Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Nel panorama della società europea della seconda metà dell’Ottocento si affermano movimenti di pensiero che prendono il nome di “teoria sociale moderna”. Questi si propongono, più o meno espressamente, di sottoporre gli eventi sociali del mondo contemporaneo a una disamina che sia ispirata dalla vicenda delle scienze naturali moderne, ma sia anche consapevole delle differenze tra l’oggetto di queste e l’insieme dei fenomeni storico-culturali. Queste tradizioni presentano peraltro al proprio interno notevoli diversità e sfumature, e il dibattito culturale intorno ai temi che le animano non è privo di contrasti. Divisioni che studiosi di diversa provenienza (da Weber a Durkheim) cercheranno nuovamente di superare e in qualche caso di trascendere in una sintesi sistematica.
Premessa
Negli ultimi due decenni dell’Ottocento si forma e comincia ad affermarsi una nuova generazione di studiosi che innova profondamente la sociologia europea.
Quella produzione persegue l’intento di consolidare lo statuto scientifico della sociologia, in due modi: primo, separando per quanto possibile il discorso sociologico dalle preferenze politiche e ideologiche; secondo, costruendo consapevolmente a un alto livello di generalità teorie relative alla natura stessa del sociale e capaci di orientare lo studio delle sue più diverse manifestazioni senza ridursi all’indagine empirica su di esse.
Qui possiamo soltanto nominare un’opera in cui questo duplice intento dà notizia di sé fin dal 1887 – Gemeinschaft und Gesellschaft, titolo traducibile con Comunità e società oppure Comunità e associazione. L’autore, il filosofo tedesco Ferdinand Tönnies (1855-1936), presenta questi due termini anche per tracciare approssimativamente l’intero passaggio dalle società primitive a quelle contemporanee; ma essi si prestano a un uso molto più fruttuoso, cioè l’enucleazione di concetti da usare analizzando tutti i rapporti sociali. Possiamo invece discutere più ampiamente di due autori, il tedesco Max Weber e il francese Émile Durkheim.
Max Weber e il suo dialogo con Marx
Si è visto nel pensiero sociologico di Weber il prodotto di un suo prolungato “dialogo con il fantasma di Karl Marx”. Questa immagine è molto più calzante di quella, spesso proposta, di Weber come il più radicale (e vincente) antagonista sociologico di Marx. Come suggerisce il termine “dialogo”, il pensiero di Weber in parte concorda con quello di Marx e lo completa, ma altrove lo corregge e lo contraddice.
In parecchi punti Weber si differenzia da Marx per la sua molto maggiore complessità – la consapevolezza che Marx accentuasse eccessivamente certi aspetti della realtà storico-sociale, ignorandone altri o trattandoli in maniera troppo riduttiva. Ad esempio, Weber condivide l’accento posto da Marx sul conflitto tra gruppi come una determinante fondamentale della struttura delle società. Insiste però sul fatto che in questo processo non contino soltanto le classi – cioè gruppi diseguali nel rispettivo controllo (o esclusione dal controllo) sulle risorse da cui dipendono, in una determinata società, la produzione e distribuzione della ricchezza materiale. Contano anche i ceti, cioè gruppi differenziati nel loro stile di vita, che corrisponde al prestigio sociale di cui godono (o non godono) i suoi membri; i ceti differiscono nelle rispettive spettanze (garantite in certi casi da norme giuridiche, in altre da regole rituali d’origine religiosa) all’accesso a certe occupazioni e a determinate forme di consumo. Contano infine gli allineamenti di natura politica, che Weber talora chiama “partiti” in senso assai generale, derivanti dalle diseguaglianze nella loro capacità di determinare scelte e politiche pubbliche.
Weber differisce ulteriormente da Marx nella sua maggiore consapevolezza dell’ineliminabile elemento di contingenza negli accadimenti storici. Marx considera i momenti più significativi fra questi, per quanto diversi, in un unico itinerario della specie umana. Al termine di questo percorso l’antagonismo delle classi avrebbe cessato di essere il meccanismo fondamentale del progresso, il cui proseguimento verso il completo controllo della specie sul resto della natura sarebbe stato affidato alle consapevoli scelte della società nel suo insieme.
