Successione e incostituzionalità di discipline penali
La disciplina della successione di leggi penali nel tempo e quella della dichiarazione di illegittimità costituzionale della norma penale continuano a registrare nuove applicazioni da parte delle Sezioni Unite penali, la cui giurisprudenza evidenzia un’evoluzione delle categorie riguardanti i due fenomeni normativi, che, pur tra loro profondamente diversi, presentano sempre più spesso dei punti di contatto. Significativa in proposito l’evoluzione della categoria dell’illegalità sopravvenuta della pena, che sembra manifestare una sorta di forza espansiva: dalla dichiarazione di incostituzionalità della norma riguardante i profili sanzionatori del reato a vicende normative riguardanti la stessa successione di leggi penali nel tempo.
SOMMARIO 1. La ricognizione 2. La focalizzazione 2.1 Incostituzionalità e norma penale in bianco 2.2 Incostituzionalità e norma più favorevole 2.3 Superamento del giudicato 3. I profili problematici
Le categorie sulle quali si basa la disciplina della successione di leggi penali nel tempo e della dichiarazione di incostituzionalità della norma penale hanno recentemente formato oggetto di importanti applicazioni e di significativi sviluppi ad opera delle Sezioni Unite.
Due sentenze hanno riguardato la caducazione della norma incriminatrice: la sentenza Cass. pen., S.U., 26.2.2015, n. 29316, dep. 9.7.2015, De Costanzo, che in materia di stupefacenti ha ravvisato una parziale “ablazione della fattispecie” incriminatrice a seguito della caducazione della norma di fonte secondaria richiamata da una norma incriminatrice parzialmente in bianco (fenomeno non costituente propriamente l’abolitio criminis, in quanto originato da una sentenza di incostituzionalità e non da un intervento legislativo); e la sentenza S.U., 31.3.2016, n. 22474, dep. 27.5.2016, Passarelli, la quale ha escluso che la modifica dell’art. 2621 c.c. (False comunicazioni sociali) e dell’art. 2622 c.c. (False comunicazioni sociali delle società quotate) ad opera della l. 27.5.2015 n. 69 abbia determinato un’abolitio criminis rispetto al falso valutativo1.
Con tre sentenze in materia di stupefacenti le S.U. hanno poi stabilito l’applicabilità, anche con superamento del vincolo del giudicato, della disciplina sanzionatoria più favorevole ritornata applicabile in forza della sentenza della C. cost., 25.2.2014, n. 32, che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale degli artt. 4 bis e 4 vicies ter del d.l. 30.12.2005, n. 272, conv. con mod. dall’art. 1, co. 1, l. 21.2.2006, n. 49 (cd. l. Fini-Giovanardi)2.
Si tratta di un ulteriore sviluppo della categoria dell’illegalità sopravvenuta della pena, derivante dalla dichiarazione di incostituzionalità di norme attinenti al profilo sanzionatorio del reato, che conferma le connessioni esistenti tra successione di leggi penali nel tempo e dichiarazione di incostituzionalità della norma penale.
Si ricorderà in proposito che proprio nella sentenza n. 32/2014 la Corte, nell’affermare che la dichiarazione di incostituzionalità rende nuovamente applicabile l’art. 73 t.u. stupefacenti nel testo introdotto dalla l. 26.6.1990, n. 162 (cd. l. Iervolino-Vassalli), ha precisato, quanto agli effetti della pronuncia sui singoli imputati, che «è compito del giudice comune, quale interprete delle leggi, impedire che la dichiarazione di illegittimità costituzionale vada a detrimento della loro posizione giuridica, tenendo conto dei principi in materia di successione di leggi penali nel tempo ex art. 2 c.p., che implica l’applicazione della norma penale più favorevole al reo»3.
