Suicidio
Il termine suicidio (formato sull'analogia del latino homicidium e composto da sui, genitivo del pronome riflessivo, e -cidio, dal tema di caedere, "tagliare a pezzi, uccidere") indica l'atto di togliersi deliberatamente la vita. L'atto suicida e la pulsione che lo sottende possono avere origini molto diverse; entrambi comunque presuppongono sempre un grave indebolimento dell'istinto di conservazione, se non addirittura la sua inversione, eventualmente da mettersi in rapporto con determinati tratti caratterologici.
É. Durkheim (1897) definisce il suicidio come morte risultante, direttamente oppure indirettamente, da un atto positivo o negativo della vittima, consapevole delle conseguenze del proprio gesto; in modo più moderno ed essenziale, l'Enciclopedia britannica lo definisce un atto umano con cui un soggetto si autoinfligge intenzionalmente la cessazione della vita. Appare più difficile, invece, inquadrare concettualmente il comportamento suicidario non letale, indicato generalmente come 'tentativo di suicidio'. In teoria, quest'ultima locuzione dovrebbe essere riservata ai soggetti che sopravvivono per cause non previste e fortuite e coincidere così con il 'suicidio mancato'; in realtà, essa non viene mai usata in tal senso, ma indica tutti i tentativi che escludono un reale pericolo di morte, comportando spesso una connotazione di scarsa gravità, se non di dimostratività, e di atto da non prendere in considerazione perché privo di una vera intenzione suicidaria. Molte sono state le proposte relative a una terminologia adatta a esprimere la gradualità dell'intenzionalità suicidaria, differenziando fra tentativo di suicidio lieve, grave, suicidio preterintenzionale. E. Stengel e N. Cook (1958) hanno parlato di atto lesivo che coscientemente tende all'autodistruzione, avanzando con questo il tema della motivazione conscia o inconscia e privilegiando così gli aspetti più soggettivi. Al fine di superare le diversità e favorire un approccio più obiettivo, è emersa l'esigenza di standardizzare la terminologia. Su questa linea, N. Kreitman (1977) ha introdotto il termine parasuicidio, come atto non letale mediante il quale un individuo deliberatamente si produce lesioni o ingerisce sostanze in dosi superiori a quelle previste o generalmente riconosciute come terapeutiche. Su questa definizione di carattere eminentemente empirico, è orientata attualmente la suicidologia europea per indicare tutti i comportamenti suicidari non mortali, indipendentemente dal grado di consapevolezza o di intenzionalità.
Nell'antichità classica, con l'eccezione di Platone e di Aristotele, era considerato razionale il suicidio del 'saggio' (gli stoici lo chiamavano 'ragionato'), quale espressione di una libera ed estrema scelta: manifestazione di tale libertà assoluta sarebbero i suicidi di Socrate, Demostene, Catone Uticense e Seneca. Con l'avvento del cristianesimo l'atto suicida iniziò a essere valutato negativamente, come un peccato da perseguire. In particolare Agostino e Tommaso d'Aquino lo condannarono fermamente perché contrario alla volontà divina e tale pensiero divenne dominante nella teologia cattolica. A distanza di qualche secolo, gli illuministi affermarono di nuovo il diritto di disporre della propria vita come scelta razionale: la punibilità del suicidio fu rimessa in discussione da filosofi e giuristi e, dalla fine del 18° secolo, non fu più contemplata nella maggior parte delle legislazioni europee. In seguito, anche i romantici e gli idealisti ne difesero l'aspetto di libera scelta. F. Nietzsche, in Così parlò Zarathustra (1883-85), fece addirittura un'apologia del suicidio, ritenuto la forma migliore di morte perché soggetta alla volontà. Nell'approccio fenomenologico, K. Jaspers (1932) distingue un suicidio 'da irretimento', in cui l'atto suicida è di fatto determinato in quanto il soggetto è diventato prigioniero dei nodi dell'esistenza (crollo finanziario, passioni, vendette, umiliazioni), e un suicidio inteso, al contrario, alla stregua di atto libero e incondizionato, rappresentando una scelta esistenziale da parte di soggetti per i quali la vita è insopportabile. Anche B. Callieri (1997), pur ravvisando una modalità prioritariamente psicopatologica, riconosce la possibilità di una morte libera come situazione limite di un'ambiguità esistenziale che è propria di una dimensione antropologica. La problematica del suicidio come scelta libera e razionale appare ora di grande attualità, in quanto legata direttamente al dibattito sul suicidio assistito nonché sull'eutanasia attiva (v. eutanasia).
