei ceti medi e del voto d’opinione), il sindacato matura una certa autonomia rispetto al partito e si rafforza la centralità dell’amministrazione locale. Rientra in tale intervallo l’istituzione delle regioni, che consente al PCI di proporsi come partito ‘di governo’, almeno a livello regionale.
Nel terzo periodo, quello del declino (dal 1976 al 1992), il PCI pur contenendo nella zona ‘rossa’ l’erosione del consenso elettorale rispetto al livello nazionale, dovrà affrontare le irrisolte questioni di fondo legate alla propria cultura politica e alla propria organizzazione.
Dagli anni Settanta, la riscoperta del ‘territorio’ in tutta Europa è dovuta a una molteplicità di cause. Alcune sono riconducibili alle trasformazioni economiche e al ruolo assunto da centri di regolazione extra-nazionali, quali l’affermazione di modi di produzione postfordisti o la reazione alla globalizzazione dei flussi produttivi.
La crisi dello Stato sociale keynesiano del dopoguerra e l’indebolimento dello stesso Stato nazionale di fronte alla globalizzazione dei processi economici possono favorire l’affermarsi di risposte difensive e letteralmente esclusive, basate sulla chiusura particolaristica della società locale nei confronti di quanto avvertito come estraneo. In questo caso, alla riscoperta ‘difensiva’ del territorio, non corrisponde necessariamente un ripiegamento nel privato o la cessazione di ogni attivismo civico. In altri termini, il capitale sociale può crescere ma riducendo l’estensione delle sue reti, che possono trasformarsi in confini invalicabili per quanti sono ritenuti ‘diversi’: è quanto Robert D. Putnam (Bowling alone: the collapse and revival of American community, 2000) definisce come «bonding social capital», un tipo di capitale sociale ‘esclusivo’, che resta indisponibile per quanti vengono esclusi dal gruppo o dalla comunità locale.
L’affiorare del particolarismo a livello locale, quale controspinta derivante dalla globalizzazione e dalle insicurezze a essa correlate, è un fenomeno che si diffonde, nel crepuscolo del Novecento, in quasi tutte le democrazie occidentali e tende a ridisegnare il profilo delle culture politiche locali con tratti di marcato neopopulismo. Tale tendenza costituisce una sfida per le subculture politiche territoriali italiane, essendo – sia quella ‘bianca’ sia quella ‘rossa’ – permeate di ideali e richiami universalisti che si combinano con il localismo presente nei territori. Di fronte al mutato contesto politico, internazionale e interno, emerge la difficoltà a recepire e interpretare l’emersione di nuove domande lungo la linea di frattura centro-periferia da parte dei partiti fondatori della Repubblica. Come ricordato in precedenza, la DC e il PCI avevano saputo presidiare a lungo questa linea di frattura, garantendo l’accesso delle periferie al centro del sistema politico nazionale. Negli anni Settanta, l’evoluzione proprio di quelle società locali (l’Italia centrale e nordorientale), unita all’empasse strategica dei partiti di riferimento e all’appannarsi della loro funzione di mediazione, ha favorito l’emersione di una nuova serie di domande di rappresentanza, modernizzazione ed efficacia delle politiche pubbliche. A sinistra, la ricezione di tali domande ha comportato l’acuirsi della linea di frattura fra socialisti e comunisti, che da sfida per la modernizzazione si è presto trasformata in conflitto a somma negativa per entrambi i partiti. Il PSI non supererà la stagione di tangentopoli e il PCI non riuscirà ad assumere pienamente un’identità socialdemocratica prima del crollo del Muro di Berlino. Costretto frettolosamente a cambiare nome e riferimenti simbolici, il ceto politico postcomunista darà vita a un partito della sinistra riformista, il Partito democratico della sinistra (PDS, poi Democratici di sinistra, DS), da cui uscirà la componente più radicale – che darà vita al Partito della rifondazione comunista – per trovare infine quale approdo il Partito democratico (PD), nato nel 2007 dall’incontro con i cattolici di sinistra. È il caso di rimarcare il permanere a lungo della ‘questione comunista’, che rappresenta uno dei principali fattori esplicativi del successo di Silvio Berlusconi dal 1994 in poi. Negli anni Novanta Berlusconi ha riattivato la linea di frattura comunismo-anticomunismo facendo riferimento ad alcune avversioni dell’elettorato di centro-destra, che identifica nel ‘comunismo’ elementi eterogenei: dallo statalismo, alla eccessiva pressione fiscale, alla presenza di partiti organizzati (G. Orsina, Il berlusconismo nella storia d’Italia, 2013).