In questo aspetto del pensiero marxiano, Weber avverte e respinge il richiamo esplicito o implicito a una filosofia della storia, molto probabilmente d’origine hegeliana. Rispetto a Marx, ha un senso molto più acuto del ruolo che svolgono nella storia accadimenti intrinsecamente improbabili e prevedibili, ma di grande effetto. In particolare la continuità degli ordinamenti sociali e culturali di una popolazione è rapidamente interrotta dall’irruzione del carisma – una carica di poteri straordinari che permette a certi individui di coinvolgere le masse nella propria sfida a principi tramandati e assetti costituiti. Il carisma ha più volte alterato il normale corso degli eventi storici, impersonandosi in un profeta che annunzia imperiosamente un modo nuovo di ottenere la salvezza spirituale oppure in un condottiero capace di combattere battaglie (e fondare imperi) in maniere inedite, a vantaggio dei suoi seguaci.
Inoltre, Weber dissentiva dalla visione hegeliana-marxiana di un unico destino finale dell’ intera umanità, essendo particolarmente consapevole della diversità dei punti di partenza delle varie civiltà storiche, tutte in possesso di risorse culturali irriducibimente diverse, in buona parte generate da visioni religiose incompatibili tra di loro.
Il ruolo sociale della soggettività
Weber insiste particolarmente su quest’ultimo aspetto del processo storico-sociale perché (e qui si rivela un suo fondamentale contrasto con Marx) il suo pensiero sociologico assegna un posto centrale alla soggettività umana, al complesso di percezioni, criteri, aspettative, valori e giudizi che alberga nella mente di ciascun individuo e ne orienta l’agire.
Gli esseri umani sono animali in particolarissima relazione con la natura, che ha iscritto nel loro apparato biologico risorse e direttive insufficienti a mantenere la loro esistenza. Gli individui vengono quindi gettati in una realtà che presenta loro un’infinità di aspetti diversi e contrastanti – oggetti, stimoli, tentazioni, rischi, associazioni. Per posizionarsi entro questa realtà invivibile, essi sono costretti a ordinarla tramite processi soggettivi di interpretazione. Attribuiscono cioè significato alla realtà selezionando alcuni soltanto tra i suoi infiniti aspetti e valutandoli. Il loro comportamento, secondo Weber, si può designare come azione (Handeln) proprio se orientato da tali processi soggettivi, resi condivisibili tra soggetti dalla comunicazione.
Weber però si distacca da una tradizione ermeneutica che mira a cogliere intuitivamente i processi psicologici individuali che presiedono a singoli eventi. La sua teoria sociologica propone invece tipi ideali, cioè concetti astratti che identificano molteplici e diversi temi ricorrenti dell’azione sociale, e differenziano nettamente i modi più significativi di affrontarli, a cui variamente si approssimano quelli concreti, manifesti in società, culture o gruppi diversi.
Al più alto livello di astrazione, la teoria sociologica di Weber concettualizza quattro tipi fondamentali a cui si può ricondurre ogni azione individuale o collettiva in qualunque contesto storico, in merito a qualunque tema dell’esperienza sociale. Ciascun tipo è caratterizzato dalla prevalenza dell’uno o dell’altro dei seguenti orientamenti: tradizionale, se l’azione è intrapresa in base all’assunto che quel che è stato sempre fatto nel passato è di per sé valido, e gli spetta orientare l’agire presente; affettivo, quando l’azione dà espressione a spontanei impulsi emotivi, senza mediazione della riflessione; razionale se l’azione cerca, in vista della situazione esistente, di conseguire un fine determinato col minimo dispendio possibile delle risorse a disposizione. Ma Weber distingue tra una razionalità puramente di scopo, il cui stesso fine è oggetto di scelta, e una razionalità di valore, che sottrae alla scelta un particolare fine, considerato degno di essere perseguito comunque e dovunque.
