Vedi Sudafrica dell'anno: 2012 - 2013 - 2014 - 2015 - 2016
Con la liberazione di Nelson Mandela, leader dell’Anc (African National Congress), dopo ventisei anni di prigionia, e la sua elezione a presidente nel 1994, il Sudafrica ha posto fine al lungo regime di segregazione razziale dell’apartheid, inaugurando una nuova stagione democratica. Le conseguenze delle politiche discriminatorie applicate per decenni nel paese continuano però a pesare sia sulla struttura sociale, che sulla distribuzione della ricchezza e sull’organizzazione degli spazi urbani. Mandela ha guidato il paese in un difficile processo di transizione politica e di riconciliazione nazionale. Uno degli elementi fondamentali è stata la creazione di una Commissione per la verità e la riconciliazione, che è riuscita nell’intento di creare un clima di collaborazione e a porre le basi per una reale pacificazione. Durante la sua presidenza, Mandela ha basato l’immagine internazionale sulla diplomazia dei diritti, tanto che il Sudafrica è stato mediatore in molte crisi continentali e internazionali. Nel 1996 il Sudafrica si è dotato di una Costituzione all’avanguardia nel campo dei diritti civili, dell’uguaglianza e del rispetto delle minoranze. Il ruolo di leader morale globale ottemperato dal paese si è trovato spesso in conflitto con quello di potenza continentale. A partire dall’invasione del Lesotho nel 1998 – avvenuta dietro richiesta del governo dello stesso Lesotho alla Comunità di sviluppo dell’Africa meridionale (Sadc) dopo i disordini seguiti alle elezioni – lo status del Sudafrica ha iniziato ad appannarsi e la Realpolitik – contrapposta alla rivendicazione di posizioni più vicine al nazionalismo africano e all’attivismo terzomondista – si è fatta strada anche nella condotta del ministero degli esteri. La presidenza di Thabo Mbeki, succeduto a Mandela nel 1999, ha improntato le relazioni internazionali del paese verso il rafforzamento della posizione del Sudafrica come leader panafricano e portavoce dei paesi in via di sviluppo. Nel 2001 Mbeki, insieme ai presidenti di Nigeria, Algeria e Senegal, nel contesto della sua visione del ‘Rinascimento africano’, ha lanciato il Nepad (New Economic Partnership for Africa’s Development), un piano africano per lo sviluppo del continente. Mbeki è stato uno degli architetti delle istituzioni continentali africane, tra cui l’Unione Africana (Au) e il Meccanismo africano di revisione tra pari (Aprm). Se la politica di Mandela cercava di operare in chiave universalista, quella di Mbeki era profondamente radicata nelle dinamiche del continente, assumendo talvolta posizioni controverse (come la strategia di quiet diplomacy nei confronti dello Zimbabwe durante le contestazioni sulla regolarità delle elezioni). L’insistenza di Mbeki sulle radici africane è degenerata anche in posizioni estreme, come nel caso della critica agli antiretrovirali per la cura dell’hiv in quanto prodotto della medicina occidentale a vantaggio dei grandi complessi farmaceutici.
Le elezioni del maggio 2009 sono state un punto di svolta nella storia del paese. Nel 1999 Zuma era stato nominato vicepresidente, predestinato dunque a diventare il successore di Mbeki, ma le strade di Mbeki e Zuma si divisero, anche per alcuni casi di corruzione in cui incorse Zuma. L’ala sinistra del partito aveva continuato ad appoggiare Zuma, come anche le organizzazioni giovanili dell’Anc, il sindacato Cosatu (Congress of South African Trade Unions) e il Partito comunista sudafricano (Sacp), fino a determinare la sua vittoria nel congresso del partito di governo a Polokwane nel 2007. Dopo aver tentato di resistere con l’appoggio di coloro che vedevano in Zuma una deriva in senso populista-socialista, Mbeki si dimise dalla carica di presidente nel 2008. In seguito allo scontro fra Mbeki e Zuma l’Anc ha subìto una scissione che ha dato vita alla formazione del Cope (Congress of the People).