All’interno della DC, i mutati atteggiamenti della periferia – e segnatamente del Nord-Est – sono elaborati nei primi anni Ottanta soprattutto dalle élites periferiche, fra cui si distingue il veneto Antonio Bisaglia, il quale propone alla DC veneta una soluzione federale ‘alla tedesca’. A livello centrale, ancora negli anni Settanta prevale l’attenzione per la linea di frattura Stato-Chiesa (evidente nei modi differenti tramite i quali Aldo Moro, 1916-1978, e Amintore Fanfani, affrontano la campagna per l’abrogazione della legge sul divorzio nel 1974). Continuare a identificare, come propone l’ultimo Fanfani, la DC quale ‘partito della Chiesa’ espone il partito medesimo agli effetti del processo di secolarizzazione che investe proprio in quegli anni l’intero Paese e che trasformerà in modo incisivo proprio l’Italia nordorientale. Viceversa, tentare di emancipare il partito dal proprio sponsor, la Chiesa, e presentarlo alla società civile quale principale soggetto modernizzatore del sistema politico e della società (al fine di competere con l’offerta politica del PSI di Craxi), come cercherà di fare Ciriaco De Mita nei primi anni Ottanta, espone il ceto dirigente democristiano a un duplice rischio:
a) contrapporre il partito alla fonte di legittimazione esterna, ossia le gerarchie ecclesiastiche (in Veneto, nel 1983 la DC perde 7,5 punti percentuali): proprio nel 1983, in cui la DC accusa la prima rilevante sconfitta nell’Italia nordorientale, la Liga veneta ottiene il 4,2% su base regionale con punte del 6-7 nelle province di Treviso e Vicenza, ed elegge i suoi primi due parlamentari (Diamanti, Riccamboni 1992);
b) rendere incerto il profilo ideologico del partito e pertanto offrirsi indeboliti alla concorrenza di neoformazioni partitiche di tipo autonomistico – la Liga veneta prima, la Lega Nord poi – che tematizzano la linea di frattura centro-periferia, attraverso mobilitazioni drammatizzanti e prassi politiche altamente simboliche, particolarmente adatte in un contesto sociale quale quello del Veneto, per decenni caratterizzato dalle mobilitazioni liturgiche di massa (Almagisti, Agnolin 2014).
La deflagrazione del sistema avviene negli anni Novanta, quando la scomparsa dell’URSS si ripercuote sul sistema politico italiano rendendo pienamente praticabile, per la prima volta dal 1945, l’accountability elettorale. Di conseguenza, negli anni Novanta lo scenario politico italiano cambia completamente quando parte del Nord decide di ritirare la delega alla DC per premiare un partito come la Lega che fa del riferimento immediato alla società locale il proprio stendardo. Il presidio della dimensione ‘locale’, peculiarmente curato nel Nord-Est, consente alla Lega di tematizzare sia la linea di frattura centro-periferia individuata da Rokkan sia il civic divide Nord-Sud identificato da Putnam, a lungo alternando la mobilitazione antistatalista e quella antimeridionalista e poi tematizzando la questione dell’immigrazione. In particolare, tesaurizzando l’eredità del localismo antistatalista incapsulato nella subcultura ‘bianca’, la Lega ha saputo interpretare e amplificare le proteste contro il fisco serpeggianti nell’intero Nord-Est, saldando a lungo, in questo modo, la rappresentanza degli interessi dei piccoli e medi imprenditori con quella del lavoro dipendente privato.