I tipi ideali weberiani
A questa tri-quadripartizione si riferiscono innumerevoli tipi ideali, costruiti da Weber in base a vastissime conoscenze storiche e presentati più o meno sistematicamente soprattutto nel suo capolavoro, Economia e società. Ad esempio nella trattazione dei fenomeni politici (un tema particolarmente significativo per Weber, sia come studioso che come cittadino) distingue tra mero potere, cioè la capacità di controllare l’altrui agire mediante la minaccia o l’uso della violenza, e dominazione, dove quel potere si manifesta in comandi dall’alto a cui generalmente corrispondono atti di obbedienza dal basso. Ma Weber propone tre tipi ideali di obbedienza: quella totalmente irriflessa, automatica, di chi si sente inesorabilmente legato a una condizione di inferiorità che considera naturale; quella risultante dal calcolo, da parte del “comandato”, della propria convenienza, in base all’entità e probabilità rispettive dell’obbedienza e della disobbedienza; infine quella che esprime nel comandato un senso della doverosità morale dell’obbedienza a un comando considerato legittimo.
Ma perché il comandato attribuisce tale legittimità al comando? Qui Weber, in base alla versione tripartita della tipologia più generale, distingue tra legittimità tradizionale (l’obbedienza è doverosa perché il comando rispecchia la sacertà del passato), carismatica (l’obbedienza esprime la spontanea sottomissione del comandato a un individuo che si dimostra dotato di facoltà straordinarie), e legale-razionale (l’obbedienza è dovuta a comandi emessi da chi occupa determinate posizioni in vista di qualifiche obiettivamente accertate, e i comandi stessi applicano alla situazione presente comandi più generali, formati a loro volta in base a regole pubblicamente statuite).
Karl Marx e Friedrich Engels
Sulla classe dominante
L’ideologia tedesca
La idee della classe dominante sono in ogni epoca le idee dominanti; cioè, la classe che è la potenza materiale dominante della società è in pari tempo la sua potenza spirituale dominante. La classe che dispone dei mezzi della produzione materiale dispone con ciò, in pari tempo, dei mezzi della produzione intellettuale, cosicché ad essa in complesso sono assoggettate le idee di coloro ai quali mancano i mezzi della produzione intellettuale. Le idee dominanti non sono altro che l’espressione ideale dei rapporti materiali dominanti, sono i rapporti materiali dominanti presi come idee: sono dunque l’espressione dei rapporti che appunto fanno di una classe la classe dominante, e dunque sono le idee del suo dominio. Gli individui che compongono la classe dominante posseggono fra l’altro anche la coscienza, e quindi pensano; in quanto dominano come classe e determinano l’intero ambito di un’epoca storica, è evidente che essi lo fanno in tutta la loro estensione, e quindi fra l’altro dominano anche come pensanti, come produttori di idee che regolano la produzione e la distribuzione delle idee del loro tempo; è dunque evidente che le loro idee sono le idee dominanti dell’epoca. Per esempio: in un periodo e in un paese in cui potere monarchico, aristocrazia e borghesia lottano per il potere, il quale quindi è diviso, appare come idea dominante la dottrina della divisione dei poteri, dottrina che allora viene enunciata come “legge eterna”.
La divisione del lavoro, che abbiamo già visto (...) come una delle forze principali della storia finora trascorsa, si manifesta anche nella classe dominante come divisione del lavoro intellettuale e manuale, cosicché all’interno di questa classe una parte si presenta costituita dai pensatori della classe (i suoi ideologi attivi, concettivi, i quali dell’elaborazione dell’illusione di questa classe su se stessa fanno il loro mestiere principale), mentre gli altri nei confronti di queste idee e di queste illusioni hanno un atteggiamento più passivo e più ricettivo, giacché in realtà sono i membri attivi di questa classe e hanno meno tempo di farsi delle idee e delle illusioni su se stessi. All’interno di questa classe questa scissione può addirittura svilupparsi fino a creare fra le due parti una certa opposizione e una certa ostilità, che tuttavia cade da sé se sopraggiunge una collisione pratica che metta in pericolo la classe stessa; allora si dilegua anche la parvenza che le idee dominanti non siano le idee della classe dominante e abbiano un potere distinto dal potere di questa classe. L’esistenza di idee rivoluzionarie in una determinata epoca presuppone già l’esistenza di una classe rivoluzionaria (...).
