Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Esigenze razionali e attenzione continua al rapporto uomo-natura orientano le poetiche settecentesche verso i precetti del sensismo filosofico. La discussione si sposta così dalle regole di produzione alla fenomenologia dei processi di percezione. L’eredità classicistica e il rifiuto del decorativismo barocco sono i presupposti di una specifica “metafisica del bello” ed è all’interno dell’analisi razionale che le nuove teorie percettive conducono agli spazi sempre più insondabili dell’interiorità.
Dal buon gusto al piacere
Le persistenze della sensibilità barocca vengono temperate attraverso il razionalismo cartesiano nel momento in cui alle meraviglie dell’“ingegno” si sostituisce la nettezza del “buon gusto”. Longino fa così il suo ingresso in Arcadia. Respingendo l’arbitrarietà della fantasia, il nuovo classicismo cerca di integrare il lato oscuro, misterioso della sensibilità nell’indeterminatezza del “non so che” e nella temperanza del “buon gusto”. Per Ludovico Antonio Muratori nelle Riflessioni sopra il buon gusto nelle scienze e nelle arti (1708) i vecchi temi della meraviglia e dell’ingegno vanno appunto sottoposti alla sorveglianza del “buon gusto” per favorire un compromesso tra fantasia e ragione, in modo che la funzione dello scrittore e dell’intellettuale non si allontani dall’insegnamento del “vero” e del “buono”.
Contro gli arbitri del marinismo, si fa comunque strada l’idea, poi genialmente rielaborata da Giambattista Vico, che la fantasia segua regole generali. E per Gian Vincenzo Gravina più austero del trattato Della ragion poetica (1708), le regole di stampo cartesiano devono tradursi in un programma poetico che, sul modello di Omero e di Dante, crei “favole” con un preciso contenuto morale, capaci di educare, attraverso la forza dell’immaginazione, un pubblico desideroso di verità.
Ma la ricerca di una dimensione universale e precettistica della letteratura non può far dimenticare la varietà e il relativismo delle sensibilità individuali. Il bisogno di affrontare temi più soggettivi si traduce anche nei nuovi generi usati per esprimere un pensiero libero dai pregiudizi. Le discussioni sull’arte prendono la forma dell’articolo di giornale, del saggio breve, del pamphlet, tutti strumenti comunicativi che coinvolgono il destinatario ed esigono, anche per la rapidità di fruizione, risposte immediate. I giovani intellettuali del “Caffè” intraprendono un’operazione di questo tipo, avendo alle spalle una cultura dove a Cartesio si sono ormai sostituiti l’empirismo e l’associazionismo di provenienza inglese, per cui acquistano nuovo valore i prodotti del desiderio e dell’immaginazione individuale, variabili a seconda del soggetto e della situazione. Il concetto di “piacere” sostituisce la vecchia “meraviglia” barocca, e la discussione sul bello coincide col bisogno di eliminare o contenere gli effetti tetri e devastanti della noia.
Pietro Verri scrive un Discorso sull’indole del piacere e del dolore (pubblicato anonimo nel 1773) dove gli effetti lenitivi dell’arte sono inquadrati all’interno dell’indefinito scontento che la vita produce. Se il piacere, platonicamente, non è altro che cessazione del dolore, “sensibilità”, “entusiasmo”, “passione” definiscono i concetti del nuovo vocabolario estetico. Alla considerazione che tutte le “belle arti” hanno per base “dolori innominati”, consegue che “questi mali sono la sorgente di tutti i piaceri più delicati della vita” e che la “tristezza” è la condizione di partenza per raggiungere, attraverso gli effetti dell’opera d’arte, “un piacer fisico reale”.
Viene meno così l’idea di un bello uniforme, prodotto della norma, e si moltiplicano le categorie capaci di rendere la varietà di stimoli impliciti nella rappresentazione artistica. Cesare Beccaria, citando esplicitamente John Locke ed Étienne Bonnot de Condillac, intraprende le sue Ricerche intorno alla natura dello stile (1770) per ritrovare all’origine dei “sentimenti” i “principi motori” del fenomeno artistico. Già in un precedente Frammento sullo stile (uscito sul “Caffè” nel 1765), il metodo analitico aveva definito e privilegiato le “idee accessorie” come costitutive, rispetto alle “idee principali”, della diversità dello stile, cioè dell’individualità. Specifico della poesia è proprio il risvegliare “più sensazioni insieme”, presentandole nella concentrazione della “miniatura”, ancora più efficace del vero.
Messa in gioco è pur sempre la sensibilità del lettore, stimolata incessantemente dall’associazione “di pensieri, di immagini, di sentimenti”.