Jacob Zuma ha vinto le elezioni del 2009, con una maggioranza di circa due terzi dei voti, e il suo governo ha ribaltato molte delle posizioni di Mbeki, a partire dalle pressioni su Mugabe per un sistema di cogestione del potere in Zimbabwe e dall’impegno nella lotta all’hiv. I propositi di nazionalizzazione sono stati accantonati e l’entrata di esponenti del Cosatu e del Sacp nell’esecutivo è stata controbilanciata dall’istituzione di un ufficio di coordinamento affidato all’ex ministro delle finanze Trevor Manuel, molto amato dai mercati. La presidenza Zuma ha coinciso con l’aggravarsi della crisi economica mondiale, che non ha permesso al governo di prestare fede all’impegno di rilanciare la lotta all’ineguaglianza e alla povertà, limitandosi a non ridurre la spesa sociale. I lavoratori, soprattutto quelli di origine nera, hanno visto nella politica di Zuma un tradimento delle promesse elettorali: il culmine delle proteste è stato raggiunto nell’agosto 2012, quando si sono verificati scontri presso la miniera di Marikana tra minatori in sciopero e polizia, in cui 45 minatori hanno perso la vita.
Gli eventi di Marikana sono stati un segno inquietante dell’incrinarsi della fiducia nella base dell’Anc nei confronti dei suoi rappresentanti, della delusione e del malcontento della maggioranza nera verso la stessa élite al potere, accusata di perseguire le stesse politiche della leadership bianca. Gli scioperi sono continuati anche nel 2014, benché le tensioni siano state ridotte a causa della ripresa economica che ha avuto ricadute positive sull’occupazione.
Nel 2014, attraverso le elezioni alle quali per la prima volta hanno partecipato i born free, cioè i sudafricani nati dopo la fine del regime dell’apartheid, Zuma è stato rieletto presidente, anche se l’Anc ha perso quindici seggi rispetto al 2009 (ottenendo il 62,2% dei voti), mentre il principale movimento di opposizione, Democratic Alliance, ha guadagnato 89 seggi (con il 22,2% dei voti, sei punti in più rispetto al 2009). Economic Freedom Fighters (Eff), il partito di Julius Malema, che ha adottato alcune posizioni radicali in merito a questioni come la restituzione delle terre e la redistribuzione delle risorse, si è affermato come la terza piattaforma politica nazionale, raccogliendo il 6% dei voti, nonostante il suo leader sia indagato per frode fiscale.
La figura di Zuma continua a essere controversa: nel 2013, dopo ripetuti rinvii, è stata creata una commissione di inchiesta per indagare su un eclatante caso di traffico di armi risalente agli anni Novanta in cui il presidente sarebbe stato coinvolto in prima persona. Inoltre, è stato indagato in due processi per corruzione e in uno per stupro, per i quali non è mai stato condannato, ma che hanno profondamente scosso l’opinione pubblica. Nel 2014 il difensore civico Thuli Madonsela ha chiamato Zuma a rispondere dell’utilizzo di fondi pubblici nelle opere di ampliamento della sua abitazione a Nkandla. L’eredità storica dell’Anc è un alibi sempre meno credibile e la base elettorale si sta dimostrando più restia ad affidare il proprio voto a leader dal codice etico estremamente labile; ciononostante, non esiste ancora un partito in grado di intercettare e convogliare il dissenso proveniente dalle file del primo partito sudafricano. Il 2014-15 è visto da alcuni come il momento del Numsa (National Union of Metalworkers of South Africa), il sindacato più importante del Sudafrica, che attraverso scioperi e congressi sta cercando di far virare l’agenda politica nazionale sulla lotta alla disoccupazione e sulla creazione di impiego. Il Numsa sta apertamente sfidando le forze più radicali dell’alleanza tripartita, costringendo Cosatu e Sacp a ripensare il proprio sostegno all’African National Congress.
