Vedi SURKH KOTAL dell'anno: 1966 - 1997
SURΚH KOTAL (v. vol. VII, p. 565)
Nome attribuito a un sito scavato dalla Délégation Archéologique Française en Afghanistan tra il 1952 e il 1963 sotto la direzione di D. Schlumberger. Là collina omonima è un monticolo dalle pendici scoscese, poco discosta dalla catena di monti che limitano a O la piana di Pul-e Khumri, nella Battriana afghana. Il suo versante E è protetto da due linee fortificate, una all'interno dell'altra, che si ricongiungono ai piedi della collina. La fortificazione esterna racchiude un grande santuario il cui muro perimetrale costituisce la fortificazione interna, e insieme alcuni quartieri residenziali e numerosi spazi liberi.
Il santuario occupa un ampio spazio rettangolare (82,50 m da Ν a S; 170 m da E a O). Si articola in due parti topograficamente distinte: a O, sulla sommità della collina, si trova una corte porticata che circonda il c.d. tempio A; a E, sul pendio fortemente scosceso, una sistemazione del fianco della collina in terrazze artificiali dà origine a quattro grossi gradoni. Si accedeva al tempio mediante una gigantesca scala in pietra che partiva dalla base della collina, dove passava un canale d'irrigazione rivestito di pietra. Il santuario era normalmente disabitato: i ministri del culto e i guardiani risiedevano senza dubbio nell'area tra le due cinte fortificate. La città da cui il tempio dipendeva si trovava più lontano, nella piana.
Le due fortificazioni sono dello stesso tipo: mura in mattoni crudi (40 X 40 X 10 cm), spesse 3,20 m, alte più di 5 m, con torri quadrate (3,90 χ 3,90 m) cave all'interno e decorate all'esterno da false feritoie. La difesa avveniva dall'alto. Sul fianco E, i muri Ν e S del perimetro del santuario seguono il pendio, qui molto ripido (c.a 50 m), e si raccordano alla fortificazione esterna ai piedi della collina. La facciata E del santuario, quasi in pianura, coincideva quindi con la facciata E della fortificazione esterna. Quasi completamente distrutta, è possibile ricostruirne l'aspetto. Si trattava di un possente muro di mattoni che si alzava su una fondazione di pietrame alta da
6 a 7 m. La porta del santuario si apriva sulla sommità del basamento di mattoni ed era accessibile da una scalinata monumentale in pietra larga 6,60 m. Tra il basamento e lo spiccato del muro di mattoni correvano, per tutta la larghezza della facciata (82,50 m), due corsi di blocchi di pietra, il più basso dei quali portava l'iscrizione di fondazione, in lingua battriana e incisa in caratteri greci.
Il monumento era fatto per essere visto e avvicinato da E. Nel suo aspetto originario si presentava come una fortezza sul fianco della collina. Di fronte al visitatore si ergeva una possente muraglia con bastioni che, con il basamento, doveva superare i 13 m e alla quale la decorazione a feritoie conferiva un aspetto formidabile. Dietro questo muro il versante della collina appariva nudo, senza costruzioni aggiuntive né decorazioni, ma completamente tagliato in giganteschi gradoni traversati al centro da una larga scala in pietra. La massa imponente del tempio A, preceduta da colonne isolate e incorniciata a Ν e a S dalle estremità dei portici della corte, probabilmente dipinta di bianco, coronava il complesso ed era visibile da grande distanza.
Quando il visitatore arrivava sulla sommità della collina, dopo aver salito gli erti gradini della scalinata, si trovava a diretto contatto con il tempio, proprio di fronte alla porta della cella. Il tempio è un edificio rettangolare di 46,30 m (N-S) per 39,20 m (E-O), aperto solo verso E; si tratta di un períptero su podio, formato da una cella quadrata circondata in origine su tre lati da un corridoio. Il podio, in mattoni crudi, era rivestito da un paramento di pietra decorato da lesene corinzie. Sosteneva un peristilio di quaranta colonne a base attica, con fusto e capitello di legno (?). Questo peristilio circondava su tre lati muri ciechi: solo il lato E possedeva delle aperture, una larga porta centrale (6,40 m) che portava alla cella, e due porte laterali (3 m) che davano sui corridoi. La cella è un ambiente quadrato (11,50 X 11,50 m) dalle pareti decorate da lesene. La copertura, piatta, era sorretta da quattro colonne (di legno?) con basi di pietra (basi attiche). I muri della cella, in mattoni crudi, erano spessi 3,40 m e la sua copertura, in argilla su telaio ligneo, doveva alzarsi al di sopra della copertura del peristilio.
