Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
L’oreficeria, che da sempre ha colpito l’immaginario dell’uomo, conosce nel Medioevo nuovi e importanti sviluppi: diventa uno strumento privilegiato di devozione religiosa e un valido tramite per promuovere culti, risolvere contrasti civici e riaffermare l’importanza di enti e istituzioni.
Lo sfavillio dell’oro, la lucentezza delle pietre preziose, il candore delle perle e lo splendore delle gemme dalle connotazioni alchemiche e quasi magiche esercitano, fin dall’antichità, un grande fascino sugli uomini. Divinità, quali Efesto o Vulcano nel mondo mediterraneo e Wiland in quello nordico, sono i primi, mitici, artefici di questa materia. L’oro acquista un ruolo primario anche in ambito cristiano e contraddistingue la visione della Gerusalemme celeste in cui Cristo, saggio orefice, separa il giusto dalla frode. Nel corso dei secoli troviamo santi orafi, ad esempio Eligio – futuro patrono della corporazione e delle varie professioni legate ai metalli – che l’agiografia descrive giovane apprendista presso un orafo di Limoges, poi orefice e monetiere di Clotario II e Dagoberto I (600 ca. - 639) a Parigi, e infine sacerdote e vescovo di Noyon. Ma è durante il basso Medioevo che il metallo nobile e le pietre preziose raggiungono un’autonomia e un’importanza del tutto indipendenti dagli artefici che li lavorano.
Alla metà del XII secolo, in Francia, l’oreficeria assume un nuovo significato e gli oggetti preziosi diventano tramite per la contemplazione divina. Promotore di tale cambiamento è Suger(o Sugerio, 1081-1151), abate di Saint-Denis dal 1122 al 1151. Diplomatico, esteta nonché uomo dotato di un incredibile acume, Suger concentra le sue azioni su due obiettivi: potenziare l’abbazia di Saint-Denis e consolidarne l’alleanza con la corona di Francia. In quest’ottica ordina la ricostruzione del coro della basilica e dà avvio a un programma decorativo che, in pochi decenni, ne farà la chiesa più splendida dell’Occidente.
La magnificenza di Saint-Denis non suscita però consensi unanimi e aspre sono le accuse di Bernardo di Chiaravalle contro lo sfarzo e gli eccessivi ornamenti. Suger deve difendersi e, nel farlo, trova l’arma più efficace proprio negli scritti di Dionigi l’Areopagita, il santo ritenuto allora, erroneamente, fondatore dell’abbazia. Dalla lettura dell’Areopagita (in realtà un filosofo neoplatonico del VI secolo circa), l’abate apprende della possibilità di ascendere dal mondo materiale a quello immateriale e sono le sue stesse parole a descrivere l’esperienza di trance che lo coglie mentre osserva le pietre preziose e gli ornamenti che risplendono sull’altare della chiesa: ““Quando – con mio grande diletto nella bellezza della casa di Dio – l’incanto delle pietre multicolori mi ha strappato alle cure esterne e una degna meditazione mi ha indotto a riflettere, trasferendo ciò che è materiale a ciò che è immateriale, sulla diversità delle sacre virtù: allora mi sembra di trovarmi, per così dire, in una strana regione dell’universo che non sta del tutto chiusa nel fango della terra né è del tutto librata nella purezza del Cielo; e mi sembra che, per grazia di Dio, io possa essere trasportato da questo mondo inferiore a quello superiore e per una via anagogica”
”.Lo splendore dell’opera d’arte illumina, dunque, la mente di chi la contempla. Con questo pensiero Suger inaugura una nuova concezione artistica e l’oreficeria diventa una via per arrivare alla contemplazione divina.
