Surrealismo
Il primo Manifeste du Surréalisme fu pubblicato a Parigi, presso le Éditions du Sagittaire, nell'ottobre 1924. Fra le molte cose che vi scrisse André Breton, c'è anche questa definizione: "Surrealismo, n. m. Automatismo psichico puro col quale ci si propone di esprimere, sia verbalmente, sia per iscritto, sia in qualsiasi altro modo, il funzionamento reale del pensiero. Dettato del pensiero, in assenza di qualsiasi controllo esercitato dalla ragione al di fuori di ogni preoccupazione estetica o morale" (1962; trad. it. 1966, p. 30). Non vi si parla di cinema, ma non v'è dubbio che l'espressione "in qualsiasi altro modo" non esclude il cinema come nuovo linguaggio. Nel secondo Manifeste, pubblicato nel 1930, Breton scrisse infatti: "[…] il meccanismo logico della frase si mostra, di per sé, sempre più impotente, nell'uomo, a determinare la scarica emotiva che dà realmente qualche pregio alla sua vita. Egli si va invece circondando di quei prodotti di un'attività spontanea o più spontanea, diretta o più diretta, che gli offre in sempre maggior copia il surrealismo sotto forma di libri, di quadri e di film, e che ha cominciato col guardare con stupore, e a questi affida più o meno timidamente la cura di sconvolgere il suo modo di sentire" (pp. 87-88). Si parlava insomma di 'film' come di veicoli della 'surrealtà', alla stessa stregua dei libri e dei quadri, in un momento in cui anche il cinema, con le opere di alcuni artisti dell'avanguardia, e poi di Antonin Artaud (autore dello scenario di La coquille et le clergyman, diretto nel 1928 da Germaine Dulac) e della coppia Salvador Dalí-Luis Buñuel (con Un chien andalou, 1929, e con L'âge d'or, 1930) affrontava direttamente i temi e le forme del Surrealismo. D'altronde lo stesso Artaud scrisse nel 1928: "Ho pensato, scrivendo lo scenario di La coquille et le clergyman, che il cinema possedesse un elemento proprio, veramente magico, e che nessuno fino allora avesse pensato di isolarlo. Questo elemento, distinto da ogni specie di rappresentazione legata alle immagini, partecipa della vibrazione stessa e della nascita incosciente, profonda del pensiero" (La coquille et le clergyman, in Œuvres complètes, 1978; trad. it. in Del meraviglioso, 2001, pp. 69-70). Anche il poeta surrealista R. Desnos aveva scritto nel 1927: "Ciò che noi chiediamo al cinema è l'impossibile, l'inatteso, il sogno, la sorpresa, il lirismo che cancellano la viltà degli animi e li precipitano entusiasti sulle barricate e nelle avventure; ciò che noi chiediamo al cinema è ciò che l'amore e la vita ci rifiutano: è il mistero, è il miracolo" (1966, p. 165). D'altronde lo stesso Breton, ricordando la sua esperienza giovanile di spettatore cinematografico onnivoro, scriveva nel 1951: "Allora non vedevamo nel cinema, qualunque esso fosse, che sostanza lirica, la quale esigeva di essere rimestata tutt'insieme e a caso. Credo che ciò che in esso ponevamo più in alto, tanto da disinteressarci di tutto il resto, fosse il suo potere di diso-rientamento [dépaysement]" (Comme dans un bois, in "L'âge du cinéma", 1951, 4-5). Sotto questo profilo, si può parlare, come ha scritto A. Kyrou (1953), di un'interpretazione surrealista del cinema, ovvero di un consumo del cinema, dei singoli film indipendentemente dal valore di ciascuno di essi, come di un'esperienza surrealista, tale in quanto aperta alla dimensione del sogno, della fantasia individuale. Si trattava, in altre parole, di individuare nel cinema spesso dozzinale, di consumo, certamente non 'd'arte', affascinante quanto banale, divertente e plebeo, un possibile cinema surrealista, secondo i dettami del primo Manifesto. Il disprezzo per il cinema 'colto' ‒ e per l'avanguardia cinematografica che si dilettava di formalismi e sperimentalismi ‒ era anche il disprezzo verso l'arte e la cultura borghesi; la predilezione per i prodotti popolari o di scarto era anche un