Al centro della cella era una piattaforma di blocchi di pietra (4,70 X 4,70 m) i cui lati erano decorati da rosette dipinte. Nel corso dello scavo furono rinvenuti frammenti scolpiti di un fregio (amorini portatori di festoni, Śiva e Pārvatī) la cui posizione originaria non è nota. Non sappiamo che cosa vi fosse sulla piattaforma. Quanto al corridoio, nel suo stato primitivo era uno spazio completamente vuoto senza altre aperture oltre alle due porte a E.
La corte era circondata da un portico a colonne (basi di pietra, fusti di legno) che a E si apriva direttamente sul versante del colle. Nella stretta fascia di terreno che separava la facciata E del podio dal muro di fondo della terrazza superiore si alzavano sei colonne isolate sostenute da gigantesche basi di pietra a profilo attico. L'estremità NE del portico ospitava un bassorilievo, molto danneggiato, mentre l'estremità SE era stata organizzata in una cappella che ospitava tre grandi statue di pietra.
La vita del tempio A è nota assai bene grazie allo scavo e alle iscrizioni battriane in caratteri greci: l'iscrizione di fondazione, molto danneggiata (SK1) e le iscrizioni di ripristino, note in tre copie diverse (SK4 M, A e B). Esse ci informano del fatto che il santuario era dedicato a Kaniṣka e che la sua costruzione era avvenuta sotto la sorveglianza di un personaggio importante («signore delle attrezzature») il cui nome non si è conservato, e di un architetto dal nome greco di Palamede. Lo scavo ha confermato che il santuario e la fortificazione esterna vennero eretti su un terreno vergine e che la coerenza del complesso era stata voluta di proposito. La costruzione del santuario durò diversi anni, probabilmente durante gran parte del regno di Kaniṣka, e non fu mai portata a termine. A un certo punto sembra che l'acqua venisse a mancare e che il santuario fosse abbandonato fino al momento in cui nell'anno 31, sotto Huviṣka, un alto dignitario kuṣāṇa, Nokonzok «guardiano dei confini», venne a visitarlo e ordinò dei lavori di ripristino. Tra questi lavori bisogna senz'altro includere le due semiterrazze poste a rinforzo esterno del basamento di pietra del muro della facciata del peribolo. Sembra inoltre che Nokonzok abbia costruito un pozzo, non rinvenuto: infatti il pozzo portato alla luce all'esterno del complesso è posteriore a questa fase dei lavori.
Il tempio A continuò a essere utilizzato sotto i due successori di Kaniṣka, Huviṣka e Vāsudeva, e fu abbandonato tra l'anno 80 e l'anno 120 (?) dell'èra di Kaniṣka. Come è noto, la data iniziale di quest'èra è oggetto di discussioni. Fussman crede che la data del 78 d.C. sia la più verisimile, ma anche il periodo tra il 120 e il 130 d.C., proposto da molti studiosi, è ugualmente possibile. Altri propongono date ancora più tarde, il 232 e il 278 d.C.
Per qualche anno il tempio A fu lasciato in abbandono. Quindi sulla sommità della collina, proprio sulle sue rovine, furono costruiti altri due templi, il tempio D, di cui non rimangono che poche tracce, e il tempio B.
