Vedi Sudan dell'anno: 2012 - 2013 - 2014 - 2015 - 2016
Raggiunta l’indipendenza nel 1956 dal condominio anglo-egiziano, il Sudan è stato lacerato per buona parte della sua storia recente da una grande conflittualità tra le diverse componenti culturali, religiose ed economiche che lo compongono, fino alla secessione del Sud Sudan nel 2011. Considerando il principio – di derivazione coloniale – dell’intangibilità dei confini, che ha improntato le relazioni internazionali di tutti i paesi africani dal momento della loro indipendenza, la divisione del più grande stato del continente africano ha una portata storica.
Le poste del contendere sono state principalmente due: il carattere laico o islamico dello stato e il suo assetto federale o unitario. L’élite araba e musulmana, che risiede nei principali centri urbani delle regioni settentrionali, ha storicamente plasmato le forme del potere politico ed economico, tanto che il Sudan è membro della Lega Araba. Il potere del centro è stato ripetutamente messo in discussione dalle periferie non arabizzate e in particolare dalle province meridionali, che durante il periodo coloniale furono amministrate separatamente dagli inglesi. Dopo il primo conflitto, che si protrasse dal 1955 al 1972, nel 1983 la rivalità tra il nord e il sud del paese riesplose con l’emanazione dello stato d’emergenza, in risposta alle rivendicazioni del sud per una diversa ripartizione delle risorse tra governo centrale e comunità locali.
Dal colpo di stato del 1989 il Sudan è governato dal regime autoritario e islamista del generale ‘Omar al-Bashir, alla guida del National Islamic Front (ridenominato nel 1998 National Congress Party, Ncp), formazione che originò dal ramo sudanese dei Fratelli musulmani per iniziativa di Hassan al-Turabi (estromesso poi dal regime nel 1999). La lotta contro i guerriglieri del Sudan People’s Liberation Movement (Splm) guidati dal colonnello John Garang è stata perseguita con determinazione dal regime di Bashir, al punto da condizionare i rapporti con tutti i paesi vicini.
Con la ricomposizione del conflitto tra nord e sud, la Repubblica Popolare Cinese è diventata il maggior partner strategico del Sudan: la Cina infatti, oltre a essere il primo partner commerciale, assorbendo i due terzi delle importazioni sudanesi (per la maggior parte petrolio, prodotto in Sud Sudan, ma esportato attraverso oleodotti che terminano a Port Sudan) e fornendo un quarto delle sue importazioni, si è rivelata determinante con il suo potere di veto nel Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite per offrire una sponda al regime di Bashir contro le crescenti interferenze dei paesi occidentali.
La repressione interna del regime di Bashir si è combinata con un crescente attivismo internazionale, che ha reso il Sudan uno dei principali fiancheggiatori di movimenti islamisti radicali come al-Qaida di Osama Bin Laden, i gruppi islamisti in Algeria, Hezbollah in Libano, Hamas in Palestina, il Lord’s Resistance Army in Uganda e altri movimenti armati di opposizione ai governi di Egitto, Eritrea ed Etiopia. Le sanzioni decise nel 1996 dal Consiglio di sicurezza della Nazioni Unite contro il governo sudanese per il suo coinvolgimento nel fallito attentato del 1995 al presidente egiziano Hosnī Mubārak, in visita ad Addis Abeba, accentuarono l’isolamento internazionale del regime. Gli Stati Uniti imposero nel 1997 nuove sanzioni economiche contro il Sudan, accusandolo di sostenere il terrorismo e l’anno successivo, nel 1998, lanciarono un attacco missilistico contro una fabbrica nei pressi di Khartoum, sospettata di produrre armi chimiche. Dopo gli attacchi terroristici dell’11 settembre 2001 a New York e Washington, le relazioni tra Sudan e Stati Uniti migliorarono grazie alla collaborazione offerta dai servizi sudanesi contro il terrorismo, anche se nell’amministrazione americana rimase una forte contrarietà al regime di Bashir che è riemersa quando si decise, nel 2007, di rafforzare le sanzioni economiche contro il Sudan, in risposta all’escalation del conflitto in Darfur.
L’attenzione della comunità internazionale per il conflitto arrivò ai massimi livelli il 9 settembre 2004, quando il segretario di stato americano Colin L. Powell evocò il ‘genocidio’ in corso nel Darfur ad opera delle bande Janjaweed, appoggiate dal governo sudanese, alla commissione esteri del Senato americano. Nonostante il dispiegamento della missione di pace dell’Unione Africana nel 2004 (Au Mission in Sudan, Amis) il conflitto è continuato, senza che sortissero l’effetto sperato il Darfur Peace Agreement (Dpa), siglato ad Abuja nel 2005, e il rafforzamento del contingente internazionale, salito a 7000 soldati. Il Dpa è stato sottoscritto nel 2006 solo da una parte del Sudan Liberation Movement (Slm), provocando una scissione all’interno del movimento. Dal 2007 opera in Darfur la forza di pace congiunta Au-Un, la Unamid (United Nations-African Union Mission in Darfur), che ha incorporato la Amis, raggiungendo nel 2012 i 21.350 soldati: si tratta della forza di pace più grande e della prima missione ibrida nella storia delle Nazioni Unite. Gli sforzi della diplomazia internazionale per risolvere il conflitto in Darfur procedono lentamente, mentre il Ncp continua ad avere grandi difficoltà a estendere il suo potere nella regione.