Poiché il Sudafrica è stato meta di diverse ondate migratorie e conquiste che si sono stratificate nel tempo, la composizione della sua popolazione è ricca e complessa. Secondo i dati del censimento 2011, poco meno dell’80% della popolazione è registrata come di origine nera africana, l’8,7% della popolazione è bianca, il 9,5% è di origine coloured, mentre il restante 2,4% è di origine indiana e asiatica in generale. Fra le popolazioni autoctone vi sono i nguni (di cui fanno parte gli zulu, i xhosa, i ndebele e gli swazi), i sotho-tswana, gli tsonga, i venda e gli ultimi discendenti non bantu noti come khoi-san, originari della regione del Capo; i bianchi sudafricani discendenti di olandesi, tedeschi e francesi ugonotti che giunsero in Sudafrica a cominciare dal Diciassettesimo secolo, di lingua afrikaans (boeri o afrikaner), degli inglesi che arrivarono in Sudafrica nel Diciannovesimo secolo a seguito dell’imposizione del dominio del Regno Unito e degli immigrati da diversi paesi europei, fra cui greci, portoghesi, ungheresi, italiani e molti cittadini dell’Europa orientale di fede ebraica. I cosiddetti coloured, una denominazione residuale che equivale a meticcio o sangue-misto, che in maggioranza parlano afrikaans, hanno appunto origini miste, risalenti ad asiatici o africani importati con uno statuto di semi-schiavitù, ai khoi-san e ai discendenti delle unioni fra boeri e donne indigene. Gli indiani, in parte indù e in parte musulmani, furono fatti venire dal Regno Unito e risiedono in maggioranza nel Zwa Zulu-Natal. Prima di dedicarsi alla lotta per l’emancipazione dell’India, Gandhi operò a lungo in Sudafrica nella difesa dei diritti degli indiani, lasciando in eredità le pratiche della non violenza. La comunità cinese è in aumento. Negli ultimi anni si è intensificata l’immigrazione di rifugiati e richiedenti asilo provenienti da Zimbabwe, Somalia, Congo, Angola, Mozambico, Burundi, Ruanda ed Etiopia. Le tensioni derivanti dalle profonde disuguaglianze e dalle dinamiche di esclusione sociale hanno avuto una forte ripercussione sui diritti dei migranti africani, tanto che nel maggio 2008 violenze xenofobe hanno provocato almeno 60 morti e fenomeni simili, anche se di entità molto minore, si sono verificati anche nel 2012. Al tempo stesso, la fine dell’apartheid ha generato flussi di emigrazione dal paese – verso Australia, Nuova Zelanda, Stati Uniti, Canada o Europa – di bianchi, spinti dal timore per la criminalità crescente e di eventuali misure governative intese a ridurre i loro privilegi. La popolazione bianca è diminuita tra il 1996 e il 2001 di 150.000 unità, per poi aumentare di 300.000 unità nei dieci anni successivi.
Nonostante la Costituzione garantisca un ampio spettro di diritti civili individuali, incluso il diritto alla non discriminazione in base all’orientamento sessuale, permane una situazione di profonda diseguaglianza, in cui la minoranza bianca gode di risorse economiche, opportunità e diritti di fatto negati alla maggior parte della popolazione nera, che continua ad avere scarso accesso alle posizioni direttive, al capitale economico e a un’istruzione di qualità – un rapporto sull’ineguaglianza delle opportunità della Banca mondiale ha evidenziato come, anche nel 2012, la situazione non sia sostanzialmente cambiata e come i bambini appartenenti alla maggioranza nera abbiano molte meno opportunità di ultimare gli studi e vivere in un ambiente salubre. La disoccupazione è al 25,5% e la percentuale di occupati neri è di almeno dieci punti inferiore rispetto agli altri gruppi. Il paese è al 118° posto su 187 per Indice di sviluppo umano, con un’età media di vita di soli 52 anni. Ufficialmente il 90% della popolazione ha accesso all’acqua potabile e all’elettricità, un record positivo attribuibile all’impegno dei governi post-apartheid, ma di fatto permangono molti insediamenti informali non compresi nel censimento nazionale, che non sono dotati di nessun servizio di base. Vari programmi di sviluppo sono dedicati alla costruzione di alloggi popolari, con liste di attesa che possono durare diversi anni e che non arrivano a coprire i bisogni reali. La peculiare struttura delle città durante il lungo periodo dell’apartheid rende estremamente complicata la riqualificazione delle township, l’organizzazione della viabilità e dei trasporti e l’equa distribuzione dei servizi pubblici.
Grazie agli sforzi del governo Zuma, costretto a riparare ai danni della controversa politica di Mbeki (che secondo uno studio dell’Università di Harvard avrebbe provocato 330.000 morti tra il 2000 e il 2005), il tasso di prevalenza dell’hiv è sceso al 17,9% (con il 56% dei contagi riguardanti le donne), rimanendo comunque il quarto a livello mondiale. Oggi il 66% delle persone sieropositive ha accesso al trattamento antiretrovirale e la prevalenza del virus è in diminuzione nei giovani fra i 15 e i 29 anni (passando dal 13% nel 2008 all’8% nel 2011), segno che le campagne di sensibilizzazione e le terapie si stanno rivelando efficaci.