Molte riflessioni sono state dedicate ai diversi destini delle due principali subculture territoriali italiane e ai motivi che hanno consentito alla Lega di affermarsi nella zona ‘bianca’ ma non altrettanto in quella ‘rossa’ (Diamanti 2003; L’eredità 2009; Almagisti 2008; Messina 2012). In primo luogo, la Lega ha successo nell’Italia nordorientale perché riesce a intercettare e tematizzare tratti di lungo periodo della cultura politica locale (improntati al localismo antistatalista e all’anticomunismo). In secondo luogo, nella zona ‘bianca’ la Lega compete e poi si sostituisce a un partito, la DC, che dagli anni Settanta si trasforma gradualmente da partito ‘della Chiesa’ a partito ‘dello Stato’ e pertanto del centro (Diamanti 2003). Mentre nella zona ‘rossa’ la frattura centro/periferia è presidiata dal partito locale, prima il PCI, poi i suoi eredi, che manterranno viva l’alterità verso il centro nazionale. Inoltre, nonostante gli eventi del 1989 e il crollo, con il Muro di Berlino, dell’universo simbolico comunista che disorienterà non pochi militanti (cfr. Baccetti, Caciagli 1992), gli eredi del PCI riusciranno per lungo tempo a gestire l’eredità di un partito territorialmente radicato, fortemente istituzionalizzato e al centro di molteplici reticoli di fiducia sociale. Infine, per il PCI è sempre risultato strategico il ruolo degli enti locali della zona ‘rossa’, attraverso i quali risultava possibile legittimarsi quale forza di governo affidabile. Attraverso il controllo degli enti locali il ceto politico comunista ha garantito una regolazione dello sviluppo locale basata sull’intervento delle stesse istituzioni locali.
Pertanto, l’offerta politica della Lega trova un consenso limitato presso un elettorato, quello dell’Italia di mezzo, che ha in gran parte apprezzato lo stile amministrativo interventista degli enti locali (Messina 2012). In questo modo, gli eventi successivi al 1989 (crollo del Muro di Berlino, affiorare degli scandali di tangentopoli, l’incedere verso la moneta unica europea, che impedirà il ricorso alla svalutazione) erodono maggiormente gli equilibri della subcultura ‘bianca’ rispetto a quella ‘rossa’. È solo il caso di accennare in questa sede come la stessa introduzione dell’istituto regionale, negli ultimi decenni, abbia contribuito a rimarcare peculiarmente il profilo di ciascuna subcultura. Nella sua accurata analisi comparata fra Veneto ed Emilia-Romagna, Patrizia Messina (2012) ha evidenziato come le politiche regionali in Veneto si siano caratterizzate per la prevalenza di un modo di regolazione non interventista, a differenza delle regioni della zona ‘rossa’, che hanno privilegiato uno stile amministrativo interventista e inclusivo.
Questo ruolo maggiormente interventista e politico delle regioni ‘rosse’ può contribuire a spiegare il risultato di una ricerca svolta dall’ISTAT sui livelli di distribuzione del reddito, dalla quale risulta che la Toscana è la regione italiana con i minori livelli di disuguaglianza relativa fra le famiglie (ISTAT, Distribuzione del reddito e condizioni di vita in Italia (2005-2006), 2008, http://www.istat.it/salastampa/comunicati/non_calendario/20080117_01/testointegrale2008017.pdf, 10 nov. 2014). Naturalmente, da questa prospettiva, la possibilità che l’ente regionale, così come i comuni, riescano a dare un contributo per riprodurre consenso attorno a prassi e valori della subcultura ‘rossa’ è condizionata da alcuni elementi: primo fra tutti che i livelli del governo locale siano in grado di soddisfare aspettative mediamente più elevate in questa zona rispetto a quella ‘bianca’, poiché contengono la richiesta di un sostegno attivo allo sviluppo locale e, al contempo, all’integrazione sociale e alla perequazione delle risorse (Almagisti 2008). Tali obiettivi dai primi anni Duemila sono stati molto difficili da conseguire, e anche solo da rivendicare, a causa delle vicissitudini intercorse al partito di riferimento.
