SUBLIME
. Concetto estetico-etico, che ha le sue origini nell'antichità classica e torna ad essere oggetto di discussioni e sistemazioni dottrinali nelle teorie dell'arte del Sette e dell'Ottocento. Documento capitale di quel primo periodo della sua storia è il trattato Περὶ ὕψους, De sublimitate, che, composto nel sec. II d. C. da uno scolaro di Teodoro di Gadara in polemica con uno scritto omonimo e non superstite di Cecilio da Calatte, fu poi attribuito per errore a Cassio Longino (v.). In esso col nome di ὕψος (letteralmente "altezza", onde la posteriore equiparazione al termine sublimitas, sublime) è designato in generale il valore per cui un oggetto manifesta la sua "eccellenza" estetica: e siccome l'autore non mira, come Cecilio da Calatte, a determinare i caratteri obiettivi che costituiscono la sublimità, ma piuttosto cerca di mostrare per quali vie si possa innalzare l'animo al senso del "sublime", così gli accade di attribuire al concetto un contenuto non soltanto estetico ma anche, in certa misura, etico.
Questa sintesi del momento estetico con quello morale si mantiene anche nella forma che il concetto del sublime assume presso i teorici della seconda metà del Settecento, quali il Home, il Burke, e, massimo fra tutti, Emanuele Kant. Nella sua Critica del giudizio si può dire, anzi, che tale sintesi costituisca il motivo determinante di quella distinzione del sublime dal bello, che non sussisteva nella concezione classica e che qui invece assume importanza capitale (tutta l'"analitica del giudizio estetico" si scinde, nell'opera kantiana, in un'"analitica del bello" e in un'"analitica del sublime"). Mentre il bello, infatti, risulta dall'accordo tra la facoltà rappresentativa e i concetti dell'intelletto, nel sublime si ha invece una specie di sintesi tra quella facoltà e le idee delle ragione: se il bello è perciò, in base all'applicabilità dei concetti dell'intelletto all'intuizione della natura, rappresentazione limitata e armonica, il sublime risulta invece dall'effetto che una rappresentazione della natura produce in quanto, col suo senso di grandezza o potenza smisurata, richiama per reazione l'idea di ciò che è veramente infinito, cioè il regno noumenico della ragione, che è quello stesso della libertà morale. S'intende così la definizione kantiana secondo cui "il sublime è un oggetto della natura, la cui rappresentazione determina il sentimento a concepire l'irraggiungibilità dei limiti della natura come rappresemazione di idee della ragione". Il sublime si distingue poi, per Kant, in "sublime matematico" e in "sublime dinamico" a seconda che quella illimitatezza naturale si manifesta nel senso dell'estensione (p. es., nell'immensità dei cieli) o in quello della potenza (p. es., nell'oceano in tempesta). Alla concezione kantiana tengono sostanzialmente fermo, pur nelle variazioni particolari, tutte le altre teorie del sublime propugnate nell'estetica tedesca dell'Ottocento; mentre l'estetica contemporanea, e in particolare quella italiana, ha eliminato il problema stesso del sublime, risolvendone per un lato il concetto in quello generale del valore artistico e per l'altro lato dimostrandone il carattere extraestetico.
Bibl.: Per la concezione classica del "sublime", v. A. Rostagni, Il "sublime" nella storia dell'estetica antica, in Annali della R. Scuola normale superiore di Pisa, s. 2ª, II (1933), fasc. 1 e 2. Sulla storia ulteriore del concetto: K. Seidl, Zur Geschichte des Erhabenheitsbegriffes, 1899.