La tesi psichiatrica ritiene che i soggetti che si suicidano soffrano di una malattia mentale e siano portati alla decisione estrema da una modalità di pensiero e da contenuti affettivi che spiegano la loro impossibilità di continuare a vivere. Tale posizione, che prende l'avvio con gli esordi della moderna psichiatria, è in parte avvalorata dalla constatazione che la maggior parte dei soggetti suicidi soffre, oppure ha sofferto in passato, di un disturbo psichiatrico. Il suicidio tende pertanto a essere ritenuto un sintomo di un quadro più generale di compromissione del funzionamento psichico. Si deve tuttavia tenere presente che una certa percentuale di soggetti suicidi non rientra in nessuna categoria psichiatrica e che il comportamento appare trasversale all'interno dei quadri clinici e non legato alla loro gravità. Peraltro, le condizioni psicopatologiche, anche se talvolta determinanti, non possono mai cogliere l'esistenza del soggetto in toto, anche se possono rappresentare una modalità in certi casi preminente. In genere, l'approccio psicologico (Deshaies 1947) valorizza a fondo la storia personale del soggetto e le sue conflittualità, per cui il suicidio verrebbe a essere una sorta di soluzione alle difficoltà della vita individuale.
La prospettiva psicoanalitica si lega all'interpretazione freudiana della malinconia (v.; Freud 1917), per cui il suicidio viene ipotizzato come un 'omicidio mancato': l'aggressività viene orientata su di sé in quanto la presenza di un Super-Io troppo rigido e punitivo non consente di rivolgerla verso l'esterno. Tale contributo, pur restando fondamentale, è stato integrato da altre ipotesi, ove è valorizzato un narcisismo onnipotente che non tollera i limiti ed è terrorizzato dall'angoscia della perdita di Sé come negli schizofrenici iniziali. La morte viene così attuata o per affermare un'illusoria libertà assoluta, o per cancellare magicamente i conflitti, o per raggiungere un Nirvana come condizione fusionale e di pace: morte come un sonno buono e ritorno al grembo materno. Più semplicemente, talvolta, il suicidio è espressione di una fragilità della persona che non riesce a operare delle scelte o delle rinunce, né subire delle perdite: il suicidio sarebbe vissuto come controllo e superamento di un vicolo cieco. Secondo la tesi sociologica, sviluppata da Durkheim, all'origine del suicidio vi sono soltanto fatti sociali, ambientali, economici, culturali.
Esistono tre tipi di suicidio:
1) anomico, proprio delle situazioni di cambiamento dei valori e di crisi sociale con mancato adeguamento alle regole;
2) egoistico, legato alla persona e conseguente a un eccesso di individualismo e a una carenza di coesione comunitaria, per cui l'individuo prevale sull'Io sociale da cui è alienato e fa riferimento solo alle proprie risorse;
3) altruistico, ove è la socialità a predominare, e il comportamento può assumere aspetti di sacrificio a vantaggio della comunità, sicché, contrariamente all'anomico, il soggetto si sente determinato e coartato dalle attese sociali. È ormai generalmente condivisa l'opinione che il comportamento suicidario non sia mai rapportabile a una causa specifica, ma rimandi sempre a molti fattori ove gli aspetti sociali, ambientali e individuali, nella loro componente biologica e psicologica, appaiono saldamente intrecciati. Non esiste quindi un modello comune cui fare riferimento, né una specifica personalità suicidaria.
È pertanto indispensabile usare un approccio multidisciplinare, avvalendosi di un'ottica 'interattivo-integrazionista' e considerando, quindi, sia i fattori soggettivi sia quelli extrasoggettivi che si influenzano reciprocamente. Vengono così riconosciute alcune variabili che singolarmente possono anche essere ininfluenti ma che, interagendo e sommandosi ad altre, diventano determinanti.
Tale orientamento viene espresso in maniera specifica da S.J. Blumenthal (1988), il quale descrive cinque aree di vulnerabilità:
1) diagnosi psichiatrica;
2) disturbi di personalità;
3) fattori psicosociali e ambientali;
4) elementi genetici e familiari;
5) fattori bioumorali. Diventa così possibile che alcuni soggetti, in cui si riscontra il maggior numero di questi elementi, siano considerati a rischio suicidario più di altri.