La risoluzione 1593 del 2005 decisa dal Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite ha dato mandato alla Corte penale internazionale (Icc) di investigare sui massacri compiuti in Darfur. Nel 2010 la Corte ha ufficialmente condannato il presidente Bashir, Ahmed Haroun (ministro per gli affari umanitari) e Ali Kushayb (uno dei leader Janjaweed) per crimini contro l’umanità e crimini di guerra. Grazie al sostegno di alcuni paesi africani, arabi e soprattutto della Cina, il presidente Bashir ha potuto contestare le accuse montanti dei paesi occidentali ed evitare l’ordine di cattura internazionale. La sua situazione si è però fatta più precaria dopo l’indipendenza del Sud Sudan: nel novembre 2011, dopo aver inizialmente rifiutato, il Kenya si è dichiarato pronto ad arrestare Bashir ed estradarlo sulla base del mandato di cattura della Icc, mentre il summit annuale dell’Au del 2012, inizialmente previsto in Malawi, ha dovuto essere spostato ad Addis Abeba dopo le dichiarazioni del presidente malawiano Joyce Banda sulla presenza di Bashir al summit che avrebbe dovuto tenersi a Lilongwe.
Le questioni non definite in modo chiaro al momento dell’indipendenza (lo status della regione di Abyei e i suoi confini, la suddivisione dei proventi del petrolio) sono state motivo di aspre tensioni tra Khartoum e Juba, sfociate in molteplici incidenti tra gruppi armati ma soprattutto nel blocco della produzione petrolifera per alcuni mesi. Le successive misure di austerità messe in pratica per fare fronte alla mancanza di entrate derivante dall’interruzione della produzione petrolifera hanno ulteriormente indebolito il governo del Ncp, contestato in piazza nel luglio 2012 in quella che a molti osservatori è sembrata l’inizio della ‘Primavera sudanese’.
La complessità etnica, linguistica e religiosa del Sudan si combina con una popolazione giovane e in forte crescita, che secondo le stime del 2011 avrebbe raggiunto i 34 milioni (i dati però includono anche la popolazione del Sud Sudan). Gli Arabi, discendenti degli antichi conquistatori, sono il gruppo più importante e costituiscono il 70% della popolazione, concentrati soprattutto nelle aree urbane. Gli Arabi non hanno però la maggioranza assoluta in tutti i distretti settentrionali, cosicché la collaborazione con gli altri gruppi (Nuba, Beja e Fur tra quelli principali) è la vera sfida politica e sociale del paese. Si stima che la maggior parte della popolazione sia musulmana, stanziata prevalentemente nel nord del paese; diversi sono i gruppi che seguono pratiche religiose tradizionali, mentre dopo la secessione del Sud Sudan la popolazione cristiana è rimasta una piccolissima minoranza. Lingue ufficiali sono l’arabo e l’inglese.
Con un sistema scolastico particolarmente carente, la stima del tasso di analfabetismo nel 2005 era nell’ordine del 39% della popolazione adulta. Durante gli anni Novanta il governo ha trasformato un sistema scolastico basato sul modello occidentale e sull’utilizzo della lingua inglese in un sistema improntato al modello islamico e fondato sull’arabo.
Il Sudan si colloca al 146° posto nell’indice stilato dalla Intelligence Unit dell’«Economist», che misura la democraticità in 167 paesi. A pesare negativamente sono un sistema politico non libero e scarsamente competitivo, formato da partiti rappresentativi di piccole élites, insieme alla conflittualità diffusa tra i diversi livelli dello stato. Stampa e televisione sono sottoposte a una stringente censura. I diritti umani sono normalmente violati in un paese dove la tortura è pratica normale per interrogare i sospetti di crimini o i dissidenti politici. A partire dalla campagna di islamizzazione intrapresa nel 1983 dall’allora presidente Gaafar Muhammad al-Nimeiri, alcune pene corporali previste dalla sharia sono state recepite nel codice penale. Dopo la salita al potere di Bashir la sharia divenne legge dello stato: il tentativo di estenderne l’applicazione al Sud Sudan alimentò una recrudescenza del conflitto.