Se ora nel considerare il corso della storia si svincolano le idee della classe dominante dalla classe dominante e si rendono autonome, se ci si limita a dire che in un’epoca hanno dominato queste o quelle idee, senza preoccuparsi delle condizioni della produzione e dei produttori di queste idee, e se quindi si ignorano gli individui e le situazioni del mondo che stanno alla base di queste idee, allora si potrà dire per esempio che al tempo in cui dominava l’aristocrazia dominavano i concetti di onore, di fedeltà, ecc., e che durante il dominio della borghesia dominavano i concetti di libertà, di uguaglianza, ecc.. Queste sono, in complesso, le immaginazioni della stessa classe dominante.
K. Marx e F. Engels, Opere complete, Roma, Editori Riuniti, 1972
Ma la legittimità, quale che ne sia la natura, è una proprietà esclusiva dei sistemi di dominazione politica. Questi hanno numerose proprietà ulteriori, che Weber individua ed esamina: ad esempio, come si procede a dirimere contese tra privati o a sanzionare comportamenti devianti; come vengono conferite risorse economiche all’ente politico; come ne viene esercitata l’amministrazione. Secondo Weber, tutti questi modi corrispondono al tipo di legittimità proprio del sistema; un esempio è il sistema a legittimità legale-razionale (rappresentato principalmente dallo Stato moderno), che viene amministrato da una burocrazia, caratterizzata a sua volta da un insieme di tratti distintivi che Weber definisce ed elabora (Il tema della burocrazia è uno dei più importanti nella sua intera opera).
Come si vede, la decisione di costruire una sociologia dell’azione, che attribuisce un ruolo fondamentale alla soggettività, conduce Weber a un sistema assai complesso e ramificato di concetti astratti, ai quali ricondurre aspetti molteplici e diversi del processo storico-sociale. È questo, ripetiamo, il legato sociologico fondamentale di Weber, completato peraltro da analisi monografiche di fenomeni particolari.
Si pensi alla cosiddetta “tesi di Weber”. Un particolarissimo fenomeno culturale, relativo quindi alla soggettività – il dogma della predestinazione– induce i seguaci di Calvino, nella seconda metà del Cinquecento, a gestire i propri affari praticando quello che Weber chiama “ascetismo mondano”.
Questo a sua volta fornisce una legittimazione religiosa a un habitus morale senza precedenti, lo “spirito del capitalismo”. Questo a sua volta orienta le primissime generazioni di imprenditori verso attività che – valendosi delle nuove risorse economiche, tecniche e istituzionali già identificate da molti studiosi, a partire da Marx – generano il capitalismo moderno, che sia Weber che Marx considerano un fenomeno centrale della società contemporanea.
Émile Durkheim e la polemica con Spencer
Come abbiamo visto, la sociologia weberiana presta sistematicamente attenzione a processi soggettivi, che operando, per così dire, a monte di un comportamento umano, lo qualificano come azione. Per questa ragione Durkheim, se avesse conosciuto gli scritti di Weber, li avrebbe probabilmente considerati inficiati di psicologismo, o comunque in disaccordo con la propria posizione metodologica, secondo cui l’oggetto della sociologia sono i fatti sociali. Questi, afferma in Le regole del metodo sociologico (1895), devono essere trattati dai sociologi come cose, cioè come aspetti della realtà esterna che limitano, condizionano, “costringono” i comportamenti individuali; solo se e in quanto succede questo la società stessa esiste e può essere studiata. Erra quindi Spencer quando la tratta come il mero, casuale prodotto di una miriade di comportamenti reciproci di individui autonomi e indipendenti, che competono gli uni con gli altri ciascuno per conseguire il proprio interesse.
