Suna no onna
(Giappone 1964, La donna di sabbia, bianco e nero, 123m); regia: Teshigahara Hiroshi; produzione: Teshigahara Hiroshi; sceneggiatura: Abe Kōbō dal suo omonimo romanzo; fotografia: Segawa Hiroshi; montaggio: Shuzui Fusako; scenografia: Hirakawa Toyatsu, Yamazaki Masao; musica: Takemitsu Tōru.
Un giovane operatore di borsa di Tokyo, entomologo dilettante, è alla ricerca di rari insetti in una zona desertica del Giappone. Perso l'ultimo autobus per tornare a Tokyo, il giovane è convinto da alcuni uomini a trascorrere la notte nella casa di una donna che abita nei paraggi, e viene così condotto nella profonda buca scavata in mezzo alle dune dove si trova l'abitazione della sua ospite. Questa, rimasta da poco vedova, passa le notti a portar via secchi e secchi di sabbia per evitare che la casa ne venga sommersa; così devono fare gli altri abitanti del villaggio. Il mattino dopo, l'uomo scopre che la scala che avrebbe dovuto riportarlo in superficie è stata rimossa, e si rende così conto di essere prigioniero: se vorrà acqua e cibo dovrà anche lui, come la donna, caricare i suoi secchi. All'inizio l'entomologo cerca disperatamente una via di fuga, ma tutti i suoi tentativi d'evasione falliscono. Poco alla volta sembra quasi rassegnarsi, e inizia a vedere questa sua nuova condizione di vita come una realtà non poi molto diversa da quella precedente, egualmente oppressa dai legami familiari, dal lavoro e dai doveri sociali. Anche il rapporto con la donna, che esercita su di lui una forte attrazione, comincia a cambiare, e presto diventa analogo a quello di una normale coppia. Nel frattempo, l'uomo scopre casualmente una tecnica per estrarre acqua dalla sabbia, ma decide di non rivelare la cosa a nessuno. Rimasta incinta, la donna è portata in ospedale dagli abitanti del villaggio che, lasciando la buca, dimenticano di togliere la scala. L'entomologo potrebbe così finalmente fuggire ma, dopo essere salito in superficie e aver fatto qualche passo, decide di tornare nella buca e alla sua straordinaria scoperta, che forse un giorno potrà anche rivelare alla comunità che lo ospita.
Vincitore del Premio Speciale della Giuria al Festival di Cannes del 1964, Suna no onna è il secondo dei quattro film che Teshigahara Hiroshi ha tratto dai racconti o dai romanzi dello scrittore coevo Abe Kōbō. Il film, insieme a Otoshiana (La trappola, 1962), Tanin no kao (Il volto di un altro, 1966) e Moetsukita chizu (La mappa bruciata, 1968), compone una sorta di tetralogia fantastica sui temi della perdita di identità e della reificazione dell'uomo nella società giapponese degli anni Sessanta, tetralogia caratterizzata da un'elegante messinscena che sceglie la via del simbolismo e dell'astrazione. Il film può essere letto come una complessa allegoria dei rapporti fra l'individuo e la società: tema introdotto già all'inizio della storia, quando l'uomo, ancora 'libero', si lamenta fra sé e sé per i certificati, i permessi, le autorizzazioni che gli sono necessari nella sua esistenza quotidiana. È del resto con un ultimo documento, quello che attesta la scomparsa ufficiale del protagonista, che il film si chiude, documento grazie al quale lo spettatore può infine conoscere il nome del personaggio (Jumpei Niki) di cui ha seguito l'incredibile vicenda.
L'omissione del nome proprio del protagonista per tutta la durata del film, almeno sino al suo epilogo, pone dunque in modo esplicito il tema della perdita della vecchia identità e del cammino verso la conquista di una nuova. L'uomo della sabbia si ritrova nella sua nuova realtà a vivere le stesse contraddizioni della sua vita precedente, a perpetuare ogni giorno gli stessi riti, a doversi sacrificare per il bene della comunità, a cercare un'impossibile via d'evasione alla monotonia del quotidiano. Come all'inizio del film affidava le sue speranze alla scoperta di un qualche insetto sconosciuto cui poter attribuire il proprio nome, così, alla fine, troverà consolazione nella sua straordinaria scoperta dell'acqua. Consolatoria sembra essere anche la storia d'amore con la donna della sabbia, vicenda che progressivamente si carica di sensualità ed erotismo e su cui Teshigahara indulge in diversi momenti, come accade nella scena in cui la donna lava meticolosamente il corpo dell'uomo o quella in cui questi la scopre dormire svestita. Mai, tuttavia, i due riescono a liberarsi dalla società che li circonda e si impone sulle loro esistenze. Una società metaforicamente rappresentata dalla stessa sabbia, la terza protagonista del film, che si trova ovunque: nei campi lunghi che mostrano all'inizio l'uomo aggirarsi in un deserto sconfinato, come nei piani ravvicinati sulla pelle della donna dove sempre si scorgono dei minuscoli granelli. Il regista, inoltre, accentua la dimensione claustrofobica vissuta dai due protagonisti attraverso l'uso di una macchina da presa che sta spesso addosso ai loro corpi, li bracca da vicino, privandoli quasi di uno spazio in cui potersi muovere liberamente ed esprimendo così la loro impossibilità di fuggire da un mondo in rovina. Il culmine di questa oppressione del sociale sul privato è raggiunto nella scena in cui gli abitanti del villaggio si dichiarano disposti a concedere una mezz'ora di libertà al giorno al protagonista, solo a patto che questi faccia l'amore con la donna davanti ai loro occhi. Condizione che l'uomo, contro il volere della compagna, accetterà, mettendo così in scena una sorta di stupro simbolico, trasformando in questo modo in spettacolo pubblico quel che invece dovrebbe essere la cosa più intima del rapporto d'amore fra un uomo e una donna. Prodotto in modo indipendente dallo stesso Teshigahara, il film è oggi considerato uno degli esiti maggiori del nuovo cinema giapponese che si affermò negli anni Sessanta.
Interpreti e personaggi: Okada Eiji (l'uomo), Kishida Kyōko (la donna).
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