Sviluppo economico
Nella prospettiva contemporanea, lo s. e. di un Paese è il processo di trasformazione dell'apparato produttivo, con innovazioni tecnologiche e organizzative, che porta ad ampliare la capacità produttiva e aumentare la produttività per addetto, permettendo di raggiungere stabilmente un più elevato livello di reddito reale pro capite. È, quindi, l'espansione della capacità produttiva caratterizzata dall'innovazione nell'uso delle risorse, resa possibile e sostenuta dall'investimento di capitale sia fisico sia umano. L'ampliamento della capacità riguarda la gamma e la qualità dei prodotti e permette l'accesso a beni innovativi, con caratteristiche qualitative che soddisfano nuovi bisogni. Comprende, oltre all'uso di nuovi beni strumentali, nuovi servizi nei sistemi di trasporto e di comunicazione. Lo s. e., se è stabile e sostenibile, consente di continuare a produrre nel tempo un reddito reale pro capite crescente; a lungo termine, permette l'accesso della popolazione a una gamma più ricca di merci e servizi, con effetti diffusi o perfino universali di benessere, anche quando la società resti segnata da persistenti ineguaglianze nella distribuzione dei redditi.
Nei tempi dilatati della storia universale, la crescita della produttività e l'evoluzione delle tecniche hanno accompagnato l'intera esperienza umana. È possibile caratterizzare processi di s. e. legati a innovazioni tecniche e organizzative che hanno segnato grandi epoche. L'affermarsi dell'agricoltura può essere considerata come una fase dello s. e. nel lunghissimo periodo. Il mero ampliamento della capacità produttiva e della popolazione, anche a parità di prodotto pro capite, divenne cruciale per l'evoluzione delle società umane, preparando importanti trasformazioni successive. Il mutamento tecnologico che portò alla possibilità di sostenere una popolazione ampia e stabile grazie alla produzione agricola, preluse a trasformazioni quali la formazione delle città e il sorgere dell'apparato di governo centralizzato; trasformazioni che a loro volta incubarono innovazioni economiche e culturali. In una prospettiva storica, si possono esaminare le civiltà del mondo antico, le società del Medioevo o gli imperi del mondo moderno per la capacità di generare s. e., o, viceversa, di analizzarne le fasi di ristagno oppure quelle di declino.
Secondo la definizione che A. Smith propose in An inquiry into the nature and causes of the wealth of nations (1776), la "ricchezza" di una nazione è misurata dal flusso annuo di beni ("le cose necessarie e comode della vita") che il lavoro svolto nel Paese procura, direttamente o tramite gli scambi con altre nazioni. Nella terminologia contemporanea, affinata concettualmente con l'elaborazione di complesse stime statistiche del reddito nella contabilità nazionale, la prosperità di una nazione dipende dal livello del prodotto interno lordo in termini reali (PIL). La prima e più semplice definizione dello s. e. lo identifica con l'aumento sostenuto nel tempo del PIL e, quindi, con l'ampliarsi della capacità di produrre reddito e distribuirlo alla popolazione. È un concetto di s. e. estensivo, che non considera l'andamento del reddito in rapporto a quello della popolazione residente. La nazione, precisava Smith, gode maggior benessere se è maggiore il rapporto fra il prodotto del suo lavoro annuo e il numero delle persone che lo devono consumare; la ricchezza, in altre parole, cresce quando aumenta il prodotto pro capite potenzialmente disponibile per il consumo. La nozione di s. e. è quindi con maggiore pertinenza applicata all'aumento sostenuto nel tempo del PIL pro capite, grazie tanto all'espansione della capacità produttiva, quanto ai guadagni di produttività che il Paese conquista e che permettono di raggiungere consumi pro capite maggiori. Tale aumento deve però essere sostenuto nel tempo e modificare, non per limitati episodi ma nell'arco di un periodo storico, le possibilità di accesso della popolazione al soddisfacimento dei bisogni. Il tasso di crescita del PIL pro capite (da un anno all'altro o nella media di un periodo) misura, sia pure in maniera non propriamente perfetta, la rapidità dello sviluppo.