Negli ultimi anni alcune proposte legislative, mai approdate in parlamento, che limiterebbero la libertà di cronaca della Sabc (South African Broadcasting Corporation, ancora indipendente dal governo), hanno fatto temere restrizioni alle libertà civili. Il New Secrecy Bill, che condiziona l’accesso alle informazioni considerate sensibili e stabilisce gravi pene per coloro che si trovino in possesso di informazioni riservate, sta avendo un iter parlamentare controverso.
La vitalità della società civile e delle esperienze associative maturate durante gli anni dell’apartheid rende l’opinione pubblica particolarmente vigile e attiva rispetto alla tutela dei diritti.
La Repubblica Sudafricana si conferma uno degli stati leader del settore minerario nonostante l’esigua crescita. Nel 2010 il Sudafrica ha raggiunto il 75% della produzione mondiale di platino (di cui è il maggior esportatore a livello mondiale), più del 30% della produzione mondiale di cromo, zinco, vanadio, quasi il 20% di ilmenite e manganese l’8% di oro e il 3% di nickel. Possiede il 95% delle riserve mondiali di minerali platinoidi. La maggior parte dei giacimenti sudafricani è di proprietà privata: le attività estrattive di diamanti e oro, contrariamente ad altri paesi africani, sono interamente esercitate da grandi compagnie. Nel 2010 l’industria mineraria ha rappresentato l’8,6% del pil. In Sudafrica si svolge il Mining Indaba, uno dei maggiori eventi dedicati agli investimenti nel settore minerario. Il numero di occupati nel settore (488.141) non è aumentato negli ultimi anni a causa della scarsa crescita economica e degli scioperi indetti dai lavoratori per protestare contro le politiche sociali. La produzione di oro è in calo (dopo avere toccato il 16% della produzione mondiale, oggi è all’8%). Tra le cause vi sono la difficoltà di estrarre a grandi profondità e la mancanza di potenza energetica sufficiente.
Il Sudafrica vanta una buona rete infrastrutturale, ma è costretto a confrontarsi con la scarsa potenza energetica. Il settore minerario richiede un enorme fabbisogno in termini di energia. L’impossibilità di avere una fornitura costante ha quindi contribuito a far decrescere la produzione nel settore e ha riorientato le imprese minerarie verso lo sviluppo dell’estrazione di materiali a minor consumo energetico. La costruzione del porto di Richard Bay ha facilitato un accesso diretto al mare senza dover passare necessariamente o per la lontana Città del Capo o per il territorio del Mozambico.
Allo scopo di attrarre un maggior numero di investitori stranieri, il Sudafrica ha recentemente riformato il codice di sfruttamento delle risorse minerarie, introducendo criteri ambientali (con l’approvazione dei progetti da parte di commissioni governative) e l’integrazione di misure compensative per le comunità locali. Alcuni passi avanti, seppure minimi, sono stati compiuti anche in merito alla difesa dei lavoratori impiegati nel settore minerario (anche per questo motivo l’estrazione dell’oro ha subito un rallentamento). Rimangono comunque aperte le questioni della sicurezza sul lavoro, del diritto a un lavoro dignitoso dei minatori, del lavoro minorile in miniera e i problemi legati ai diritti delle comunità delocalizzate e reinsediate per cause economiche e alla protezione dell’ambiente.
Il Sudafrica aderisce agli accordi di applicazione di certificazione internazionale sui diamanti grezzi, detto Kimberley Process, che attesta la provenienza lecita dei diamanti allo scopo di prevenirne il contrabbando o l’utilizzo come fonte di finanziamento dei conflitti. Nel 2013 il Sudafrica ha ricoperto la presidenza di questa iniziativa.
Il rigore della politica macroeconomica, delineata nel piano Gear (Growth, Employment and Redistribution), è sempre stato oggetto di discussione tra l’ala di maggioranza dell’Anc e le componenti di sinistra dell’Alleanza tripartita (Cosatu e Sacp). Smentendo i dubbi della comunità internazionale e degli avversari politici, il governo sta riuscendo a contenere l’inflazione e a garantire la stabilità del paese, anche a fronte di tassi di crescita non incoraggianti rispetto alla media subsahariana (1,4% nel 2014). Questi esigui tassi di crescita, dati dal rallentamento della produzione del settore estrattivo, dagli strascichi della crisi internazionale e da carenze infrastrutturali, non hanno raggiunto i risultati sperati in termini di occupazione, né supplito al deficit strutturale delle partite correnti. Nel 2014 il governo ha approvato il National Development Plan (Ndp), un programma che dovrebbe nuovamente cercare di contrastare l’alto tasso di disoccupazione attraverso investimenti e opere pubbliche, strutturato fino al 2019.