Che le discipline della successione di legge penali nel tempo e della dichiarazione di incostituzionalità della norma penale non abbiano tuttavia trovato ancora un assetto stabile è dimostrato dalle sentenze Cass. pen., S.U., 26.6.2015, n. 46653, dep. 25.11.2015, Della Fazia (in tema di applicabilità della legge più favorevole sopravvenuta anche a fronte di ricorso inammissibile) e Cass. pen., S.U., 29.10.2015, 26259, dep. 23.6.2016, Mraidi (in tema di revoca di sentenza di condanna passata in giudicato e abolitio criminis avvenuta antecedentemente al fatto).
Come anticipato, le novità più significative intervenute in materia di diritto intertemporale negli ultimi due anni sono state tutte innescate dalla sentenza C. cost. n. 32/2014. Almeno tre ordini di problemi meritano qui speciale attenzione:
a) le conseguenze della dichiarazione di illegittimità costituzionale di una norma penale in bianco;
b) le conseguenze della dichiarazione di illegittimità costituzionale rispetto all’individuazione della norma più favorevole applicabile all’imputato;
c) le ricadute di una dichiarazione di illegittimità costituzionale del solo quadro sanzionatorio previsto da una norma incriminatrice rispetto alle sentenze passate in giudicato.
La sentenza C. cost. n. 32/2014, rendendo nuovamente applicabile l’art. 73 t.u. stupefacenti (con le relative tabelle delle sostanze stupefacenti e psicotrope) vigente al momento dell’entrata in vigore del d.l. n. 272/2005, dichiarato incostituzionale, ha posto il problema della punibilità delle condotte aventi ad oggetto sostanze incluse (originariamente o a seguito di integrazione successiva) nelle tabelle caducate a seguito della dichiarazione di incostituzionalità, ma non incluse nelle tabelle ritornate applicabili a seguito della dichiarazione stessa.
Per risolvere il problema, il d.l. 20.3.2014, n. 36, conv. con mod. dalla l. 16.5.2014, n. 79 ha introdotto nuove tabelle, basate sulla distinzione tra droghe pesanti e droghe leggere, ripristinata a seguito della dichiarazione di incostituzionalità ed includenti le sostanze che erano inserite nelle tabelle caducate.
Da subito è stato evidenziato in dottrina che ciò non ha evitato l’ormai intervenuta abolitio criminis (termine qui usato estensivamente, in quanto applicato ad una peculiare vicenda normativa originata da una sentenza di incostituzionalità) rispetto ai fatti di reato commessi anteriormente all’entrata in vigore del d.l. n. 36/2014 ed aventi ad oggetto sostanze non incluse nelle tabelle “ripristinate”: l’eliminazione di tali sostanze dalle tabelle richiamate dall’art. 73 t.u. stupefacenti ha comportato infatti la modifica della fattispecie astratta di reato con l’eliminazione di un suo oggetto, in quanto l’elencazione delle sostanze contenute nelle tabelle, concorrendo alla descrizione del fatto di reato, integra il precetto; né l’inserimento di tali sostanze nelle nuove tabelle introdotte dal d.l. n. 36/2014 ha potuto “sanare” retroattivamente l’ormai intervenuta abolitio criminis, che opera anche se “intermedia” rispetto ad una nuova incriminazione successiva4.
La sentenza Cass. pen., S.U., 26.2.2015, n. 29316, dep. 9.7.2015, De Costanzo, ha confermato tale interpretazione, ravvisando un caso di parziale “ablazione della fattispecie” a seguito della caducazione della norma di fonte secondaria integrante la norma incriminatrice parzialmente in bianco.
La fattispecie decisa dalle S.U. De Costanzo riguardava l’illecita detenzione, in epoca antecedente al d.l. n. 36/2014, della sostanza “nandrolone” inserita nelle Tabelle I e II, lettera A, allegate alla novella del 2006, con il d.m. 11.6.2010, che era poi “stato travolto dalla caducazione della legge di cui costituiva espressione”, a seguito della sentenza C. cost. n. 32/2014.