Alexis de Tocqueville
Necessità di idee comuni
La democrazia in America
Le credenze dogmatiche sono più o meno numerose secondo i tempi. Nascono in modi diversi e possono cambiare di forma e di contenuto; ma non si può far sì che non esistano, ossia che non esistano opinioni che gli uomini accettano sulla fiducia e senza discutere. Se ognuno si mettesse personalmente a costruirsi tutte le proprie opinioni e a ricercare la verità facendosi strada da solo, è probabile che mai molte persone si sarebbero riunite in una credenza comune.
Ebbene, è facile accorgersi che non c’è società che possa prosperare o meglio, che possa sussistere senza credenze simili, giacché senza idee comuni non c’è azione comune e, senza azione comune, esistono sì gli uomini, ma non un corpo sociale. Perché vi sia società e, a maggiore ragione, perché questa società prosperi, è quindi necessario che gli animi dei cittadini siano uniti e tenuti insieme da alcune idee base, e questo non sarebbe possibile se ciascuno non andasse, a volte, ad attingere le opinioni ad una medesima fonte e non acconsentisse ad accettare un certo qual numero di credenze già fatte.
Se poi considero l’uomo singolarmente, scopro che le credenze dogmatiche non gli sono meno indispensabili per vivere solo che per agire di comune accordo coi suoi simili.
Se l’uomo fosse obbligato a dimostrare a sé stesso tutte le verità, di cui si serve quotidianamente, non la finirebbe più: si esaurirebbe in dimostrazioni preliminari senza mai avanzare; siccome però non ha né il tempo, data la breve durata della vita, né la capacità, dati i limiti della sua intelligenza, di agire così, finisce per forza coll’assumere per certi una quantità di fatti e d’opinioni, che non ha avuto né il tempo né la possibilità d’esaminare e di verificare da solo, ma che sono stati trovati da altri più abili o adottati dalla massa. Solo su questa prima base l’uomo può innalzare personalmente l’edificio dei propri pensieri: un modo di procedere che non dipende dalla sua volontà, ma a cui si trova costretto dalla legge inflessibile della sua condizione.
Non c’è al mondo filosofo tanto eccelso che non creda a una miriade di cose sulla fede di altri, e che non supponga più verità di quante non ne stabilisca.
Ciò non soltanto è necessario, ma anche auspicabile. Un uomo, che si mettesse a vagliare tutto personalmente, non potrebbe accordare che poco tempo e poca attenzione ad ogni cosa; questo lavoro terrebbe il suo spirito in uno stato di perenne agitazione, che gli impedirebbe di penetrare profondamente in una verità e di radicarsi solidamente in una certezza. La sua intelligenza sarebbe contemporaneamente indipendente e imbelle. È quindi necessario che, tra i diversi oggetti delle credenze umane, l’uomo operi una scelta e adotti molte opinioni senza discuterle, allo scopo di approfondire meglio quel piccolo numero di cui si è riservato l’esame.
È vero che ogni uomo che accetta un’opinione fidando della parola di altri rende schiavo il suo spirito; ma è questa una soggezione salutare, che consente di fare un buon uso della libertà.
Qualsiasi cosa succeda, non si può quindi fare a meno, nel mondo intellettuale e morale, di incontrare sempre l’autorità. Il suo posto è variabile, ma un posto l’ha per forza. L’indipendenza individuale può essere più o meno grande, non può però essere illimitata. La questione non è quindi di sapere se c’è o no autorità intellettuale nei secoli democratici, ma soltanto di sapere dove è concentrata e in quale misura.