Le idee dell’abate si irradiano velocemente dal monastero di Saint-Denis e il suo mecenatismo funge da volano per la produzione orafa del Nord Europa, che trova la massima espressione nelle due scuole del Reno e della Mosa da cui uscirà la personalità altissima di Nicolas de Verdun. Attivo a Tournai, Colonia e Vienna, Nicolas crea reliquiari, calici, candelabri spesso decorati con gemme e smalti; nel 1181 firma il suo capolavoro, l’altare dell’abbazia di Klosterneuburg, presso Vienna, impreziosito da 51 placchette con scene del Vecchio e Nuovo Testamento. I suoi magnifici smalti, sottili come nielli, costituiscono una tappa importante per l’arte medievale e anticipano quel ritorno all’antico che inaugura lo stile gotico. Nelle officine monastiche, negli opifici di corte, nelle botteghe cittadine, ovunque si produca arte figurativa, l’oreficeria svolge un ruolo di primissimo piano: senza il suo contributo, la liturgia sarebbe meno splendente e la dimostrazione del potere meno eloquente ed efficace. Carichi di profonde risonanze simboliche, questi oggetti rientrano in tutti i settori della pratica artistica medievale, sul versante sacro e su quello profano, dove si punta sul fascino emblematico del metallo nobile, sulla rarità e il valore delle pietre preziose e sulle proprietà terapeutiche e profilattiche a esse attribuite. Di fatto l’oreficeria conosce, nel corso degli anni, un ulteriore passaggio, divenendo strumento formidabile per veicolare messaggi religiosi e politici.
Gli oggetti sacri che più si adattano a interpretare tale compito nel Medioevo sono i reliquiari, contenitori di ciò che resta del corpo, delle vesti e degli oggetti appartenuti a un santo o a un beato. Inizialmente hanno una semplice forma a cassettina, poi la struttura diventa più complessa e articolata. Si hanno reliquiari architettonici, vere e proprie imitazioni in miniatura degli edifici contemporanei, e reliquiari antropomorfi, noti anche come “parlanti” per via della forma anatomica realizzata per riprendere l’aspetto della reliquia in essa contenuta e rendere più immediato e diretto il contatto col santo.
Il Reliquiario del capo di San Galgano, concepito come una sontuosa struttura architettonica a pianta ottagonale, rastremantesi verso l’altro e completamente figurata, può definirsi del tipo a torre; nella struttura ad alto tiburio, di una solidità d’impianto tale da collegarla ancora alla tradizione romanica, si possono cogliere allusioni interessanti al linguaggio gotico allora in via di codificazione. Committenti del prezioso reliquiario sono i monaci cistercensi dell’abbazia di San Galgano presso Chiusdino (Siena), che verso gli anni Sessanta-Settanta del Duecento si rivolgono a un prestigioso orefice – forse Pace di Valentino – per ottenere un sontuoso contenitore per il capo del santo. La volontà di mostrare la reliquia risulta esigenza primaria nella realizzazione dell’opera e il tabernacolo è dotato di un complesso meccanismo che consente alla fascia mediana – quella con i personaggi in piedi – di inserirsi nella parte inferiore lasciando visibile la testa di Galgano. D’altronde la scelta di un simile contenitore, che privilegia la visibilità del capo, è funzionale al rito dell’ostensione della reliquia, e trova ampia enfasi nella Vita Sancti Galgani, la fonte agiografica a cui si ispira l’orafo nell’esecuzione delle scene narrative presenti nel registro inferiore del reliquiario. Qui la volontà dell’iconografo, architetto spirituale dell’opera, e la perizia dell’orafo, mirabile esecutore del progetto, si esprimono nella perfetta sintesi della vita del santo tesa a rimarcare, con insistenza, l’appartenenza di Galgano all’ordine cistercense. In questi anni infatti il primato sul culto del santo è ancora fortemente discusso e la contesa tra i Cistercensi e gli Eremitani di sant’Agostino è particolarmente accesa. Nel giro di qualche decennio i monaci avranno però la meglio, forse proprio per la “campagna di immagine” avviata con la commissione del reliquiario, e dagli inizi del Trecento la devozione a Galgano diventa prerogativa cistercense.