Si legge nella sentenza: « ... nelle novelle del 2006 e del 2014, le tabelle conformi ai criteri di cui agli artt. 13 e 14 del T.U. sono state allegate agli atti normativi. Nell’originario assetto della normativa (art. 13 del T.U.), invece, è stato demandato all’Autorità ministeriale di formare le tabelle in conformità ai criteri di cui all’art. 14. In ogni caso, sono state previste procedure per il tempestivo aggiornamento delle ridette tabelle attraverso atti ministeriali come quello di cui si discute [il d.m. 11.06.2010] ... . Tale struttura dell’incriminazione dà luogo ad una fattispecie penale parzialmente in bianco, nei casi in cui la specificazione del precetto avviene per effetto di fonti secondarie come i decreti ministeriali di cui si discute»; esiste infatti un «inscindibile e biunivoco legame che connette la legge agli atti amministrativi che ne costituiscono espressione. L’atto amministrativo individua l’oggetto del reato in base al divenire delle conoscenze, adeguandosi alle direttive di carattere generale espresse dalla legge. In conseguenza, caduta la legge, ne segue con ineluttabile ed evidente necessità il venir meno dei provvedimenti ministeriali che di quella legge costituiscono attuazione».
E ancora, dopo avere ricordato che «una diversa soluzione d’impronta sostanzialistica ... determinerebbe sicura violazione del principio di legalità», la Corte osserva che l’interpretazione proposta «è ulteriormente corroborata dalla constatazione che le direttive legali in tema d’individuazione delle sostanze stupefacenti, quali si rinvengono nelle diverse formulazioni dei citati articoli 13 e 14, sono mutate ripetutamente, sia per ciò che attiene all’individuazione e catalogazione delle sostanze, sia per quanto riguarda le procedure amministrative volte alla concreta individuazione dei principi droganti ed i soggetti pubblici chiamati a concorrere alle pertinenti valutazioni. Pertanto non sarebbe neppure testualmente corretto istituire una connessione derivativa tra i provvedimenti amministrativi adottati nel vigore della disciplina del 2006 e le differenti direttive espresse dalla originaria disciplina recata dal Testo Unico».
Questa la conclusione: «Il decreto ministeriale dell’11.06.2010, che ha collocato il nandrolone nelle Tabelle I e II, lett. A, allegate alla novella del 2006, è stato travolto dalla caducazione della legge di cui costituiva espressione. In conseguenza la fattispecie legale afferente a tale sostanza è venuta meno».
La sentenza C. cost. n. 32/2014 ha comportato la reintroduzione del sistema repressivo basato sulla distinzione tra droghe pesanti e droghe leggere, superando l’unificazione del trattamento sanzionatorio dei due tipi di droghe, che era invece alla base della normativa dichiarata incostituzionale.
È stato così reintrodotto un trattamento meno severo delle condotte aventi ad oggetto le droghe leggere: per l’ipotesi delittuosa base, l’art. 73, co. 1, t.u. stupefacenti, modificato dal d.l. n. 272/2005, poi dichiarato incostituzionale, prevedeva come pena detentiva la reclusione da 6 a 20 anni, mentre l’art. 73, co. 1 e 4, nel testo introdotto dalla l. n. 162/1990 e ritornato applicabile, prevede come pena detentiva la reclusione da 2 a 6 anni5.
Si è così posto il problema dell’applicabilità, nell’ambito dei processi non ancora definiti con sentenza passata in giudicato, della ripristinata normativa più favorevole, ai fatti di reato riguardanti droghe leggere, commessi anteriormente alla pubblicazione della sentenza di incostituzionalità.
Le S.U. hanno applicato senza alcuna limitazione il principio secondo il quale deve trovare applicazione la norma che prevede la disciplina sanzionatoria più favorevole ritornata applicabile, la quale ha determinato la sopravvenuta illegalità della pena irrogata in base alla normativa incostituzionale più severa.
Così, con specifico riferimento all’aumento di pena per i reatisatellite del reato continuato, la sentenza Cass. pen., S.U., 26.2.2015, n. 22471, dep. 28.5.2015, Sebbar, ha affermato il principio secondo il quale: «per i delitti previsti dall’art. 73 d.P.R. n. 309/1990, l’aumento di pena calcolato a titolo di continuazione per i reatisatellite, in relazione alle droghe leggere, deve essere oggetto di specifica rivalutazione da parte dei giudici del merito, alla luce della più favorevole cornice edittale applicabile per tali violazioni a seguito della sentenza C. cost. n. 32/2014».