atteggiamento provocatorio, forse rivoluzionario ma anche, a ben guardare, non privo di snobismo. In altre parole, si stava formando, da questo atteggiamento poliedrico e multiforme, una sorta di teoria cinematografica surrealista e, successivamente, una poetica che avrebbe trovato in Buñuel il più geniale e rigoroso assertore e sperimentatore. Va anche detto che questa frequentazione acritica e passionale del cinema come luogo deputato a creare la 'surrealtà' non poteva che relegare in secondo piano, anzi addirittura ignorare o persino negare, un interesse estetico e critico per il cinema come arte originale e autonoma, se non nei limiti della sua riconosciuta facoltà surrealistica, straordinariamente superiore a qualsiasi altra arte tradizionale. Di qui, quando si trattò di utilizzare il cinema direttamente, come nuovo mezzo dell'immaginazione e del sogno a occhi aperti, fu aperta la strada a quella che si può definire la poetica del brutto, al rifiuto della tecnica intesa come veicolo dell'espressione, all'adesione a un predominio dei contenuti da contrapporsi a ogni preoccupazione formale, al gusto del pastiche, alla predilezione per l'immagine banale: tutte cose che si ritrovano nel primo Buñuel, nei due film citati, che furono considerati al loro apparire i soli autentici film surrealisti. La questione del 'cinema surrealista' si presentò allora, quando cioè nell'ambito dei movimenti d'avanguardia alcuni artisti cercarono di superare i limiti della sperimentazione e delle ricerche linguistiche per porsi il problema del sovvertimento delle regole, dell'uso del cinema al di fuori di ogni principio estetico, al fine di impiegare l'indubbia forza simbolica delle immagini semoventi e il loro alto grado di realismo, di verosimiglianza, per entrare in un nuovo universo formale, in cui sogno e realtà si mescolano e le pulsioni del desiderio si manifestano nella loro immediata evidenza. Da questo punto di vista, oltre agli elementi indubbiamente surrealisti dello scenario di Artaud per il film della Dulac (che invece realizzò un'opera più vicina al suo stile, cioè alla 'sinfonia visiva' e al racconto 'poetico'), ad alcune caratteristiche che nei film di Man Ray e di Hans Richter sono già ascrivibili alla poetica surrealista, e al di là di una vasta letteratura surrealista che si espresse in soggetti cinematografici e sceneggiature che non furono mai realizzati, non v'è dubbio che furono proprio i film di Dalì e Buñuel ‒ a cui si può aggiungere il documentario Las Hurdes, noto anche come Tierra sin pan (1932) del solo Buñuel ‒ a costituire l'ossatura portante di un cinema autenticamente surrealista nei presupposti teorici e nella realizzazione pratica. E fu ancora Buñuel, nell'arco della sua intera produzione cinematografica, a mantenere alta la bandiera del S., anche quando il movimento aveva storicamente esaurito la sua funzione eversiva e rivoluzionaria. Va detto anche che, nel corso della storia del cinema ‒ anche commerciale e di consumo ‒, non è difficile riscontrare elementi che si possono ascrivere alla poetica e all'estetica surrealiste, o almeno alle loro manifestazioni più esteriori ed evidenti. Si pensi soltanto, per fare l'esempio più noto, alla sequenza del sogno in Spellbound (1945; Il ti salverò) di Alfred Hitchcock, ideata da Dalí; ma si pensi alle molte situazioni drammatiche in cui frammenti di cinema surrealista sono impiegati per realizzare atmosfere angoscianti, oniriche, erotiche e così via. Per tacere di certe correnti dell'avanguardia cinematografica degli anni Quaranta e Cinquanta, soprattutto statunitense, o di autori come Maya Deren o Gregory J. Markopoulos (v. sperimentale, cinema), nei cui film la presenza surrealista è abbastanza evidente. Tutto ciò a conferma di un'eredità che il S. ha lasciato all'arte e alla cultura del 20° sec., e quindi anche al cinema.
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