Il Sudafrica fa parte di tre raggruppamenti economici regionali: la Southern Africa Development Community (Sadc), la Southern Africa Customs Union (Sacu) e la Common Market Authority. All’interno del gruppo regionale della Sadc, il Sudafrica gioca un ruolo molto importante: le esportazioni da parte del paese ammontano al 44% delle esportazioni all’interno del gruppo e al 40% delle importazioni. Nonostante questo, il peso del commercio intraregionale sul totale del commercio sudafricano è ridotto, e ciò malgrado il paese abbia un livello di produzione industriale e manifatturiera molto avanzato rispetto agli altri paesi della regione.
La questione della terra ha un forte valore simbolico anche nel Sudafrica post-apartheid. Il Native Lands Act del 1913, che confinava gli africani nelle riserve definite dal governo (pari al 13% della superficie del paese), è stato uno dei pilastri dell’apartheid e la restituzione delle terre ai proprietari che le detenevano prima dell’insediamento dei bianchi compariva tra i primi obiettivi dell’Anc. Il processo di redistribuzione della terra è stato effettivamente avviato dal nuovo governo, secondo il principio del ‘willing seller, willing buyer’: il trasferimento della proprietà agraria presuppone non solo la volontà del compratore (stato o privati), ma anche della disponibilità del venditore (il proprietario). La redistribuzione procede molto lentamente, anche perché i benefici economici della riforma agraria (con la formazione di una piccola proprietà contadina diffusa, a scapito della più redditizia grande proprietà) sono oggetto di discussione tra gli economisti. Nel 2003 e nuovamente nel 2006 il governo ha annunciato l’intenzione di abbandonare il principio ‘willing seller’ e di introdurre la possibilità dell’esproprio in base a indennizzi proporzionati al valore di mercato. Rimane l’enorme nodo irrisolto della restituzione della terra: migliaia di reclami giacciono non ancora esaminati e diverse stime hanno calcolato che per accoglierli tutti non basterebbero cento anni. Il problema della proprietà della terra si incrocia con quello della povertà e dello sviluppo rurale. I piccoli proprietari vorrebbero la terra per praticare una agricoltura di sussistenza, o semplicemente per possedere una proprietà, ma da parte del governo vi è la tendenza a promuovere lo sbocco commerciale dell’agricoltura: una proposta di legge recente prevede per esempio che le antiche aziende agricole vengano divise fra i lavoratori e trasformate in cooperative, con un tutore che segua la loro attività e che investa nella produzione dell’azienda. Inoltre, la legislazione nel campo dell’agricoltura è nettamente più favorevole per le grandi imprese multinazionali che per i piccoli produttori. Gli esperimenti di creazione di cooperative hanno avuto esiti molto diversi fra di loro, e i governi che si sono succeduti hanno fatto estremamente fatica a trovare un quadro legislativo efficace. A questi problemi si aggiunge la questione delle terre tradizionali, possedute dalla comunità e non da singoli individui, che in alcuni casi sono state divise fra le famiglie, mentre in altri sono rimaste amministrate dalle autorità tradizionali.
Il settore energetico è stato fortemente determinato sia dalle ricchezze minerarie del Sudafrica, sia dalla vicenda storica dell’apartheid che, a causa delle sanzioni economiche internazionali, ha cercato di rendersi il più autosufficiente possibile nella produzione di energia. Il carbone è la principale fonte energetica del paese (nel 2013 il 70% dell’offerta energetica derivava da questo minerale): il Sudafrica è l’ottavo produttore al mondo di carbone, con 28 miliardi di tonnellate di riserve, mentre l’impresa Sasol è il primo produttore mondiale di petrolio dal carbone. Il 14% del fabbisogno energetico del Sudafrica proviene dal petrolio, che è importato ma viene raffinato direttamente: il paese possiede infatti impianti per la raffinazione del petrolio che in Africa sono secondi solo a quelli dell’Egitto. Eskom è l’impresa che produce la maggior parte dell’energia elettrica sudafricana (il 95%) e regionale (il 60%, esportata in Botswana, Lesotho, Mozambico, Namibia, Swaziland e Zimbabwe). Il governo sta cercando di moltiplicare gli investimenti in questo settore poiché l’offerta supera la domanda, generando malfunzionamenti nell’erogazione. Il paese è firmatario del Protocollo di Kyoto, a cui ha aderito nel 2002 ma, essendo considerato una nazione in via di sviluppo, non è tenuto a ridurre le proprie emissioni.