Nel capitolo precedente ho mostrato come l’uguaglianza delle condizioni induca gli uomini a provare una specie di incredulità istintiva nei riguardi del sovrannaturale e a farsi un’idea altissima, spesso addirittura esagerata, della ragione umana.
Gli uomini che vivono in tempi d’uguaglianza sono dunque difficilmente disposti a porre l’autorità intellettuale, cui si sottomettono, fuori e sopra l’umanità. Per loro è più normale cercare le fonti della verità in sé stessi o nei loro simili. Ciò basterebbe già a dimostrare che, in questi secoli, non sarebbe possibile l’instaurarsi di una religione nuova e che ogni tentativo per darle vita non sarebbe soltanto empio, ma ridicolo e irragionevole. Si può prevedere che i popoli democratici non crederanno facilmente nelle missioni divine, che si faranno beffe dei nuovi profeti e che vorranno trovare nei limiti dell’umanità, e non oltre, l’arbitro principale delle loro fedi.
Quando le condizioni sono diseguali e gli uomini dissimili, si hanno alcuni individui estremamente colti, saggi, autorevoli per l’intelligenza e una massa ignorante e limitata. Le persone che vivono in tempi aristocratici sono, dunque, inclini per natura a prendere come guida delle loro opinioni la ragione superiore di un uomo o di una classe, mentre sono poco disposte a riconoscere l’infallibilità della massa.
Succede il contrario in tempi di uguaglianza.
A. de Tocqueville, La democrazia in America, Torino, UTET, 1973
Durkheim riconosce che comportamenti di questo tipo sono particolarmente frequenti e significativi nella società moderna, in cui i rapporti di natura contrattuale svolgono un ruolo centrale. Ma anche su questo punto Durkheim critica Spencer: primo, per aver indebitamente attribuito a tali rapporti la stessa centralità nel processo sociale in generale, comprese le sue numerose, varie e prolungate fasi premoderne; secondariamente, per avere frainteso il modo in cui gli stessi rapporti contrattuali si formano e funzionano proprio entro la società moderna.
Nemmeno in questa, in effetti, i rapporti contrattuali sono autosufficienti perché “non tutto, nel contratto, è contrattuale”.
I contratti si formano e ordinano le relazioni interindividuali solo se esiste e funziona l’istituzione del contratto. Questo è un fenomeno di natura pubblica, un insieme di regole prodotte e sanzionate autoritativamente da organi politici, che statuiscono quali aspetti dell’esistenza sono contrattabili e come; in che modo si possano debitamente formare contratti; quali specifici diritti e doveri attribuiscano a ciascuna delle parti le numerose e diverse figure contrattuali riconosciute; a che condizioni una parte contraente possa costringere l’altra alla prestazione pattuita o essere indennizzata se questo non fosse possibile.
Ma se è vero questo, Spencer erra quando deplora nelle società contemporanee la persistenza di assetti politici che sovrappongono gli interessi collettivi a quelli individuali, limitando la libertà dell’individuo di servirsi autonomamente ed egoisticamente di tutte le proprie facoltà e risorse. In effetti, osserva Durkheim, anche in queste società le libere attività degli individui devono necessariamente venire condizionate e sostenute da organi pubblici appositamente costituiti e specializzati. In esse, inoltre, i processi politici sono di natura sempre più democratica; il loro principale protagonista, lo Stato, è costituito in maniera tale da poter ottenere comunicazioni frequenti e aggiornate circa bisogni e risorse del resto della società, cui può a sua volta inviare contenuti e ragioni delle decisioni che prende come Stato.
Il ruolo delle istituzioni
Durkheim concepisce la sociologia come lo studio sistematico delle istituzioni. Nel loro insieme esse costituiscono una specie di mappa delle società, che si diversifica tra una società e l’altra. Ciascuna ha una propria dinamica, che si manifesta in particolare nella modernizzazione e ha due componenti: la pri-ma è che ciascuna istituzione tende a formulare in maniera più generale le regole relative al proprio ambito, ammettendo quindi una maggiore varietà nei modi in cui esse possono venire interpretate e applicate; la seconda è che l’insieme delle istituzioni di una determinata società si fa, nel tempo, sempre più complesso e diversificato: nell’ambito di ciascuna, quindi, l’individuo può venire investito di diritti e doveri diversi, sviluppare capacità e bisogni diversi.