Una prima risposta nazionale alla crisi dei partiti di massa arriva dal sistema dei media: Silvio Berlusconi ha proposto agli italiani un modello politico nuovo, fondato sulla centralità del leader mediatico. Ilvo Diamanti (2003) ha descritto magistralmente questo tipo di offerta politica con l’immagine del partito senza territorio, in un contesto in cui il territorio continuava a contare (anzi, contava ancora di più). Nessun altro attore sulla ribalta politica italiana ha mai potuto replicare le condizioni tipiche della leadership di Berlusconi (e del conflitto d’interessi che la accompagna). Ma riverberi del modello di partito personale senza territorio si possono trovare anche in varie esperienze successive, pure a sinistra, e soprattutto nella proposta di Beppe Grillo con il Movimento 5 stelle (M5S).
Berlusconi ha trovato tra i propri alleati dei concorrenti insidiosi. La Lega ha impiegato a lungo la propria forza organizzativa e il proprio radicamento territoriale quali risorse politiche, rielaborando a suo modo l’eredità dei partiti fondatori della Repubblica: infatti, alla somiglianza organizzativa non corrisponde un’analogia ideologica. Le parole d’ordine della Lega fanno sempre riferimento immediato alle peculiarità delle società locali, mentre manca il richiamo alla dimensione universalista tipica dei partiti di massa del primo periodo repubblicano. Pertanto, la Lega ha rappresentato a lungo (dai primi anni Ottanta al 2011) una sorta di ‘ircocervo’ politico: il corpo del partito evoca il radicamento territoriale dei partiti di massa (segnatamente il PCI); tuttavia, il vertice del partito è costituito da un leader carismatico, fondatore e guida indiscussa. Tale equilibrio si mostrerà precario a causa dei limitati risultati conseguiti dall’esperienza di governo della Lega (le riforme in senso federalista sono varate, ma si bloccano poi in fase di implementazione) e si infrangerà nel 2011 quando alcuni scandali colpiranno il vertice del partito. Essendo l’offerta politica di Berlusconi tipicamente nazionale, sia la Lega sia le forze di centrosinistra (in particolare la componente del Partito democratico proveniente dalla sinistra classica) hanno puntato molto spesso sulla dimensione territoriale per differenziarsi agli occhi degli elettori.
Anche durante la lunga esperienza dei governi Berlusconi la Lega Nord è riuscita a presidiare il cleavage centro-periferia, in due modi: interpretando il ruolo di ‘sindacato del Nord’ – ossia provando a estremizzare l’intuizione di Bisaglia a favore di una politica apertamente localista – ed evocando attorno alla linea di frattura centro-periferia un ulteriore cleavage, ossia quello, ancora in corso di definizione, fra favorevoli e contrari alla globalizzazione. Tale cleavage è stato evocato indicando quale bersaglio polemico l’Unione Europea e di conseguenza l’euro. Si tratta di un elemento condiviso da molti partiti neopopulisti europei, che esternalizzano il conflitto centro-periferia accusando il nuovo centro (la UE) di essere troppo consenziente verso le banche, lontana dai cittadini, cedevole con gli immigrati. In particolare, la Lega tematizza soprattutto la questione dell’immigrazione, verso cui il partito fondato da Umberto Bossi ha sempre mostrato un atteggiamento di chiusura, anche in questo caso in linea con le posizioni delle formazioni neopopuliste che identificano nell’immigrazione una minaccia all’identità del territorio e della società locale. Tematizzando la questione dell’immigrazione in termini di capitale sociale bonding (cioè, come accennato, quello ‘esclusivo’, disponibile