Mentre il programma nucleare militare è stato smantellato dopo la fine del regime bianco (la rinuncia alla bomba e l’abolizione della pena di morte furono i primi due atti simbolici della presidenza Mandela), il nucleare civile continua a produrre energia. Oggi i due reattori della centrale di Koeberg, situata a 30 chilometri da Città del Capo, producono il 2,5% del fabbisogno energetico del Sudafrica.
L’esercito sudafricano ha subìto una radicale riforma dopo la fine dell’apartheid. Parallelamente alla rinuncia al programma di offesa nucleare, il governo dell’Anc ha integrato le fila dell’esercito del regime separazionista con soldati provenienti dall’Umkhonto we sizwe (il braccio armato dell’Anc), dall’Azanian People’s Liberation Army (l’ala militare del Pan Africanist Congress) e dalle unità di auto-protezione dell’Inkhata Freedom Party. Il 70% dei soldati sono quindi neri, indiani e coloureds, mentre più del 60% degli ufficiali è bianco. Il Sudafrica vanta uno degli eserciti più moderni, efficienti e meglio equipaggiati di tutta l’Africa subsahariana.
La criminalità è uno degli elementi al centro del dibattito sulla sicurezza interna dal 1994. Nelle classifiche dell’United Nations Office on Drugs and Crime, il Sudafrica risulta ai primi posti per l’incidenza pro capite di omicidi, rapine a mano armata e stupri. Altri dati appaiono invece meno eccezionali, se confrontati con quelli dei paesi in via di sviluppo. L’incidenza di questi reati registra la dualità sudafricana: l’attenzione alla tutela dei diritti sessuali e riproduttivi si scontra con femminicidi e violenze sessuali perpetrate ai danni di persone omosessuali; le frequenti rapine e aggressioni restituiscono l’immagine di una società disuguale, in cui malessere psicosociale, frustrazione e condizioni economiche inadeguate generano atteggiamenti criminosi.
Il Sudafrica post-apartheid ha intrecciato relazioni molto strette con Swaziland, Lesotho, Botswana e Namibia, quest’ultima territorio sudafricano fi no all’indipendenza nel 1990: l’istituzione di aree di libero scambio e di cooperazione economica ha favorito progetti di collaborazione anche in grandi opere infrastrutturali, fra cui le grandi dighe del Lesotho Highlands Water Project. Nel 2014 il Sudafrica ha anche svolto la funzione di mediatore dopo il colpo di stato avvenuto in Lesotho. Tutti i membri della SAcu, a eccezione del Botswana, fanno parte di un’area monetaria comune, le cui valute sono ancorate al rand sudafricano. Il Sudafrica ha istituito una buona collaborazione anche con il Mozambico, che si è tradotta nel Maputo Development Corridor e nella Trilateral Spatial Development Initiative con lo Swaziland. Tra Mozambico e Sudafrica esiste anche un forum bilaterale di collaborazione economica che coordina i progetti strategici tra i due stati (il 100 per cento del gas importato da Pretoria proviene dal Mozambico). Sia Mbeki che Zuma sono stati investiti di un ruolo di mediazione durante la crisi in Zimbabwe. Ma mentre Mbeki, nonostante le pressioni internazionali, ha assunto posizioni molto tiepide nei confronti degli abusi imputati a Mugabe, sollecitando una soluzione africana della disputa fra governo e opposizione, Zuma è invece intervenuto con più energia, coinvolgendo anche il presidente dell’Angola dos Santos nel ruolo di mediazione in seno alla SADc e premendo per l’accettazione di tutte le parti in conflitto del Global Political Agreement. Il Sudafrica si proietta nel mondo multipolare sia come portavoce del continente africano nei consessi internazionali, sia come potenza economica emergente, rinnovando i suoi rapporti con le potenze occidentali e consolidando l’unione programmatica con i nuovi attori internazionali del Sud del mondo. Il Sudafrica è stato membro non permanente del Consiglio di sicurezza un tra il 2007 e il 2009 e di nuovo tra il 2011 e il 2013. Il paese è membro del G20, come unico stato africano, e partecipa a forum influenti quali IBSA (India, Brasile e Sudafrica) e BRIcS (Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica). Il gruppo dei BRIcS mira a controbilanciare la forza del G8 e la sua agenda politico-economica è discretamente dettata dalla leadership di Cina e Russia. I BRIcS puntano a una riforma del sistema della finanza e del commercio mondiale che avvantaggi le economie emergenti. All’interno di IBSA, BRIcS e G20 Pretoria gioca di doppio