Il primitivo e il sublime
Alla crisi del concetto di bello non può non corrispondere la ricerca di alternative che sostituiscano la chiarezza e la regolarità classica. La rilettura dei concetti muratoriani di “meraviglioso” e di “ingegno” condotta nel 1769 da Saverio Bettinelli con il trattato Dell’entusiasmo delle belle arti, porta alle nozioni di “inusitato” e di “sublime”, capaci di servire un “estro” creativo libero da regole e modelli, ma ripiega poi queste novità terminologiche verso una tradizionale e convenzionale “sprezzatura”, cioè verso una categoria che rimane solo stilistica.
Un vero cambiamento di orizzonti si trova nel panorama inglese, dove poesia e teoria collaborano al formarsi di una nuova sensibilità, quella appunto che prende il nome dal concetto di “sublime”. Indagine filosofica sulle origini delle idee del sublime e del bello viene pubblicata da Edmund Burke nel 1756. L’autore, studioso di John Milton, conosce le teorie del bello di provenienza scozzese (Hutcheson, Shaftesbury) e tedesca (Wolff, Baumgarten), ma sono le considerazioni sul sublime che riescono a spezzare per sempre le rigide convenzioni classiciste. Già nel secolo precedente la traduzione francese dello Pseudo Longino di Nicolas Boileau aveva distinto un sublime puramente retorico da un sublime legato alla passionalità. E la psicologia empirista, lockiana, concede a Burke di ricondurre il problema alla psicologia delle passioni e ai fenomeni naturali capaci di eccitarle, dal momento che sublime è “ciò che produce la più forte emozione che l’animo sia capace di sentire”.
A una logica che ricercava la regola e la chiarezza se ne sostituisce un’altra attratta dall’indefinito e dal misterioso, effetti provocati dalla presenza minacciosa della natura. È infatti lo spettacolo naturale a suscitare stupore e orrore, sentimenti che portano la sensibilità dell’uomo verso il dolore, verso cioè quella “privazione” che si manifesta nel vuoto, nel silenzio, nell’oscurità e nell’infinito. Ma proprio il controllo di queste situazioni permette all’uomo di godere un “dilettoso orrore”, un piacere negativo che riempie l’animo e agisce sulla sensibilità. Accanto al piacere negativo che nasce dal sentirsi salvi al cospetto di forze distruttive, il sublime provoca un’intensità di sensazioni che rinnova l’intera dinamica delle pulsioni umane e che poi, con Immanuel Kant, ristabilisce il valore della riconquista di sé da parte del soggetto senziente.
Non per niente è stato sottolineato che dietro Burke è già iniziata la tradizione dell’elegia funebre e la moda dei cimiteri e delle rovine, con opere come Pensieri notturni sulla Vita, la Morte e l’Immortalità (1742-1746) di Edward Young e Il sepolcro di Robert Blair. Cupe meditazioni sulla morte e sul dolore universale vengono ambientate in lugubri luoghi notturni e la “sensibilità” favorisce la moda del selvaggio, del primitivo, del pittoresco. L’ammirazione per le rovine gotiche rientra nel bisogno di verificare in un contesto selvaggio la ribellione verso ogni tipo di regola, così come in Shakespeare, secondo Alexander Pope nella Prefazione a Shakespeare, la maestosità di un monumento gotico si impone rispetto alle proporzioni degli edifici moderni.
Nello stesso tempo la ricerca dell’eccesso incontrollabile non esclude un bisogno catartico, come se il sublime e il primitivo venissero evocati per tenerli sotto controllo, perché la loro forza non arrivi a distruggere l’individuo. Mark Akenside discute nel suo poemetto I piaceri della fantasia (1744) del bello e del sublime, ma rifiuta anche la barbarie gotica per rivolgersi ancora una volta alla purezza del mondo greco.
Se le opere di William Collins e di Thomas Gray cercano di recuperare un linguaggio poetico primitivo e alto per l’espressione di passioni intense (suscitando spesso le critiche di Samuel Johnson) è solo l’operazione di James Macpherson che riesce a convincere dell’esistenza di una poesia epica che rivela la forza di un mondo primitivo colto nelle espressioni di massima sensibilità. Anche se il poeta si rifà a frammenti di autentiche ballate gaeliche, i 22 poemetti in prosa ritmica che vedono la luce tra il 1760 e il 1773 sotto il nome di Ossian, leggendario guerriero e poeta gaelico, sono il frutto di una falsificazione presto smascherata. Le atmosfere notturne, la violenza dei paesaggi nordici, le gesta guerresche e amorose dei personaggi si diffondono comunque in tutta Europa e, per l’Italia, la traduzione di Melchiorre Cesarotti (1763 e poi 1801) riesce ad addomesticare una nuova sensibilità rendendola conforme a quel misto di grazia e barbarie che ancora richiedeva il retaggio classicistico italiano. Ed è proprio Cesarotti, nel suo commento al testo, a notare come “gli uomini rozzi e appassionati singolarizzano e parlano per sentimenti”, mettendo quindi in correlazione questa qualità essenziale del linguaggio poetico con le teorie di Vico, “uno de’ più sublimi ingegni d’Italia, il quale prima d’ogni altro, nel principio di questo secolo, rintracciò l’origine della poesia”.