Punto centrale dell’argomentazione della Corte è la finalità della quantificazione della pena da parte del giudice, in rapporto alla funzione propria della pena edittale fissata dal legislatore.
Si legge infatti nella sentenza: «L’unico, obiettivo, indicatore della gravità di un reato è il trattamento sanzionatorio previsto dal legislatore, il quale ... modula la pena edittale a seconda del disvalore che ritiene di attribuire alle ipotesi criminose, che egli stesso ha enucleato; ... sulla valutazione in astratto compiuta dal legislatore (e di seguito ad essa), si innesta la valutazione in concreto compiuta dal giudice di merito, il quale ha conosciuto tanto il fatto-reato, quanto il suo autore (di persona e/o attraverso gli atti), e che dunque è in grado di determinare nello specifico il trattamento sanzionatorio da applicare; ... la valutazione discrezionale del giudice nell’individuazione della pena in concreto da applicare non può prescindere dagli “indicatori astratti” (il minimo e il massimo edittale) che il legislatore gli ha fornito ... , con la conseguenza che se detto spazio muta (si restringe o si dilata), mutano inevitabilmente i parametri entro i quali la valutazione in concreto deve essere effettuata».
Obbligata la conclusione: il ripristino della distinzione tra droghe pesanti e droghe leggere conseguente alla sentenza C. cost. n. 32/2014 e la reintroduzione di una pena edittale talmente ridotta, rispetto a quella prevista dalla normativa dichiarata incostituzionale, da realizzare «un sostanziale ridimensionamento dello stesso disvalore penale del fatto», comporta la necessità di rideterminare la pena in concreto (a suo tempo) ritenuta congrua ed applicata. Invero, una volta mutato il parametro di riferimento, il giudice del merito deve inderogabilmente riesercitare il potere discrezionale conferitogli dagli artt. 132 e 133 c.p.
Lo stesso principio, ma con un maggior approfondimento del concetto di illegalità sopravvenuta della pena, è anche alla base della sentenza Cass. pen., S.U., 26.2.2015, n. 33040, dep. 28.7.2015, Jazouli, secondo la quale: «è illegale la pena determinata dal giudice attraverso un procedimento di commisurazione che si sia basato, per le droghe leggere, sui limiti edittali dell’art. 73 d.P.R. 309/1990 come modificato dalla l. n. 49/2006 in vigore al momento del fatto, ma dichiarato successivamente incostituzionale con sentenza n. 32/2014, anche nel caso in cui la pena concretamente inflitta sia compresa entro i limiti edittali previsti dall’originaria formulazione del medesimo articolo, prima della novella del 2006, rivissuto per effetto della stessa sentenza di incostituzionalità»; nella sentenza di patteggiamento tale «illegalità sopraggiunta della pena ... determina la nullità dell’accordo e la Corte di cassazione deve annullare senza rinvio la sentenza basata su tale accordo».
La sentenza evidenzia che la sopravvenuta illegalità della pena «comporta la nullità dell’accordo sulla pena patteggiata “per sopravvenuta illegalità di una parte del suo oggetto”: si tratta tuttavia di una «illegalità particolare, non solo perché non attiene ad un errore materiale nella determinazione della quantità o del tipo di sanzione, ma perché ciò che è illegale non è la sanzione in sé, quanto l’intero procedimento di commisurazione giudiziale, che si è basato su criteri edittali incostituzionali e quindi mai esistiti, procedimento che ha portato tra l’altro all’applicazione di una pena in contrasto con il principio di proporzionalità e di colpevolezza».
Appare evidente come le indicate sentenze esprimano un principio generale: deve essere sempre applicata la norma più favorevole ritornata applicabile a seguito di dichiarazione di illegittimità costituzionale di una norma riguardante la quantificazione della pena, al fine di eliminare la sopravvenuta illegalità della pena in concreto irrogata.