Quest'ultimo è un edificio rettangolare, costruito contro la facciata S del santuario, che riutilizza e maschera. È formato da una cella quadrata (8,60 X 8,50 m) circondata da corridoi su tre lati. L'entrata è nascosta dal corridoio. Il tempio era orientato a E e si apriva su un vasto cortile d'accesso. Un cortile sul retro, comunicante con il corridoio, era riempito di ceneri grigie per un'altezza di 2,20 m dal pavimento. La cella si apriva a E. I muri e il pavimento erano in mattoni crudi, coperti da un intonaco bianco ridato più volte. Verso il centro dell'ambiente si alzava un altare quadrato (1,50 X 1,50 m, alto almeno 1,60 m) in mattoni crudi e ricoperto con un intonaco d'argilla. La parete E dell'altare portava una decorazione modellata a rilievo di due uccelli visti di lato ad ali spiegate; sul piano dell'altare, una cavità arrossata dal fuoco conteneva ancora ceneri di bambù non. provenienti dall'incendio che distrusse il tempio Β. Tale incendio, che giunse dopo un lungo periodo di frequentazione, distrusse insieme quello che restava del tempio A e del portico che circondava la corte del grande santuario, il tempio Β e il tempio D. La data dell'incendio dipende in gran parte dalla cronologia kušāno-sasanide, ancora più controversa di quella kuṣāna e oscillante tra -il 250 e il 350 d.C. Dopo un breve intervallo, ci fu un modesto tentativo di ripristino dei templi A e B; quindi il sito fu abbandonato.
Ai piedi della cinta del santuario, qualche metro a O, passava un canale di irrigazione. In un'epoca non determinabile, ma senza dubbio posteriore all'abbandono definitivo del tempio A, sulla riva destra di questo canale
fu costruito un grande pozzo composto di un cilindro (diam. 4,20 m, prof. 8 m) e di una scala d'accesso di trenta gradini, fiancheggiata da pareti in opera quadrata alte almeno 2,50 m dallo spiccato. Il pozzo è costruito con materiali di recupero, e tra le lastre dei gradini vi erano, reimpiegate, due copie dell'iscrizione di Nokonzok. Il pozzo è perciò posteriore al tempio A. È impossibile dire se sia stato scavato per sopperire ai bisogni dei templi Β e D o per i miseri santuari risistemati dopo il grande incendio.
Leggermente a S del santuario si ergeva il piccolo villaggio fortificato detto di Kohna Masǰed, scavato ma ancora inedito. I suoi livelli inferiori devono essere contemporanei al tempio B, ma esso continuò a essere frequentato almeno fino al V sec. d.C.
Circa 2 km a E del santuario, nella piana, fu scoperto il basamento di un monumento rettangolare (14 X 17,50 m) alto 1,50 m. Le pareti di tale basamento erano rivestite da un paramento in pietra decorato da lesene con capitelli corinzi; sulla sua superficie restavano le tracce di un piccolo edificio in antis che ospitava alcune statue di argilla: di una di queste, colossale, si conservava un frammento di piede. Questo monumento, posteriore di una cinquantina di anni alla costruzione del tempio A, deve essere rimasto in funzione fino al III sec. d.C.
Di questi monumenti si conservano solo le fortificazioni di Kohna Masǰed. Il pozzo e la piattaforma furono reinterrati subito dopo lo scavo. Gli edifici sulla collina, già fortemente danneggiati prima dello scavo, hanno sofferto molto per la pioggia, i terremoti e l'interruzione delle misure di conservazione prese dagli archeologi francesi. Le sculture, le iscrizioni e le monete scoperte nel corso dello scavo erano esposte nel museo di Kabul, a eccezione di una lesena della piattaforma che si trova al Musée Guimet di Parigi.
Non possediamo informazioni esplicite sulla natura dei culti. Tenui indizi archeologici lasciano supporre che la piattaforma nella piana fosse il basamento di una cappella buddhistica. Il tempio Β era senza dubbio un tempio del fuoco, probabilmente zoroastriano. Il fuoco ardeva sulla piattaforma al centro della cella. Si trattava di un fuoco perpetuo, difficilmente accessibile ai profani. La circumambulazione dell'altare, se praticata, veniva effettuata all'interno della cella. Le ceneri erano conservate con cura e sono state ritrovate nel cortile posteriore. Per quanto concerne il tempio A, le opinioni sono ancor più disparate.