James Macpherson
Invocazione alla luna
Poesie di Ossian
Figlia del ciel, sei bella; è di tua faccia
Dolce il silenzio; amabile ti mostri,
E in orïente i tuoi cerulei passi
Seguon le stelle; al tuo cospetto, o luna,
Si rallegran le nubi, e il seno oscuro
Riveston liete di leggiadra luce.
Chi ti pareggia, o della notte figlia,
Lassù nel cielo? In faccia tua le stelle
Hanno di sé vergogna, e ad altra parte
Volgono i glauchi scintillanti sguardi.
Ma dimmi, o bella luce, ove t’ascondi
Lasciando il corso tuo, quando svanisce
La tua candida faccia? Hai tu, com’io,
L’ampie tue sale? o ad abitar ten vai
Nell’ombra del dolor? Cadder dal cielo
Le tue sorelle? o più non son coloro
Che nella notte s’allegravan teco?
Sì, sì, luce leggiadra, essi son spenti,
E tu spesso per piangerli t’ascondi.
Ma verrà notte ancóra che tu stessa
Cadrai per sempre, e lascierai nel cielo
Il tuo azzurro sentier; superbi allora
Sorgeran gli astri, e a rimirarti avranno
Gioia, che prima avevano vergogna.
Ora del tuo splendor tutta la pompa
T’ammanta, o luna. O tu nel ciel riguarda
Dalle tue porte, e tu la nube, o vento,
Spezza, onde possa la notturna figlia
Mirar d’intorno, e le scoscese rupi
Splendanle incontro, e l’oceàn rivolga
Nella sua luce i nereggianti flutti.
in Orfeo. Il tesoro della lirica universale, Firenze, Sansoni, 1974
Dal sensismo al sublime, la discussione poetica sta inseguendo una dimensione originaria del linguaggio che modificherà profondamente lo statuto stesso della poesia.
Romanzo gotico
Se in tutta Europa la diffusione della Nouvelle Héloïse di Jean-Jacques Rousseau porta a un culto esasperato dei sentimenti, in Inghilterra l’interesse per il gotico e per la forte emotività posseduta da epoche primitive lancia la moda del romanzo gotico. Capostipite ne è Il castello di Otranto di Horace Walpole, che tenta programmaticamente di unire gli eccessi della fantasia alla rappresentazione della natura. La storia, impregnata di atmosfere shakespeariane, si immagina ricavata e tradotta da un originale italiano stampato a Napoli nel 1529 e accumula materiali eterogenei intorno a una vicenda di violenza e seduzione perpetrata appunto dal tiranno di Otranto.
Ma sensazionalismo, atmosfere medievali, sensualità e santità segnano le origini di un successo e di una lunga serie di imitatori: da Clara Reeve, con The Champion of Virtue, a Gothic Story (1777), a Charlotte Smith, con Emmeline, o l’orfano del castello (1788), ad Anne Radcliffe con I misteri di Udolfo (1794) e L’Italiano (1797), che riprende ancora una volta l’ambientazione italiana.
Capolavoro del genere rimane però Il monaco (1796) di Matthew Gregory Lewis, dove risulta chiaro come, nel romanzo gotico (e poi nel melodramma ottocentesco, che spesso ne recupera temi e atmosfere), l’influenza del sublime abbia prodotto un’attenzione continua per quelle forze spirituali e occulte nel quotidiano che ora ritornano alla luce quasi in reazione alle pretese eccessive del razionalismo che aveva caratterizzato la prima metà del secolo.
Privilegiando luoghi occulti e sotterranei, così come la poesia privilegia atmosfere cimiteriali, il romanzo gotico cerca di scandagliare e portare alla luce le forze nascoste che ossessionano l’immaginario di fine secolo e che trovano un perfetto corrispondente nella volontà del marchese de Sade di esaurire l’intera fenomenologia dei crimini cui può soggiacere la natura umana. È arrivata così all’eccesso l’idea che l’unico obiettivo artistico debba essere il piacere dell’uomo.