Smith spiegava che la crescita progressiva della ricchezza della nazione dipende da due fattori cruciali: la produttività del capitale umano attivamente impiegato nella produzione, che è raggiunta grazie alla formazione, all'esperienza e alle conoscenze acquisite da quanti lavorano ("arte, destrezza e intelligenza" con cui si esercita il lavoro); l'accumulazione di capitale investito produttivamente, che Smith rappresentava con il numero di lavoratori impiegati in attività produttive, sottolineando però l'aumento del capitale (materie prime e strumenti di produzione) con i quali essi debbono operare e il progresso tecnico incorporato nelle nuove macchine. Nella concezione di Smith, lo s. e. è insieme l'ampliamento della capacità produttiva e la progressiva conquista di innovazioni e progresso tecnico, con l'estendersi della specializzazione del lavoro e l'ampliamento dei mercati. Smith confidava che, date certe condizioni (se la legislazione e l'esercizio del potere politico non soffocano l'impulso che spinge ciascun essere umano a raggiungere condizioni di maggior benessere, se il Paese è in condizioni di pace, se il governo non grava la popolazione di eccessive imposte e offre ai cittadini la libertà di partecipare, senza vincoli stringenti, all'attività economica, se l'apparato giudiziario tutela, imperfettamente, ma con qualche efficacia, i diritti di proprietà), ogni nazione potesse procedere 'naturalmente' lungo un sentiero di crescita e incivilimento, con guadagni di benessere anche per i ceti più poveri.
Agli inizi dell'Ottocento, nella riflessione degli economisti europei, soprattutto in Gran Bretagna, fu acutamente percepito e perfino enfatizzato il rischio che l'aumento della popolazione potesse bloccare lo s. e., perchè nel lungo termine la scarsità irriducibile delle risorse alimentari avrebbe costretto anche i Paesi più avanzati in condizioni di ristagno, con reddito pro capite e popolazione costanti. La nozione che nelle economie contemporanee lo sviluppo è una condizione fisiologica si affermò solo nel corso di quel secolo, e in modo contrastato. Le aspettative diffuse si orientano a prevedere per il futuro innovazioni e guadagni di produttività regolari in tutte le economie avanzate del mondo. Riemergono periodicamente preoccupazioni per la sovrappopolazione mondiale e la scarsità delle risorse naturali, fino all'evocazione di esiti catastrofici per l'ecosistema del pianeta Terra. Il consumo troppo rapido delle risorse non rinnovabili (soprattutto le riserve di idrocarburi), la deforestazione e il depauperamento delle risorse marine, come pure la difficoltà di espandere i terreni coltivati, l'inquinamento atmosferico e delle acque, la competizione per le risorse idriche, destano allarme per la sostenibilità dello s. e. sotto la pressione della popolazione mondiale. Lo s. e. è detto sostenibile quando la crescita del PIL non determina disastri ambientali o il depauperamento irreversibile delle risorse naturali a danno di tutte le generazioni future.
Agli inizi del 20° sec., J.A. Schumpeter definì lo s. e. come la trasformazione radicale del processo produttivo attraverso innovazioni che portano sul mercato nuovi beni o cambiano le tecnologie di produzione, o impongono mutamenti organizzativi e nell'assetto di mercato in uno o più settori, o infine conquistano l'accesso a nuovi mercati e materie prime. Schumpeter, osservando i mutamenti tecnologici e organizzativi che avevano trasformato l'attività manifatturiera in Europa a partire dalla prima Rivoluzione industriale, poneva l'accento sulla 'distruzione creatrice': la nascita di imprese che introducono novità radicali, il rinnovamento tecnologico conseguente, il fallimento delle imprese ancorate alle tecnologie in declino. Ai vantaggi conquistati con l'innovazione radicale e la sua diffusione, anche grazie a innovazioni complementari o di perfezionamento, Schumpeter attribuiva i guadagni di benessere e la crescita che l'Europa e gli Stati Uniti avevano conosciuto nel corso del 19° secolo. Riteneva che lo s. e. creasse, grazie al mutamento nell'uso delle risorse, salti di produttività e profitti straordinari, che non potrebbero sorgere dal lento accumularsi nel tempo di risparmi e investimenti. Schumpeter guardava alle economie di mercato con proprietà privata dei capitali nell'arco, storicamente assai breve, dell'industrializzazione in Europa, prima nel corso del 19° sec., poi nella trasformazione che - sosteneva - avrebbe portato in breve all'assoluto dominio sul mercato delle grandi imprese e al declino del capitalismo con imprese a proprietà familiare; profezia poi smentita dalla Storia.