solo alla comunità locale), la Lega si è garantita a lungo un’efficace rendita di posizione che si è aggiunta ai suoi temi originari dell’anticentralismo e dell’antimeridionalismo. In termini più direttamente politici, non è del tutto azzardato ipotizzare il delinearsi di un cleavage fra le declinazioni bridging (cioè una gestione più inclusiva) del capitale sociale locale e quelle bonding, tale da contrapporre partiti favorevoli a politiche inclusive e integrative verso gli immigrati e partiti più orientati verso politiche esclusive e difensive. La tematizzazione drammatizzante della questione immigrazione, non solo da parte della Lega, durante le campagne elettorali, a cui si sono contrapposti gli inviti pacati a una riflessione più serena orientata proprio alla maggior integrazione degli immigrati di seconda generazione, da parte di altri soggetti – fra i quali, in primis la Chiesa, impegnata da anni nella produzione di quelle risorse integrative che l’Italia della ‘transizione infinita’ pare avere smarrito (Cartocci 1994), e il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano – sembrano alludere a tale polarità come a una possibile linea di frattura del sistema politico italiano. Anche il permanere di forti squilibri economici nelle diverse aree del Paese può lasciare spazi futuri alla politicizzazione in chiave localista della frattura centro-periferia. Tuttavia, per il momento si può osservare che le due modalità attraverso le quali la Lega ha presidiato il cleavage centro-periferia negli ultimi anni (‘sindacato del territorio’ e ‘baluardo anti-immigrazione’) non sono bastati a mettere il partito creato da Bossi al sicuro dalle pietre d’inciampo che le società locali possono riservare ai partiti. Proprio il cuore della subcultura ‘bianca’ torna a essere centrale nel momento in cui si compie la parabola della cosiddetta seconda repubblica. Se all’inizio degli anni Novanta il Nord-Est innesca la ‘transizione infinita’ lasciando la DC per la Lega, alle elezioni del 2013 in Veneto si stinge ogni traccia di egemonia leghista. La coalizione di destra è prima col 31,8%, davanti al M5S (26,3) e al centrosinistra (23,3). Ma come singolo partito è il Movimento 5 stelle, che in questa regione è riuscito a ottenere il suo primo sindaco, a primeggiare (26,3), davanti al Partito democratico, PD (21,3), al Popolo della libertà, PDL (18,7), con la Lega solo quarta (10,6; 16,6 punti percentuali in meno rispetto al 2008).
Nella nostra ricognizione sulle subculture abbiamo utilizzato l’analisi del voto nelle zone distrettuali come indicatore di cambiamenti significativi, poiché a queste aree corrisponde la presenza di ‘saper fare’ diffuso e di capitale sociale, ed esse spesso anticipano fenomeni di cambiamento che investono poi il resto della società (Almagisti, Riccamboni 2001; Almagisti, 2008). In effetti, sino alla fine degli anni Novanta notevole è la vischiosità del voto alla DC nei distretti più ‘bianchi’. Tuttavia, nelle fatidiche elezioni del 1983, che segnano l’inizio del declino della DC in Veneto, proprio nei distretti più ‘bianchi’ maggiore è il calo di voti per la DC: con una flessione regionale di 7,5 punti, la DC perde 11 punti nel distretto dell’oreficeria del Vicentino, 10,6 in quello dell’elettromeccanica di Montecchio maggiore, 10,2 in quello della calzatura sportiva di Montebelluna e 9,3 nel distretto conciario della Valle del Chiampo. Saranno queste zone a votare ampiamente la Lega nelle elezioni del 1992, che sanciscono la fine degli equilibri del dopoguerra e l’avvio dell’infinita transizione italiana.