Secondo l'Organizzazione mondiale della sanità (OMS), circa 800.000 persone all'anno morirebbero per suicidio. I dati delle statistiche ufficiali sono tuttavia sempre in difetto. Essi rilevano comunque una grande differenza fra le nazioni: i paesi dell'Europa settentrionale, come Finlandia, Danimarca, Svezia, hanno tradizionalmente tassi elevati, anche molto superiori ai 20 casi per anno su 100.000 abitanti. Tassi ancora più elevati si riscontrano in area ungherese (Europa orientale). Anche in paesi dell'Europa centrale, come Olanda e Austria, il fenomeno presentava tali dimensioni, che però si sono ridotte a seguito di complesse iniziative preventive. Nell'Europa meridionale esso ha un'incidenza molto più contenuta, specie in Portogallo e in Grecia; in Italia appare medio-basso, con un tasso, negli anni Ottanta del 20° secolo, di 6,8 casi per anno su 100.000 abitanti (si ritiene tuttavia che siano dati inferiori del 40% a quelli reali; De Leo-Pavan 1993). In Francia, sempre in quegli anni, era calcolato un tasso di 17,2 casi per anno su 100.000 abitanti. Il tasso è elevato in Giappone, mentre negli USA appare stabilizzato su valori di 12-13 casi per anno su 100.000 abitanti. Ancora più complessa la stima epidemiologica dei 'parasuicidi'. In Europa si stima che il totale dei parasuicidi che entrano in contatto con agenzie sanitarie sia di circa 215 per anno su 100.000 abitanti; in Finlandia è presente il tasso più elevato con 414 e a Leida, in Olanda, il tasso più basso con 61. Certamente però, anche questi dati sono sottostimati in quanto molti tentativi di suicidio non arrivano mai a contatto con una struttura sanitaria. Il suicidio è raro prima dei 12 anni e aumenta con l'età, con una frequenza massima oltre i 75 anni; la tendenza appare in crescita visto anche il prolungarsi della vita media della popolazione. È circa 3 volte più frequente nel sesso maschile, mentre un rapporto inverso si registra nel parasuicidio. Riguardo allo stato civile, sembra che chi è sposato, specie se con figli molto giovani, si suicidi meno di chi è divorziato, vedovo o single. Sotto il profilo della religione, risulta meno frequente tra i cattolici che fra i protestanti e gli ebrei, anche se la fede religiosa non appare un fattore di protezione significativo. Alcune categorie professionali pagano un tributo maggiore di altre al comportamento suicidario: in particolare risultano più esposti i medici (specialmente psichiatri e anestesisti), gli avvocati e i giudici. I metodi più ricorrenti sono l'impiccagione, la defenestrazione, l'arma da fuoco, l'annegamento, il gas di scarico. Ultimi appaiono l'assunzione di farmaci e il taglio dei polsi, che invece risultano i più frequenti nel parasuicidio.
Esistono, sulla base di indagini epidemiologiche e di constatazioni empiriche, fattori che, specie se raggruppati, danno luogo a un aumento del rischio suicidario in confronto alla popolazione generale. Naturalmente il primo di questi fattori è rappresentato dal parasuicidio: il comportamento suicidario non riuscito tende a essere ripetuto, e la ripetizione aumenta ulteriormente il rischio; è stato calcolato che un parasuicida su 10 morirà suicida, con una probabilità maggiormente elevata nei primi 6 mesi. La presenza di una diagnosi psichiatrica, attuale o passata, è il fattore più correlato con il rischio suicidario, secondo alcuni di 12 volte maggiore rispetto alla popolazione generale. Pertanto, il contributo specifico dei disturbi psichici appare senz'altro elevato. Le patologie più frequentemente associate sono i disturbi dell'umore, che rappresentano da soli il 65-90% dei suicidi con diagnosi psichiatrica. Si tratta, in particolare, di disturbi bipolari e di depressioni maggiori, soprattutto nei momenti di 'viraggio' e nelle prime fasi di malattia. Anche l'alcolismo è ben rappresentato nelle fasi avanzate. La schizofrenia è pure ritenuta un rischio grave, non tanto nelle fasi floride o sotto l'effetto di allucinazioni, quanto invece nei periodi di remissione, o nell'insorgenza della psicosi. Altre patologie sono le demenze nel periodo iniziale, le tossicomanie e i disturbi di personalità, specialmente di tipo antisociale e borderline (particolarmente a rischio di parasuicidio). A questi fattori possono aggiungersi eventi negativi, come i lutti, le separazioni, la rottura di relazioni, le perdite genitoriali, il crollo economico e sociale, la vergogna, l'umiliazione, il carcere, le vicende giudiziarie, la violenza sessuale e quella in famiglia, e le malattie fisiche specie se invalidanti (sclerosi multipla e altre malattie, sistemiche), dolorose (neoplasie) o a forte contenuto emotivo (AIDS). Altri dati relativi al rischio possono ricavarsi da fattori biologici e familiari.