Le gerre nel Sud Sudan e nel Darfur hanno condizionato negativamente la crescita del paese, mentre hanno inciso positivamente la partnership con la Cina e lo sfruttamento della risorsa petrolifera. Il Sud Sudan è il terzo produttore di petrolio più importante nel continente africano dopo Nigeria e Angola. La rendita petrolifera è la principale fonte di guadagno di entrambi gli stati, anche se l’agricoltura continua a pesare per poco meno di un terzo nella composizione del pil del Sudan e genera occupazione per circa due terzi della popolazione.
Da quando nel 2000 si è iniziato a sfruttare in modo intensivo la risorsa petrolifera la produzione giornaliera ha raggiunto i 514.000 barili nel 2010, grazie soprattutto all’attività di esplorazione ed estrazione delle compagnie cinesi. La rendita petrolifera ha contribuito in modo determinante nel portare in attivo il bilancio dello stato nel 2001 (per la prima volta dall’indipendenza), che però è tornato a registrare un passivo dal 2005. La rendita petrolifera è stata utilizzata per finanziare i costi dei conflitti e per la ricostruzione delle grandi infrastrutture, senza che le risorse siano state efficacemente impiegate per la riduzione delle diseguaglianze sociali.
Il pil, dopo essere aumentato a tassi sostenuti (oltre il 10%) dal 2006 al 2008, è sceso del -3,9% nel 2011 a causa sia della crisi economica mondiale che degli effetti della secessione sulla contabilità nazionale. L’introduzione nel 2007 della nuova moneta, il pound sudanese (al posto del dinar), non ha contribuito in modo decisivo a tenere l’inflazione sotto controllo. Rimane cruciale il contributo della cooperazione internazionale a sostegno del bilancio dello stato, insieme alle rimesse della diaspora sudanese, in particolare dai paesi del Golfo Persico.
Nonostante gli sforzi del governo, che nel 2008 ha lanciato con la cooperazione cinese il Green Mobilisation Program, la sicurezza e l’autosufficienza alimentare non sono state raggiunte: il Sudan rimane un importatore di cibo. Tra le colture da esportazione il sesamo ha avuto un grande sviluppo, mentre il cotone e la gomma arabica, che storicamente rappresentavano i principali prodotti di esportazione, hanno subito un progressivo declino. L’allevamento ha infine grandi potenzialità.
Nonostante le privatizzazioni intraprese dal governo in diversi settori, lo sviluppo delle grandi potenzialità legate al settore dei servizi rimane limitato: nel rapporto Doing Business del 2010 stilato dalla Banca mondiale il Sudan è al 140° posto su 183 economie-paese. Il completamento della diga di Meroe sul Nilo, grazie ai fondi della cooperazione cinese, ha incrementato notevolmente la capacità energetica del paese e accresciuto le risorse idriche, mettendo in allarme, in assenza di un accordo internazionale, i nove paesi rivieraschi.
Il Sudan è il terzo produttore di armi nel continente africano ed è inoltre un importante acquirente di armamenti prodotti dalla Russia e dalla Cina, che di recente ha portato la produzione di armi leggere direttamente sul territorio sudanese. L’esercito conta circa 110.000 soldati, arruolati con coscrizione obbligatoria per tre anni. La spesa per la difesa rimane a livelli molto alti sia nel nord (20% del bilancio statale) sia nel sud (42% del bilancio del governo autonomo), nonostante l’impegno di entrambe le parti a non riprendere il conflitto.
La guerra in Sud Sudan è costata almeno due milioni di morti e ha provocato quattro milioni di profughi all’interno del paese (la cifra più grande al mondo), costringendo inoltre 600.000 persone a cercare rifugio oltreconfine. Dalla fine del conflitto nel 2005 le Nazioni Unite stimano che circa due milioni di profughi e 300.000 rifugiati all’estero siano ritornati nelle loro regioni d’origine. Il conflitto in Darfur ha provocato oltre due milioni e mezzo di profughi e almeno 235.000 rifugiati nei campi allestiti nel vicino Ciad. Fonti internazionali suggeriscono che gli scontri lungo il confine di Abyei abbiano provocato circa 600.000 sfollati nel solo 2012.
Alla ricomposizione del conflitto tra Sudan e Sud Sudan ha fatto da contraltare nel 2003 il progressivo deterioramento della situazione nelle province occidentali del Darfur, dove il Sudan Liberation Movement (Slm), di stampo laico, e il Justice and Equality Movement (Jem), legato all’islamismo radicale di Turabi, hanno rivendicato un maggior grado di autonomia e una diversa allocazione delle risorse, sul modello di quanto stavano ottenendo le province meridionali. Per contrasto, il governo sudanese ha appoggiato le milizie conosciute come Janjaweed, che attaccarono interi villaggi uccidendo, mutilando e violentando la popolazione civile. L’accesso alla terra, che la desertificazione sta rendendo una risorsa sempre più scarsa, ha innescato una contesa tra i gruppi di agricoltori non arabi e quelli di pastori arabizzati che attualizza una contrapposizione storica.