Gli effetti della sentenza C. cost. n. 32/2014, come pure la forza espansiva della categoria dell’illegalità sopravvenuta della pena, non potevano non comportare un’ulteriore tappa dell’ormai costante fenomeno del superamento dell’intangibilità del giudicato.
È quanto accaduto con la sentenza Cass. pen., S.U., 26.2.2015, n. 37107, dep. 15.9.2015, Marcon, che costituisce il logico sviluppo dei principi affermati, da ultimo, dalle sentenze Cass. pen., S.U., 24.10.2013, n. 18821, dep. 7.5.2014, Ercolano e Cass. pen., S.U., 29.5.2014, n. 42858, dep. 14.10.2014, Gatto, principi che – con l’essenzialità imposta in questa sede – possono così sintetizzarsi:
• la restrizione della libertà personale del condannato deve essere legittimata, durante l’intero arco della sua durata, da una legge conforme alla Costituzione (artt. 13, co. 2 e 25, co. 2, Cost.) e deve assolvere la funzione rieducativa imposta dall’art. 27, co. 3, Cost.;
• il giudicato non può che essere recessivo di fronte ad evidenti e pregnanti compromissioni in atto di diritti fondamentali della persona;
• in base all’art. 30, co. 4, l. n. 87/1953, il giudice dell’esecuzione ha il potere di rideterminare la pena (naturalmente solo in funzione dell’applicazione di una norma più favorevole), quando la dichiarazione di incostituzionalità concerne una norma penale diversa da quella incriminatrice, riguardante il profilo sanzionatorio e non quello propriamente precettivo, e sempre che il rapporto esecutivo non sia esaurito, realizzando così il superamento del “giudicato sulla pena”.
Muovendo da tali presupposti, nonché, nel necessario bilanciamento degli interessi in conflitto, dalla soccombenza del principio della certezza dei rapporti giuridici, che è alla base del giudicato, rispetto ai principi di libertà personale, legalità della pena, uguaglianza e rispetto alla finalità rieducativa della pena, la sentenza S.U. Marcon ha statuito che: «La pena applicata con la sentenza di patteggiamento avente ad oggetto uno o più delitti previsti dall’art. 73 d.P.R. n. 309/1990 relativi alle droghe leggere, divenuta irrevocabile prima della sentenza n. 32/2014 della Corte costituzionale, deve essere rideterminata in sede di esecuzione in quanto pena illegale, e ciò anche nel caso in cui la pena concretamente applicata sia compresa entro i limiti edittali previsti dall’originaria formulazione del medesimo articolo, prima della novella del 2006, rivissuto per effetto della stessa sentenza di incostituzionalità»; «In tema di sostanze stupefacenti, quando successivamente alla pronuncia di una sentenza irrevocabile di applicazione di pena ex art. 444 c.p.p. interviene la dichiarazione d’illegittimità costituzionale di una norma penale diversa da quella incriminatrice, incidente sulla commisurazione del trattamento sanzionatorio, il giudicato permane quanto ai profili relativi alla sussistenza del fatto, alla sua attribuibilità soggettiva e alla sua qualificazione giuridica, ma il giudice dell’esecuzione deve rideterminare la pena, attesa la sua illegalità sopravvenuta, in favore del condannato, con le modalità di cui al procedimento previsto dall’art. 188 disp. att. c.p.p. e, solo in caso di mancato accordo ovvero di pena concordata ritenuta incongrua, provvede autonomamente ai sensi degli artt. 132133 c.p.».
Anche la sentenza in esame contiene dunque l’affermazione di un principio generale: il passaggio in giudicato della sentenza non costituisce un limite all’applicabilità, da parte del giudice dell’esecuzione, della normativa sanzionatoria più favorevole, quando ciò sia imposto dalla necessità di eliminare una pena illegale, in quanto applicata in base ad una norma dichiarata incostituzionale.
Che le categorie sulle quali si basa la disciplina della successione di leggi penali nel tempo sia ancora in piena evoluzione è dimostrato da due recenti sentenze delle S.U., nelle quali la categoria della pena illegale sembra rivelare una sorta di tendenza espansiva all’ambito della successione di leggi nel tempo.