In Europa, a partire dalla metà del Settecento, durante il rinnovamento tecnologico e organizzativo che prende il nome di Rivoluzione industriale, le possibilità produttive furono rivoluzionate prima da innovazioni nelle tecniche agricole, poi da innovazioni complementari e concatenate nell'attività estrattiva, nella metallurgia, nella produzione tessile e di energia, e infine in altri settori manifatturieri. Le stime del reddito, sia pure incomplete e controverse, indicano che nel 19° sec. alcuni Paesi europei entrarono per primi sul sentiero dello sviluppo intensivo: la Gran Bretagna in testa, poi il Belgio e la Germania; quindi la Francia e, soprattutto a partire dal 1870, anche l'Italia, l'Austria, la Spagna, la Svezia, la Norvegia. Al di fuori dell'Europa, i Paesi a sviluppo precoce furono gli Stati Uniti, l'Australia e il Canada, inizialmente per la crescita nella produzione di prodotti primari. Il Giappone entrò in ritardo, ma già alla fine del 19° sec. era nel gruppo della seconda generazione dei Paesi in crescita, con l'Egitto, il Messico, l'Argentina e il Cile. Nella terza generazione, tra il 1913 e il 1950, si distinguono alcuni Paesi sudamericani (Venezuela, Perù, Colombia, Brasile) e in Europa il Portogallo. A causa della rapidità dello s. e. in Europa e in poche altre aree (Australia, America Settentrionale, Giappone), nel 19° sec. si determinò un marcato divario nei ritmi di crescita tra i Paesi a sviluppo precoce e le altre regioni del mondo, soprattutto l'Africa, divario che è persistito almeno fino alla metà del Novecento. Sono considerati Paesi a sviluppo tardivo (o, con terminologia più ottimistica e criteri diversi, Paesi in via di sviluppo, PVS) la maggior parte degli Stati del mondo, in Asia, in Africa e in America Latina, per quanto alcuni tra loro abbiano ritmi di crescita molto sostenuti. Nel dibattito sullo s. e. a livello mondiale si discute sulle prospettive che hanno tali Paesi di colmare la distanza, in termini di PIL pro capite, che tuttora li separa dai Paesi a sviluppo precoce, o di recuperare il ritardo tecnologico nelle zone dove l'antico mondo rurale è ancora dominante. Nuovi divari si sono aperti, nella seconda metà del 20° sec. e nel 21°, tra i PVS di diverse aree geografiche, cresciuti a ritmi diseguali tra loro, con forti difformità nel tenore di vita e nell'assimilazione della tecnologia avanzata. In oltre due secoli, il progresso tecnico e la crescita intensiva che hanno preso avvio con la Rivoluzione industriale hanno fortemente cambiato il panorama dell'economia mondiale.
I caratteri dei processi di sviluppo economico
Ogni periodo dello s. e. è una specifica trasformazione storica, che avviene in una fase della storia politica ed è condizionata dalle relazioni internazionali. Si riconoscono i momenti di s. e. che segnano ogni storia nazionale, con caratteri peculiari sotto il profilo delle trasformazioni sociali o per il ruolo del Paese nella divisione internazionale del lavoro. In Italia possiamo demarcare, per es., gli anni della ricostruzione postbellica o quelli del 'miracolo economico'. Si riconoscono, tuttavia, caratteri ricorrenti nei processi di s. e. dell'età contemporanea, che sono stati comuni a diverse esperienze storiche e sono ben identificati nell'osservazione statistica e studiati sotto il profilo sociologico, oltre che economico. Nel corso dello s. e. muta il peso relativo dei settori produttivi: si riduce la quota del PIL generata nell'agricoltura, mentre aumenta l'importanza della produzione manifatturiera e dei servizi. Una prima fase dello sviluppo è la trasformazione (più o meno rapida) di economie prevalentemente agricole, dove la maggioranza della popolazione trae la propria sussistenza dalla coltivazione della terra, in economie con un settore manifatturiero attivo e diversificato e un settore dei servizi in espansione. In seguito, nei Paesi avanzati a più alto reddito il settore dei servizi si espande, a scapito del settore manifatturiero, mentre l'attività agricola si riduce a una quota marginale del PIL, anche quando l'agricoltura resta un importante settore, a produttività molto elevata. La trasformazione riguarda sia il reddito prodotto sia l'occupazione. Gli occupati nell'agricoltura diminuiscono, e crescono i lavoratori impegnati nella manifattura e nei servizi; in seguito diminuisce la quota relativa degli occupati nella manifattura a favore dell'occupazione nei servizi. Per tutti i Paesi europei che hanno raggiunto oggi alti livelli di reddito, la trasformazione ha significato, in fasi diverse della loro storia, il declino del mondo rurale che per secoli era stato il tessuto di fondo della società. Per molti Paesi dell'Asia e dell'Africa tale trasformazione radicale è in corso ed è spesso traumatica per le popolazioni rurali che ne sono coinvolte. I cambiamenti di mentalità e di costume, la circolazione delle idee, l'accesso all'istruzione mutano i rapporti tra le generazioni e la posizione della donna nella società.