Abbiamo rivisitato la mappa del voto distrettuale in occasione delle elezioni politiche del 2013 (M. Almagisti, N. Scarnera, Come è mobile il voto nei distretti veneti, «L’Unità», 2 luglio 2013). In tutti i distretti la Lega perde molti voti rispetto alla sua ottima performance del 2008, soprattutto nelle sue zone di forza (come la Valle del Chiampo). Anche il PDL di Berlusconi subisce un calo generalizzato dei consensi, perdendo in Veneto 8,7 punti percentuali rispetto al 2008 (da 27,3% a 18,7), perdendo punti in tutti i distretti, da un minimo di 3 a un massimo di 11,4. Nell’insieme dei distretti veneti, rispetto al 2008 il PDL perde 8 punti percentuali. Dal calo delle due formazioni maggiori del centrodestra il PD non trae vantaggio, registrando 5,2 punti in meno a livello regionale (dal 26,5% al 21,3) e perdendo punti in tutti i distretti, da un minimo di 1,4 a un picco di 6,9 nella Riviera del Brenta, storicamente zona di forza della sinistra.
L’analisi del voto che abbiamo compiuto a livello distrettuale conferma che la fase attuale deve essere considerata un crinale significativo della storia politica del Veneto, in cui si sono aperte finestre di opportunità per forze differenti dal centrodestra. Il M5S, che ottiene il 26,3% a livello regionale, si afferma in tutti i distretti in modo relativamente uniforme (25,4 in media nelle aree distrettuali), con un minimo di 21,6 nella Valle del Chiampo e un massimo di 31,5 nella zona ‘rossa’ della Riviera del Brenta, segno di una capacità di penetrazione del Movimento di Grillo anche nei tradizionali elettorati della sinistra veneta.
Al contempo, anche la zona ‘rossa’ ha evidenziato segnali di logoramento, e si sono verificati casi eclatanti di cattivo funzionamento delle istituzioni politiche locali che hanno pregiudicato la nomea di buon governo, solitamente attribuita alle amministrazioni di tale porzione d’Italia. Qui finora è prevalsa la continuità nelle scelte di voto e negli orientamenti culturali e il centrosinistra ancora prevale nettamente, ma i risultati elettorali del febbraio 2013 invitano alla prudenza riguardo alle previsioni per il futuro. Infatti, il PD risulta primo partito in Toscana, Emilia Romagna e Umbria (rispettivamente con il 37,5%, il 37 e 32,1), ma si deve confrontare con un M5S quale seconda forza che riesce a conseguire anche in queste regioni risultati notevoli (rispettivamente 24, 24,6 e 27,2%). Anche qui indicazioni utili possono arrivare dall’analisi del voto nei Sistemi economici locali (SEL), realtà paragonabili ai distretti industriali (M. Almagisti, N. Scarnera, Come sta cambiando il voto al Pd in Toscana, «L’Unità», 23 nov. 2013). Nel 2013 in 25 sistemi economici locali su 42 cala l’affluenza rispetto al 2008. Il PD ottiene il 37,5% dei voti validi, il M5S 24% e il PDL 17,5%. In tutti i SEL toscani il PD peggiora rispetto alle elezioni precedenti; in 17 SEL su 42 il PD perde più di 10 punti percentuali rispetto al 2008. Anche il PDL arretra ovunque: in 41 SEL su 42 perde più di 10 punti percentuali (e in 10 perde più di 15 punti; in 6 di questi il M5S supera il 28,4%).