La sentenza S.U., 26.11.2015, n. 46653, dep. 25.11.2015, Della Fazia, ha affermato i seguenti principi: «In tema di successione di leggi nel tempo, la Corte di cassazione può, anche d’ufficio, ritenere applicabile il nuovo e più favorevole trattamento sanzionatorio per l’imputato, anche in presenza di un ricorso inammissibile [nella specie: ricorso manifestamente infondato e privo di censure in ordine al trattamento sanzionatorio], disponendo, ai sensi dell’art. 609 c.p.p., l’annullamento sul punto della sentenza impugnata pronunciata prima delle modifiche normative in melius»; «Il diritto dell’imputato, desumibile dall’art. 2, co. 4, c.p., di essere giudicato in base al trattamento più favorevole tra quelli succedutisi nel tempo, comporta per il giudice della cognizione il dovere di applicare la lex mitior anche nel caso in cui la pena inflitta con la legge previgente rientri nella nuova cornice sopravvenuta, in quanto la finalità rieducativa della pena ed il rispetto dei principi di uguaglianza e di proporzionalità impongono di rivalutare la misura della sanzione precedentemente individuata, sulla base dei parametri edittali modificati dal legislatore in termini di minore gravità».
Il caso oggetto della decisione riguardava una condanna per il reato di cui all’art. 73, co. 5, t.u. stupefacenti, e la lex mitior successiva era costituita dalle modifiche introdotte con il d.l. n. 146/2013, conv. con mod. dalla l. n. 10/2014 e con la l. n. 79/2014 di conversione con mod. del d.l. n. 36/2014, entrati in vigore dopo la presentazione del ricorso.
È un caso dunque di successione di leggi penali nel tempo, al quale le S.U. hanno applicato la categoria della pena illegale sopravvenuta, fino ad ora riservata all’ipotesi della dichiarazione di incostituzionalità della norma riguardante i profili sanzionatori, tanto che proprio al principio di legalità della pena la Corte ha dedicato un amplissimo approfondimento, a conclusione del quale ha affermato esplicitamente che, nel caso di mutamento della cornice edittale in senso favorevole al reo, «illegale deve essere ritenuta la pena che, pur rimanendo nei margini edittali di tale più favorevole disciplina, ne stravolga i parametri di riferimento – in particolare il principio di proporzionalità – e sia applicata in modo incompatibile con la disciplina normativa successiva».
Questo concetto di “pena illegale” è stato poi ribadito dalla Corte quando è passata a trattare della rilevabilità d’ufficio dell’applicabilità del nuovo e più favorevole trattamento sanzionatorio, anche in presenza di un ricorso inammissibile. Nel ripercorrere l’evoluzione giurisprudenziale e normativa, che ha portato al progressivo superamento dell’intangibilità del giudicato al fine di eliminare una pena illegale, la Corte ha riconosciuto che anche il caso oggetto della decisione è riconducibile allo stesso fenomeno, evocando le violazioni dei diritti fondamentali della persona, tra le quali «non può non essere inclusa ... quella di vedersi applicato un trattamento sanzionatorio sfavorevole in presenza di innovazioni normative che l’hanno mitigato»: l’obbligo del giudice di eliminare tale violazione «non incontra limiti ed anzi ha formato oggetto di un pluridecennale percorso che ha condotto ad un’estensione interpretativa dei poteri del giudice della cognizione, oltre che (in forma anche più accentuata) del giudice dell’esecuzione».
Non meno innovativa appare la sentenza Cass. pen., S.U., 29.10.2015, n. 26259, Mraidi, così massimata: «Il giudice dell’esecuzione può revocare, ai sensi dell’art. 673 c.p.p., una sentenza di condanna pronunciata dopo l’entrata in vigore della legge che ha abrogato la norma incriminatrice, allorché l’evenienza di abolitio criminis non sia stata rilevata dal giudice della cognizione».