ruolo: oscilla infatti tra la rappresentazione degli interessi di tutto il continente africano (spesso negli interventi al G20 Zuma ha parlato a nome dell’Africa), rivaleggiando con Nigeria ed Etiopia, e la necessità di giungere ad accordi e relazioni, per esempio in campo commerciale, che avvantaggino prima di tutto lo stesso Sudafrica. A differenza delle altre potenze emergenti, tuttavia, il raggio d’azione del Sudafrica non oltrepassa i confini del continente d’appartenenza. L’impegno di Pretoria a occuparsi più da vicino delle sorti interne al continente, e non solo di rappresentarlo sullo scenario internazionale, è stato sancito dall’elezione nel 2002 dell’ex moglie di Zuma, Nkosazana Dlamini-Zuma, a presidente della Commissione, il massimo organo esecutivo dell’Unione Africana. Nel 2010 il Sudafrica e gli uSA hanno firmato l’US-South Africa Strategic Dialogue, che prevede anche l’istituzione di un forum bilaterale annuale. Nell’agosto 2012 il segretario di stato Hillary Clinton ha visitato il Sudafrica puntando al rafforzamento della cooperazione economica ed è stato firmato un nuovo Trade and Investment Framework Agreement (tIFA). Sudafrica e Stati Uniti sono legati anche dall’Africa Contingency Operations Training and Assistance (AcotA), un accordo di cooperazione per il rafforzamento delle competenze del Sudafrica nel campo della difesa, e da un accordo per la ricerca nel settore dell’energia nucleare. Una frizione tra i due stati è rappresentata dalle pressioni americane sul Sudafrica perché riduca il suo import di petrolio dall’Iran, che rappresenta però un quarto del fabbisogno sudafricano, ed è quindi una risorsa a cui Pretoria non vuole rinunciare. Nel 2012 Zuma ha guidato la delegazione sudafricana al Forum di cooperazione Cina-Africa di Pechino (FocAc). Le relazioni fra Sudafrica e Cina possono essere definite meno asimmetriche rispetto alla situazione di altri paesi africani: infatti, se è vero che la Cina è il primo partner commerciale del Sudafrica (malgrado il problema insito nell’importazione di manufatti cinesi a prezzi molto competitivi rispetto a quelli prodotti in loco), è altrettanto vero che il Sudafrica è riuscito a penetrare il mercato cinese, verso cui dirige il 5 per cento del suo export. Inoltre, relazioni forti con la Cina permettono al Sudafrica di giocare un ruolo internazionale come economia emergente nel gruppo dei BRIcS. Il Sudafrica ha stretto accordi commerciali, che si vanno estendendo a diversi settori, con Regno Unito, Germania e Francia.
Nonostante sia uscito vincitore dalle elezioni, l’Anc si presenta come un partito attraversato da numerose tensioni e in transizione permanente, che continua a contare sull’alleanza tripartita con Sacp e Cosatu, senza perdere la sua posizione unificatrice di partito moderato e inclusivo. Nel post-apartheid i suoi leader hanno cercato un compromesso fra giustizia sociale e attenzione all’attrattività dell’economia, emancipazione della maggioranza nera e uguaglianza di tutti i cittadini. Anche quando le ali più conservatrici temevano per la possibile virata a sinistra nel 2008, Zuma ha rassicurato le forze produttive del paese, adottando politiche paradossalmente più vicine agli interessi degli investitori che alla base elettorale del partito. Julius Malema, ex presidente della Anc Youth League e giovane delfino di Zuma, ha fatto leva proprio sullo scollamento crescente fra la base e i suoi rappresentanti, generato dal moltiplicarsi di casi di corruzione all’interno dell’Anc e dall’incapacità del vertice di dare risposte soddisfacenti a disoccupazione e disuguaglianza diffusa. Le posizioni radicali di Malema, che ha anche infranto alcuni tabù, come quello di mettere apertamente a confronto il regime della proprietà della terra in Sudafrica e in Zimbabwe, venendo accusato di incitamento all’odio razziale verso i bianchi, gli sono costate l’espulsione dal partito nel 2012 (aggravata poi da un processo per evasione fiscale). Le critiche di Malema, comunque, toccano un nervo scoperto con cui il partito dovrà obbligatoriamente fare i conti. Nel futuro l’Anc dovrà decidere se insistere su una linea politica moderata, assecondando le tensioni sociali come effetti collaterali, o assumere posizioni più forti nel campo delle politiche redistributive, che potrebbero costargli il progressivo allontanamento della classe media e degli imprenditori.