D. Schlumberger pensava che il tempio A fosse un tempio del fuoco, mentre i suoi collaboratori A. Maricq e M. Le Berre ne dubitavano fortemente. Il confronto tra le piante dei templi A e B, così come dei rispettivi ritrovamenti, impedisce di accettare tale ipotesi. Il tempio B, che era un vero tempio del fuoco, non era accessibile al pubblico e le sue ceneri venivano conservate. Il tempio A era aperto al pubblico mediante una porta molto ampia e, pur se portato alla luce integralmente, non ha restituito tracce di cenere proveniente dal culto. D'altra parte le iscrizioni non contengono alcun termine che possa essere tradotto con «fuoco», né alcuna allusione a un tempio del fuoco. L'iscrizione di ripristino dice solo: «questa acropoli è il santuario della Vittoria [detta] di Kaniṣka, che ha ricevuto il nome di Kaniṣka [...] allora gli dei si levarono dalla loro dimora. Allora furono trasportati alla fortezza di Lraf e l'acropoli fu abbandonata [...]». Il santuario è definito come un bagolanṅo, «soggiorno degli dei», non come un tempio del fuoco. Esistono infine molte analogie tra il tempio A e il Santuario di Māṭ a Mathurā, dove è stata ugualmente scoperta una statua di Kaniṣka.
Questi elementi spingono a riconoscere nel tempio A il luogo di un culto dedicato alla Vittoria (Fortuna) di Kaniṣka, che, per forza di cose, è anche quella della dinastia. La dinastia vi era rappresentata dalle statue poste alle estremità NE e SE del portico. Un certo numero di dei vi avevano ugualmente posto. Le nicchie che decoravano le pareti interne dei portici contenevano forse le loro statue d'argilla. All'interno della cella vennero rinvenuti anche parti di fregio di cui almeno tre rappresentano Śiva e Pārvatī. Tutte queste divinità ricevevano un culto, ma in subordine, poiché il tempio era dedicato innanzitutto alla Vittoria [di] Kaniṣka.
La scoperta di S. K. fece sensazione all'epoca, poiché rappresentava la prima testimonianza di un'arte ellenizzata in Battriana: essa permise a D. Schlumberger di formulare la sua teoria sull'arte kuṣāna e di spiegare la genesi dell'arte greco-buddhistica in un modo che, malgrado le scoperte successive, soprattutto quella della città greca di Ai Khānum, ugualmente dovuta a lui, resta ancora fondamentalmente valido.
S. Κ., sul piano tecnico, non segna alcuna rottura con la Battriana greca nota oggi dagli scavi di Ai Khānum. In entrambi i siti si è abbondantemente utilizzato il mattone crudo. Le fortificazioni di S. K. ricordano quelle di Ai Khānum e sono solo leggermente meno massicce, senza dubbio perché prive di funzione militare. La decorazione degli ambienti ufficiali, l'uso della pietra, le modanature, le basi attiche, le lesene, i diversi colonnati, sono di origine greca. La stessa predilezione per i portici è evidente in tutti gli edifici greci. Infine, la pianta del tempio A, se non è proprio quella di un tempio greco, riprende tuttavia una formula creata, o comunque largamente utilizzata, ad Ai Khānum, quella cioè dell'ambiente di rappresentanza con copertura sorretta da quattro colonne, circondato da un corridoio e aperto su un'ampia corte, qui costituita dal fianco della collina. L'unica innovazione, se di innovazione si può parlare, consiste nell'economia dei materiali (pietra di cattiva qualità, fusti e capitelli delle colonne in legno, pietre utilizzate come paramento, fondazioni imperfette) che contrasta con l'enormità delle dimensioni.