La fattispecie oggetto della decisione riguardava il reato di cui all’art. 6, co. 3, t.u.i., come modificato dalla l. 15.07.2009 n. 94, disposizione la cui interpretazione, come noto, era stata controversa: secondo una prima tesi la l. n. 94/2009 non aveva modificato la fattispecie incriminatrice, che in particolare poteva essere realizzata anche dallo straniero irregolarmente presente nel territorio dello Stato, come riconosciuto, anteriormente a detta legge, dalla sentenza S.U. 29.10.2003, n. 45801, dep. 27.11.2003, Mesky; secondo la tesi opposta la l. n. 94/2009 aveva determinato abolitio criminis rispetto al fatto commesso dallo straniero irregolare e questa interpretazione era stata avallata dalla sentenza S.U. 24.2.2011, n. 16453, dep. 27.4.2011, Alacev6.
Il processo definito dalle S.U. Mraidi riguardava la condanna di un cittadino straniero irregolare per il reato di cui all’art. 6, co. 3, t.u.i., commesso successivamente alla l. n. 94/2009.
Senza alcuna pretesa di approfondimento dei complessi temi coinvolti nella decisione (ad es. la nozione di giudicato in rapporto al dedotto ed al deducibile), va evidenziato che le S.U. collocano la soluzione proposta nel solco del progressivo affermarsi del principio di flessibilità del giudicato, imposto dalla necessità di tutelare preminenti valori costituzionali, e del correlato ampliamento dei poteri del giudice dell’esecuzione, in quanto garante della legalità della pena.
Ma è soprattutto rispetto all’applicazione della categoria dell’abolitio criminis ed all’applicabilità dell’art. 673 c.p.p. che la sentenza contiene affermazioni che sembrano entrare in tensione con il dato testuale.
Per sostenere l’applicabilità dell’art. 673 c.p.p. al caso di specie la Corte sembra infatti superare i limiti insiti nella nozione di abolitio criminis, in quanto fenomeno disciplinato, nell’ambito della successione di leggi nel tempo, con riferimento ai fatti commessi anteriormente alla modifica normativa che lo determina, e superare altresì il tenore letterale sia dell’art. 2, co. 2, c.p. (che fa riferimento ad una “legge posteriore” al fatto), sia dell’art. 673 c.p.p. (rubricato: «revoca della sentenza per abolizione del reato»): ciò al fine di ammettere la revocabilità della sentenza per abolitio criminis ai sensi dell’art. 673 c.p.p., anche nel caso di abolitio intervenuta antecedentemente al fatto.
Si legge infatti nella sentenza: «L’applicazione [del principio di legalità] non può essere condizionata da riferimenti cronologici, in quanto se l’art. 2, co. 2, c.p. prevede che nessuno possa essere punito per un fatto che, secondo una legge posteriore, non costituisce reato (e, se vi è stata condanna, ne cessano l’esecuzione e gli effetti penali), ancor più va tutelata la posizione di colui che sia stato condannato per un fatto che già al momento della commissione non era reato, per essere precedentemente intervenuta l’abolitio criminis. Pertanto ... non vi è ragione di circoscrivere le ipotesi di revoca per abolitio disciplinate dall’art. 673 c.p.p. ai casi previsti dall’art. 2, co. 2, c.p. e non anche a quelli del primo comma ... , che traggono valore cogente dall’art. 25, co. 2, Cost. ...».
Al fine di eliminare una pena ritenuta illegale, la sentenza qualifica dunque come abolitio criminis, riconducibile alla previsione dell’art. 673 c.p.p., il caso della condanna per un fatto che fin dal momento della sua commissione era lecito (peraltro, nel caso di specie, in base ad un orientamento interpretativo affermatosi come costante solo dopo l’intervento delle S.U.), un caso che sembra evocare semmai il problema dei poteri del giudice dell’esecuzione per eliminare una pena ab origine illegale7.