Il 5 dicembre 2013, all’età di 95 anni, Nelson ‘Madiba’ Mandela, primo presidente del Sudafrica liberato, è morto per un’infezione polmonare, lascito della tubercolosi contratta nei diciotto anni di prigionia trascorsi a Robben Island. All’imponente cerimonia funebre hanno preso parte diversi capi di stato e rappresentanti politici e molti comuni cittadini hanno celebrato a lungo il lutto, soprattutto a Johannesburg e Qunu, villaggio natale di Madiba. Mandela, un tempo considerato un pericoloso soggetto eversivo, è stato ricordato con funerali di stato e con riti informali, collettivi e condivisi. Il presidente Zuma, parlando alla nazione subito dopo la morte di Mandela, ha ricordato la lotta per l’eguaglianza, la giustizia e la democrazia del padre del nuovo Sudafrica, esortando la popolazione a camminare nel solco da lui tracciato, e rinnovando la promessa della costruzione di una società in cui nessuno possa dirsi sfruttato o oppresso. Il discorso di Zuma, con cui di fatto il presidente ha ribadito la sua diretta discendenza dal leader dell’Anc quanto ad etica ed appartenenza politica, è stato l’ennesima dimostrazione di come i dirigenti sudafricani si trovino a doversi confrontare con l’eredità di Mandela, in una competizione da cui difficilmente è possibile uscire vincitori. Nonostante molto sia stato detto e scritto, anche evidenziando i limiti di Madiba sia come uomo politico che nella vita privata, e sfatando così le rappresentazioni più riconducibili al mito, Mandela continua ad essere l’ispiratore e il custode ideale di una prassi politica che è riuscita a fare della riconciliazione una vera e propria strategia, in grado di porre le basi per una reale convivenza e integrazione di tutte le fasce della popolazione, senza tuttavia censurare o rileggere il passato. Più i dirigenti si allontanano da questo modello e più la società civile li richiama alla coerenza con gli impegni presi dall’Anc negli anni della lotta all’apartheid. La società egualitaria immaginata da Mandela sopravvive quindi come il riferimento ultimo, e più alto, in base al quale l’opinione pubblica valuta l’operato della politica.
Nel tentativo di sanare le discriminazioni alla base della struttura segregazionista dell’economia sudafricana dell’epoca dell’apartheid, il governo Mandela lanciò un’ambiziosa politica di ‘discriminazione positiva’ chiamata Black Economic Empowerment, poi estesa anche ad altri gruppi svantaggiati, non solo per ragioni razziali, presenti in Sudafrica (da cui il nome Broad-Based Black Economic Empowerment o Bbbee). Il Bbbee prevede un sistema stringente di quote, da attuarsi in qualche decina di anni, sia per l’accesso alle università che ai posti pubblici, e soprattutto per il trasferimento della proprietà e della gestione delle imprese private nelle mani delle minoranze precedentemente discriminate. Il Bbbee è stato ampiamente criticato in quanto, lontano dal ridurre le disuguaglianze, ha invece favorito la creazione di un’élite nera (che rappresenta un quarto del 4% della popolazione sudafricana con un guadagno di oltre cento volte maggiore rispetto a un salario medio). Si è inoltre venuto a creare un sistema in cui il diritto d’accesso ha quasi azzerato la meritocrazia e la competizione, disincentivando una formazione specializzata e un continuo aggiornamento da parte di funzionari e imprenditori neri. Anche se il Bbbee ha subito numerose revisioni, sempre più incentrate sullo sviluppo e il trasferimento delle competenze e sull’espansione delle imprese, i suoi detrattori argomentano che un intervento radicale sull’educazione nazionale porterebbe a risultati migliori e meno controproducenti.