La ricerca, ancora in fase iniziale, sulla correlazione fra marker biologici e comportamento suicidario ha preso in considerazione molti aspetti fra cui i livelli di cortisolo, l'immunità cellulare e, in particolare, il metabolismo della serotonina nel sistema nervoso centrale. Non si è arrivati ancora a conclusioni specifiche anche per la difficoltà delle indagini. I dati più significativi sono, allo stato attuale, una relazione fra aggressività e serotonina e un ridotto turnover della stessa come predisponente al comportamento suicidario. In rapporto ai fattori familiari, si valuta la possibilità di una componente genetica, come sembrano provare alcuni studi, fra i quali quello condotto su una comunità religiosa, gli amish, in due genealogie familiari. Oltre all'aspetto genetico, il suicidio di un genitore rappresenta probabilmente un fattore di rischio per i figli, in quanto viene a turbare profondamente la loro vita psicologica, incidendo in modo grave sui processi maturativi. Una particolarità riguarda la stagione in cui può avverarsi con più frequenza il fatto suicida. Molto incerti e contraddittori sono i dati sul periodo dell'anno, sul giorno della settimana e sull'ora del giorno. Approssimativamente, i picchi stagionali sono confermati in primavera (aprile e maggio) e autunno (novembre); nella settimana sembrano il lunedì e il venerdì i giorni più ricorrenti e l'orario presenta una punta mattutina e una serale. Frequenti appaiono i suicidi in date significative: 'suicidio degli anniversari', in ricorrenze importanti della vita.
Dal momento che, come si è detto in precedenza, non appare possibile riferirsi a una causa specifica, ma piuttosto a una multifattorialità molto complessa, l'orientamento più ragionevole sulla prevenzione è quello di valorizzare e prevedere più programmi come quelli elencati di seguito:
1) ricerca e conoscenza precisa del fenomeno e delle sue caratteristiche, in rapporto alla realtà locale;
2) informazione, sensibilizzazione e preparazione degli operatori sanitari, della scuola, del sociale, con unità specialistiche sul problema del suicidio;
3) creazione di centri anticrisi e linee di ascolto con specialisti e volontari che diano una disponibilità immediata per chiunque ne senta la necessità;
4) intervento su gruppi a rischio, cioè su persone che possono essere oggetto di attenzioni mirate e programmate, come, per es., adolescenti con problemi maturativi, anziani che vivono soli, vittime di violenza e, in particolare, soggetti che hanno già in precedenza tentato il suicidio;
5) identificazione e cura dei disturbi psichici, data la consapevolezza del loro legame forte, anche se non specifico, con il comportamento suicidario;
6) promozione di tutti i programmi che possano favorire tanto la salute mentale quanto il benessere psichico. Inoltre, rimane fondamentale sviluppare un atteggiamento personale che preveda la possibilità di avere una vicinanza emotiva, di ascolto e di empatia, che sono le più specifiche attitudini per riconoscere una persona a rischio suicidario, sia che questa si trovi in una condizione psicopatologica, sia che viva più semplicemente una condizione bloccata dell'esistenza e che non veda soluzioni se non quella di togliersi la vita. Solamente considerando il suicidio dal punto di vista interno di una persona, lo si potrà comprendere, e solo così si potrà dare un senso a un comportamento che se da un lato appare come una consapevole rottura con il mondo, dall'altro può essere invece una ricerca disperata di aiuto, un messaggio di estrema sofferenza che chiede di essere accolto.
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