Gli anni in cui si lavora al Reliquiario di San Galgano segnano l’inizio di un lungo periodo di egemonia degli orafi senesi. Per dirla con le parole di Giovanni Previtali: ““sono almeno tre i settori di produzione artistica in cui Siena acquista un predominio internazionale con carattere quasi di monopolio: smalto traslucido, matrici di sigilli, punzoni decorativi: e tutti e tre fanno capo all’attività degli orefici”” (Giovanni Previtali, “Ragioni e limiti di una mostra”, in Il Gotico a Siena, miniature pitture oreficerie oggetti d’arte, 1982). Grazie all’abilità tecnica, alla capacità inventiva, alla pronta e intelligente ricezione dei fatti artistici nuovi, i maestri di Siena conquistano una fama solidissima che li porterà al servizio di committenti quali la Santa Sede – prima a Roma, a partire proprio da Pace di Valentino, poi ad Avignone –, cardinali (Matteo di Acquasparta, e Gentile di Partino da Montefiore), comuni cittadini (Bologna) e re (Roberto d’Angiò, e Giacomo II d’Aragona). Ed è sempre un senese, Guccio di Mannaia, che sperimenterà, primo in Europa, la nuova tecnica dello smalto traslucido su bassorilievo d’argento, giocando sul fascino della luce e del colore. Suo capolavoro e modello comparativo per gli orafi successivi è il Calice di Niccolò IV eseguito per la chiesa di San Francesco ad Assisi e firmato intorno al 1290. Le placchette smaltate, le cui splendide figurazioni risultano prive di qualsiasi riferimento alla tradizione bizantina, si pongono in linea con gli esiti stilistici della miniatura francese e della pittura inglese della seconda metà del XIII secolo con sorprendente innovazione.
Ma l’oreficeria, in questi tempi, non è solo sublime creatrice di oggetti liturgici. La produzione di una bottega orafa stupisce per varietà e molteplicità. Da qui escono oggetti di uso comune: vasellame, posateria, ornamenti per vesti e cinture, e manufatti preziosi quali spade, fermagli, gioielli raffigurati fedelmente nei dipinti dell’epoca e, ancora, i sigilli.
Proprio nell’esecuzione dei sigilli vediamo impegnati anche orafi di prim’ordine come lo stesso Guccio di Mannaia. Quest’arte diviene spesso il banco di prova di sperimentazioni che combinano in maniera originale formato, legenda, stemma e figura. Infatti i sigilli, per citare Castelnuovo ““erano oggetti di straordinario prestigio, sentiti pressoché come magici a causa dello strettissimo nesso che li legava al committente, che attraverso di essi marcava del suo segno ogni suo atto, ogni documento”” (Enrico Castelnuovo, “Arte delle città, arte delle corti tra XII e XIV secolo”, in Storia dell’arte italiana, vol. 5, 1983). Nel corso del Trecento l’uso del sigillo conosce un’ampia diffusione: spesso rappresenta il mezzo più efficace e talora unico per convalidare i documenti – possederne uno significa per i privati investire di auctoritas e garantire gli atti con esso siglati –, spesso sancisce il raggiunto status sociale di chi ha saputo conquistare una piena affermazione professionale. Si prenda l’esempio del Sigillo di Giovanni di Andrea (1298 ca.), famoso decretalista bolognese (1271-1348), effigiato in un momento intimo di lettura privata nello studio.
Sempre a Bologna, solo qualche anno dopo, verrà creata un’altra grande opera orafa permeata di una forte valenza politica, la statua di Bonifacio VIII (1301). Commissionata dal Comune per rendere omaggio al papa che risolve in favore della città l’annosa questione relativa al possesso dei castelli di Savignano e Bazzano contesi con Azzo d’Este, la statua è firmata dall’orafo Manno di Bandino da Siena. Questo simulacro si inserisce in un nutrito filone di rappresentazioni celebrative di Bonifacio VIII – si pensi alle statue di Anagni, Orvieto, Firenze e Roma –, ma peculiarità locale è senz’altro l’uso del materiale impiegato, il rame dorato invece del marmo, e l’artefice stesso dell’opera, un orafo anziché uno scultore. Una commissione anomala per quest’epoca – solitamente le statue sono eseguite da scultori – che si spiega, tuttavia, tenendo presente che il prestigioso incarico giunge a coronamento del decennio che vede l’affermazione sociale degli orefici a Bologna e il loro costituirsi in una categoria professionale autonoma (1299). L’onore dell’incarico a Manno si riflette, dunque, sull’intera corporazione di cui egli fa parte.
Per concludere: nel corso del Medioevo il concetto di oreficeria conosce continui cambiamenti, dall’intuizione di Suger sul suo uso come possibile via di trance mistica si arriva, nei decenni seguenti, a un’ulteriore evoluzione. L’arte del metallo nobile diventa sempre più un medium per esprimere la devozione popolare, oltre che un valido strumento di potere per promuovere nuovi culti, risolvere contrasti civici e riaffermare l’importanza di enti e istituzioni.