Pur muovendosi nella prospettiva dell’applicabilità dell’art. 673 c.p.p. e pur affermando la necessità che l’abolitio criminis non sia stata rilevata dal giudice della cognizione, le S.U. Mraidi sembrano in realtà avere posto le premesse di ben più ampi sviluppi del potere del giudice dell’esecuzione, quale garante del rispetto del principio di legalità della pena.
Note
1 Su tale sentenza v. D’Alessandro, F., Le false valutazioni al vaglio delle sezioni unite: la nomofilachia, la legalità e il dialogo interdisciplinare, in Cass. pen., 2016, 2790; Mucciarelli, F., Le Sezioni unite e le false comunicazioni sociali: tra legalità e ars interpretandi, in www.penalecontemporaneo.it, 13.7.2016, Sulla l. n. 69/1915 v. Mongillo, V., Le riforme introdotte dalla legge n. 69 del 2015, in Libro dell’anno del Diritto 2016, Roma, 2016, 103.
2 Su tale sentenza v. Della Bella, A., Novità in materia di stupefacenti, in Libro dell’anno del Diritto 2015, Roma, 2015, 176; Piffer, G., Le novità di diritto penale in materia di sostanze stupefacenti, in Conti, C.Marandola, A.Varraso, G., a cura di, Le nuove norme sulla giustizia penale, 2014, 14.
3 Sulla discutibilità di tale riferimento all’art. 2 c.p. per giustificare l’applicazione della norma più favorevole, che in realtà, nel caso di specie, si fonda sul principio di irretroattività della norma meno favorevole (art. 25, co. 2, Cost. e art. 7 CEDU) e di prevedibilità della pena al momento della commissione del fatto, v. Piffer, G., Le novità, cit., 27 ed ivi citazioni della dottrina.
4 In questo senso, tra gli altri, Della Bella, A., Emergenza carceri e sistema penale, 2014, 84; Manes, V.Romano, L., L’illegittimità costituzionale della legge “Fini-Giovanardi”: gli orizzonti attuali della democrazia penale, in www.penalecontemporaneo.it, 23.3.2014, 27; Piffer, G., op. cit., 37. Sulla recente giurisprudenza delle S.U. in tema di successione di norme integratrici v. Gatta, G., Abolitio criminis e successione di norme “integratrici” nella recente giurisprudenza delle Sezioni unite della Corte di cassazione, in www.penalecontemporaneo.it, 10.10.2010.
5 Più complesse le vicende normative che hanno riguardato l’art. 73, co. 5, t.u. stupefacenti: l’art. 1 d.l. 23.12.2013, n. 146, conv. con mod. dalla l. 21.2.2014, n. 10 ha trasformato la fattispecie da circostanza attenuante in titolo autonomo di reato, con riduzione della pena alla reclusione da uno a cinque anni e della multa da euro 3.000 a euro 26.000, sia per le droghe leggere sia per le droghe pesanti; la l. 16.5.2014, n. 79 di conversione con mod. del d.l. 20.3.2014, n. 36 ha poi ulteriormente ridotto la pena: reclusione da sei mesi a quattro anni e multa da euro 1.032 a euro 10.329.
6 Si ricorderà che, proprio con riferimento all’indicata modifica normativa e ai contrasti che ne erano derivati in seno alla giurisprudenza, con sentenza n. 230/2012 la C. cost. aveva dichiarato non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 673 c.p.p., nella parte in cui non include, tra le ipotesi di revoca della sentenza di condanna, anche il “mutamento giurisprudenziale” determinato da una decisione delle S.U., in base al quale il fatto giudicato non è previsto dalla legge come reato. La sentenza S.U. Mraidi, pur condividendo il principio di diritto affermato dalla C. cost., non lo ritiene pertinente al caso devoluto alla sua decisione, affermando che le S.U. Alacev «hanno solo dato atto della parziale abolitio criminis» operata dal legislatore e non si verte quindi in un caso di mero “mutamento giurisprudenziale”.
7 V. da ultimo Cass. pen., S.U., 27.11.2014, n. 6240, dep. 12.2.2015, Basile e Cass. pen., S.U., 26.6.2015, n. 47766, dep. 3.12.2015, Butera.