Durkheim fa grande attenzione a una questione estranea alla visione di Spencer: la natura della solidarietà dei processi che inducono gli individui a sentirsi affini e legati l’uno con l’altro. La solidarietà si manifesta in modi radicalmente differenti nelle società primitive da un lato, e in quelle avanzate dall’altro. Durkheim chiama la solidarietà tipica delle prime “meccanica”, in quanto prodotta dall’enorme presa sugli individui dalle stesse “maniere d’agire e di pensare” che li costringono a un’osservanza continua e precisa; le società primitive condannano chi viola quelle maniere a punizioni che ne riaffermano la validità. È tipica delle società avanzate, invece, la solidarietà organica: qui individui e gruppi, in base a maniere d’agire e di pensare sempre più diverse, svolgono attività differenziate ma complementari, provvedendo vicendevolmente ai bisogni gli uni degli altri. A questo fine negoziano tra loro delle aspettative; se queste vengono violate possono chiedere l’indennizzazione dalla controparte, piuttosto che vederla punire.
Il passaggio dalla società primitiva a quella avanzata non si può ricondurre, come suggerirebbe Spencer, alle iniziative di singoli individui alla ricerca del proprio benessere personale; secondo Durkheim, nella società primitiva non esistevano ancora individui “spenceriani”, passaggio che si deve invece a un processo di natura collettiva. Quando aumenta la densità demografica e la pressione della popolazione sulle risorse naturali diventa insostenibile, la società può accrescerle facendo del proprio territorio un uso non più estensivo (come nelle società che vivono di caccia, pesca, raccolta di frutti spontanei) ma intensivo (come nelle società agricole e nelle città).
Questo richiede il ricorso a insiemi diversi di conoscenze e tecniche da parte di gruppi sempre più differenziati, più consapevoli delle proprie regole e dei valori che di regole e valori generali. A lungo andare, nelle società moderne e in particolare in quelle contemporanee, si verifica un processo di individualizzazione che alla fine produce individui “spenceriani”. Anche questi ultimi, però, nella ricerca dei propri privati interessi, devono servirsi di istituzioni pubbliche come il contratto, ma anche assoggettarsi ad esse.
La società, realtà contingente. La devianza sociale
Il grande interesse di Durkheim per le istituzioni ispira la sua consapevolezza del pericolo che rappresenta per l’ordine sociale, in particolare per quello moderno, la tendenza degli individui a sottrarsi all’appello delle norme e prospettive della propria società, quindi ad attivare e gestire le proprie iniziative in maniera – diciamo così – centrifuga. La manifestazione più significativa di questa tendenza è quella che viene attualmente chiamata devianza – la violazione delle norme sociali che costituiscono la fisionomia morale della società. Durkheim ricava da approfondite ricerche su varie forme di devianza alcuni dei suoi insegnamenti più salienti e controversi.
In particolare, nel saggio Le regole del metodo sociologico (1895) asserisce, scandalosamente, che, dal punto di vista sociologico, “il crimine è normale”. Le norme sociali, anche se empiricamente accertabili, non sono descrizioni empiriche di come la gente in effetti agisce, ma prescrizioni di come dovrebbe agire e, in quanto tali, sono sempre vulnerabili da parte dei comportamenti di fatto. La società reagisce a tale vulnus sanzionando le violazioni, che hanno effetti, oltre che sul violatore, sul resto della società, ricordandole il contenuto delle norme violate.