Tuttavia S. K. non dava affatto l'impressione di un tempio greco. Assomigliava a una fortezza o a un palazzo fortificato: questo edificio costruito in cima a una collina grazie a un'enorme opera di terrazzamento richiama l'uso iranico di costruire santuari su terrazze artificiali arroccate sulla cima di montagne sacre. Le tecniche greche sono state utilizzate da gente iranica per costruire un santuario che è un monumento iranico, al servizio di una dinastia centroasiatica iranizzata. Si è ripetuto nell'architettura lo stesso fenomeno manifestatosi nella lingua: il battriano è la lingua iranica della Battriana, scritto in caratteri greci probabilmente a partire dai kuṣāna, per servire la volontà politica della dinastia.
Risalta subito il confronto tra l'arte kuṣāna della Battriana e l'arte del Nord-Ovest dell'India (Gandhāra) di età kuṣāna: come l'arte kuṣāna della Battriana è data dall'applicazione delle tecniche del mondo iranico ellenizzato alle esigenze di una dinastia e di culti locali, così l'arte del Gandhāra consiste nell'applicazione di queste stesse tecniche alle esigenze di una religione locale, il buddhismo. A S. K. come nel Gandhāra si trovano gli stessi motivi decorativi (lesene a piattabanda, capitelli corinzi, colonnette), lo stesso rendimento tecnico del panneggio, lo stesso modo di rivestire alla greca degli edifici che greci non sono. Il drappeggio delle statue in argilla di S. K. (nicchie del portico), il piede di argilla della statua colossale che si alzava sulla piattaforma buddhistica, avrebbero potuto essere trovati nel Gandhāra. Ma hanno confronti altrettanto validi a Palmira e nel mondo partico, che costituivano in questo gli eredi e gli irradiatori delle tecniche del Mediterraneo ellenizzato.
Bisogna soffermarsi anche sulle tre statue acefale e sul bassorilievo trovati sulla sommità del santuario. Il bassorilievo è troppo danneggiato per permettere un commento. Ma una delle statue ricorda in modo sorprendente la grande statua di Kaniṣka trovata nel santuario di Mathurā che porta iscritto il suo nome. Si tratta, al pari dei ritratti sulle monete, di testimonianze dell'arte «ufficiale» kuṣāna, che serviva alla glorificazione politica della dinastia. Queste statue non hanno che rapporti molto distanti con la statuaria greca di Battriana, nota dagli scavi di Ai Khānum. Non mostrano affatto quella libertà di movimento, quell'illusione di vita che scaturiscono dalle statue greche; sono statue-stele, la cui faccia posteriore è scolpita in modo sommario. Il sovrano è raffigurato di fronte, stante, immobile, solidamente piantato sulle gambe divaricate. Il suo costume, quello dei cavalieri della steppa, rafforza l'impressione di pesantezza: stivali, pantaloni, lunga tunica, mantello. D. Schlumberger aveva chiamato quest'arte «arte dinastica» e aveva mostrato in che cosa si collegava all'arte ufficiale dell'Iran antico. Si tratta di manifesti politici che proclamano che il potere appartiene a una dinastia di cavalieri iranici, fieri della loro origine e del loro valore guerriero; sono conquistatori che hanno utilizzato le tecniche dei colonizzatori greci proprio contro di loro e che per questo si sono verisimilmente presentati come liberatori delle popolazioni e delle culture locali.
Bibl.: Rapporti finali: D. Schlumberger, M. Le Berre, G. Fussman, Surkh Rotai en Bactriane, I. Les temples (MDAFA, XXV), Parigi 1983; G. Fussman, J.-C. Gardin, O. Guillaume, Surkh Kotal en Bactriane, II. Monnaies, céramique, petits objets (MDAFA XXV), Parigi 1989. - Studi: D. Schlumberger, Descendants non-méditerranéens de l'art grec, in Syria, 1960, pp. 131-166 e 253-320; id., L'Orient héllenisé, Parigi 1970; G. Verardi, The kuṣāna Emperors as Cakravartins. Dynastie Arts and Cults in India and Central Asia. History of a Theory, Clarifications and Refutations, in EastWest, XXXIII, 1983, 1-4, pp. 225-294; G. Lazard, F. Grenet, Ch. de Lamberterie, Notes Bactriennes, in Studia Iranica, XIII, 1984, 2, pp. 199-232 (la traduzione più recente della grande iscrizione di ripristino).