L’arretramento di PD e PDL oltre a incrementare l’astensione premia il M5S. In 4 SEL toscani predomina la formazione di Grillo (area grossetana, Costa d’Argento, Massa Carrara e Versilia). La peggior affermazione del M5S è il 18% in Val di Sieve (area di forza del PD che si conferma al 50%), ma la media del voto al M5S nei SEL toscani è del 24,3%. Questo risultato lusinghiero della formazione di Grillo si inscrive in una tendenza all’erosione del tradizionale voto di appartenenza verso le forze del centrosinistra nell’Italia centrale, che precede il debutto elettorale dello stesso M5S. Anche in Toscana, pertanto nessuna forma di consenso oggi può essere data per scontata. L’indebolimento organizzativo del partito di riferimento e le sue incertezze ideologiche – in assenza, in molti casi, dello stimolo costituito da un’alternativa di centrodestra effettivamente competitiva – hanno inciso negativamente sul controllo di qualità della classe politica e sull’efficacia di alcune scelte di policies (C. Trigilia, Il Monte dei Paschi senza il Pci, «Il Mulino», 28 genn. 2013, http://www.rivistailmulino.it/news/newitem/index/Item/News:NEWS_ITEM:1981, 10 nov. 2014). Quando una pluridecennale eccellenza amministrativa è divenuta materia di dubbio, rendendo incerta la riproducibilità dello sviluppo locale, è emersa l’insofferenza di parte dell’elettorato di sinistra nei confronti dell’apparato del partito. In aggiunta a tale aspetto, la stessa entità della crisi economica ha contribuito a mettere in discussione elementi tipici della subcultura ‘rossa’, quali l’inclusione sociale e la solidarietà. Di fronte a tali processi sono messe alla prova le stesse risorse del rigoglioso tessuto associativo, nonché le tradizioni civiche di antica ascendenza (La politica cambia, 2011). In tal senso, il venir meno dell’incapsulamento di questi valori nella subcultura ‘rossa’ sembra recare con sé anche l’erosione dello storico legame di fiducia fra cittadini e istituzioni locali e regionali che della subcultura ‘rossa’ costituiva un elemento tipico (Floridia 2013). Al riguardo, segnaliamo che la stessa nascita del PD ha costituito un elemento di discontinuità rispetto alla storia politica della subcultura ‘rossa’. Infatti, nei simboli del PD il ‘rosso’ è semplicemente un colore fra gli altri (il verde e il bianco del simbolo tricolore), e manca nel simbolo del partito un richiamo esplicito al socialismo. Inoltre, l’ascesa del nuovo leader del PD, Matteo Renzi, ex sindaco di Firenze e molto popolare in quest’area, costituisce anch’essa un elemento di novità dirompente, che di fatto riflette e accelera il processo di laicizzazione della subcultura: l’iter politico di Renzi si svolge all’esterno delle strutture del partito postcomunista e la polemica accesa contro il ceto politico della sinistra più tradizionale costituisce uno degli elementi significativi del suo successo. In queste aree, le consistenti reti locali di attivismo civico hanno smesso da anni di ritenere le istituzioni locali e i partiti di sinistra quali interlocutori ‘naturali’, evidenziando altresì la difficoltà di ricostruire proficue connessioni con essi.
Grillo e il M5S hanno mostrato di aver compreso la portata della sfida delle elezioni politiche del 2013, in vista delle quali stava affiorando prepotentemente un’insoddisfazione diffusa verso l’offerta politica della seconda repubblica. Pur ancorato alla figura centralizzatrice del suo leader-mattatore, il M5S ha saputo efficacemente modulare i suoi messaggi nei differenti contesti locali, riattivando creativamente i cleavages e ottenendo risultati eccellenti nelle zone tradizionali delle subculture ‘bianca’ e ‘rossa’. Nelle prime, il M5S ha saputo approfittare della crisi verticale di consenso alla Lega rilanciando le parole d’ordine del localismo antistatalista, prendendo posizione contro l’invasività della leva fiscale e, spesso, anche contro gli effetti collaterali dell’immigrazione. Invece, nelle zone ‘rosse’, i pentastellati hanno incalzato i partiti di centrosinistra accusandoli di chiusura oligopolistica, autoreferenzialità e incapacità di garantire il buon governo. Nell’Italia centrale «segmenti significativi di cittadini, con un’elevata propensione all’impegno civico, hanno trovato nel M5S una sorta di canale di accesso privilegiato alle istituzioni e uno strumento per esprimere una cultura politica che assegna comunque un valore positivo alla partecipazione e alla militanza» (Floridia 2013, p. 49).
L’incrinarsi delle appartenenze tradizionali apre scenari di grande incertezza politica in entrambi i contesti caratterizzati negli ultimi decenni dalla presenza delle subculture politiche territoriali e pone in evidenza un interrogativo urgente sulla nuova offerta partitica che si sta delineando a livello nazionale, ovverosia se essa sarà in gradi di intercettare il capitale sociale locale.
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