Nella sua famosa opera Suicidio (1897), Durkheim argomenta, analizzando copiosi dati statistici, che questo specifico comportamento deviante deriva la sua frequenza – assai diversa tra società o tra gruppi da “correnti suicidogene” che sono il prodotto non intenzionale della costituzione morale propria delle società e dei gruppi in questione. Ad esempio, il cattolicesimo generalmente crea tra i propri fedeli una maggiore propensione a tenersi vicini a coloro i quali stiano affrontando crisi esistenziali che possano indurre al suicidio; ne risulta la assai minore frequenza del suicidio tra i cattolici rispetto ai protestanti.
La religione come risorsa strategica della società
Dunque, da un lato le “maniere di pensare e di agire” sono per Durkheim i fatti sociali per eccellenza, le componenti base della costituzione morale di ciascun gruppo e ciascuna società; dall’altro esse sono vulnerabili di fronte a comportamenti individuali o collettivi “devianti”. Ne risulta l’essenziale fragilità, la natura contigente delle società e dei gruppi stessi. Durkheim esprime drammaticamente questa ansiosa riflessione nella sua ultima grande opera, Le forme elementari della vita religiosa (1912): “Lasciate che l’idea di società si estingua nelle menti e nelle credenze dei singoli, che le tradizioni e aspirazioni della società non vengano più sentite e condivise dagli individui, e la società ”.
Per le ragioni indicate, non si può dare una garanzia assoluta contro un evento del genere. Ma la probabilità che si verifichi può venire drasticamente diminuita se il rapporto degli individui con “le maniere di pensare e di agire” costitutive della società viene mediato e sostenuto da un fondamentale fenomeno sociale – la religione. Questa attribuisce quelle maniere al volere di Dio – un supremo essere sacro, che sovrasta gli individui ma li protegge, guida, e ispira anche. La credenza in Dio può essere rafforzata da pratiche collettive di natura rituale che ne affermano la sacertà e in certo senso la rigenerano, evocando e esprimendo forti sentimenti di identificazione collettiva e di soggezione individuale. Di conseguenza, gli individui vengono indotti a riconoscere come legittime e a praticare le maniere d’agire e di pensare proprie di ciascuna società non obtorto collo, per evitare sanzioni, ma per esprimere, un sé collettivo di cui Dio è rappresentazione e simbolo.
Questa tesi di Durkheim – la società è Dio, e viceversa – è stata comprensibilmente oggetto di controversia, in particolare, da parte di studiosi credenti. In ogni caso, si potrebbe dire che per Durkheim il mito è la maniera di pensare primordiale, e il rito la maniera di agire primordiale.
Si noti che sia le maniere di agire che quelle di pensare sono, alla fin fine, things that people carry around in their heads. Affermando la loro ineguagliabile importanza Durkheim si associa con il progetto weberiano di una teoria sociologica centrata sulla soggettività umana. Lo fa però inconsapevolmente e il suo riferimento alla soggettività fornisce una premessa inespressa di temi diversi da quelli weberiani. In particolare la tesi durkheimiana sull’identità tra Dio e società lo rende sostanzialmente indifferente ai diversissimi contenuti dogmatici, rituali e morali delle diverse religioni; mentre L’etica protestante e, in seguito, una serie di grandi saggi weberiani, intendono dimostrare che differenza fanno, da una religione alle altre, appunto, quei contenuti.
Detto altrimenti, fa parte integrante del ricco lascito weberiano alla sociologia del Novecento una sociologia delle religioni, del lascito durkheimiano una sociologia della religione. Concentrando le sue ricerche su religioni primitive, il totemismo in particolare, Durkheim accentua il grado di consenso, di compenetrazione, per così dire, tra religione e società. Weber analizza in particolare le più grandi tradizioni religiose – ebraismo, cristianesimo (nelle sue varie versioni), islam, buddismo, induismo, confucianesimo – e sostiene che esse hanno in comune la missione fondamentale di giudicare e di contrapporsi alla società, anzi al mondo. Lo giudicano e lo rifiutano da un punto di vista trascendente; ispirano nei fedeli quanto meno un disagio circa il mondo così com’è e quindi la ricerca della salvazione.