Sono una parziale eccezione, in questo quadro, i Paesi produttori di materie prime, con percorsi di sviluppo che sono stati divergenti per modalità ed esiti. In alcuni Paesi, come il Canada e la Svezia, l'espansione del reddito è partita nel 19° sec. dallo sfruttamento delle risorse naturali. I redditi addizionali, anche grazie agli investimenti nell'istruzione, hanno generato un processo di accumulazione che ha portato alla differenziazione produttiva e all'espansione del settore manifatturiero. La crescita del settore primario ha finanziato il successivo sviluppo nella manifattura e nei servizi; questi Paesi sono economie diversificate, ad alto reddito, tra le più avanzate del mondo anche sotto il profilo tecnologico. Nella maggioranza dei Paesi produttori di materie prime, agricole o energetiche e minerarie, tale percorso virtuoso non ha ancora avuto luogo. Bisogna ricordare, a questo proposito, gli effetti devastanti della colonizzazione, soprattutto nelle società africane, già impoverite e traumatizzate dalla tratta degli schiavi. Anche in condizioni di indipendenza o dopo la decolonizzazione, molte economie che generano alte rendite dalla vendita di prodotti primari sono intrappolate nella 'maledizione delle risorse naturali', perchè tali rendite nutrono gruppi dirigenti conservatori in società statiche o finanziano regimi autoritari, con effetti di ristagno nonché di persistente arretratezza. Le élites di regime, se pure avviano una modernizzazione parziale, soffocano lo s. e. spontaneo, che potrebbe far emergere ceti sociali antagonisti. In Stati fragili il conflitto per l'appropriazione delle rendite da risorse naturali può alimentare la guerra civile.
Lo s. e. si accompagna al fenomeno della transizione demografica. In una prima fase i tassi di crescita della popolazione rimangono alti, per effetto della flessione della mortalità senza riduzione di natalità. I tassi di mortalità si riducono sia per ldella vita sia per la caduta della mortalità alla nascita e nella primissima infanzia, dovuti alla conquista diffusa di migliori consumi alimentari, alle misure di prevenzione sanitaria, quali le vaccinazioni, e al miglioramento del tenore di vita complessivo. Il fatto che nella prima fase la caduta della mortalità non sia accompagnata da una parallela discesa della natalità è dovuto a vari fattori: il persistere del modello culturale che in società ad alta mortalità infantile portava ad assicurarsi una prole numerosa; il basso livello di istruzione delle donne in età fertile e le loro modeste possibilità di reddito da lavoro; le aspettative limitate dei genitori circa i consumi da garantire ai figli che sopravvivono. In seguito, al crescere del tenore di vita e del livello di istruzione delle donne, all'espandersi delle attese sul consumo familiare e al diffondersi di modelli di consumo opulento, al rompersi nel contesto urbano della convivenza in famiglie allargate, all'aumentare della partecipazione femminile alla forza lavoro, il tasso di natalità declina e la crescita della popolazione si stabilizza, o addirittura diviene negativa. La transizione demografica determina mutamenti nella distribuzione della popolazione per classi di età, con rilevanti effetti economici.
Lo s. e. comporta i fenomeni di maggiore facilità e minori costi delle comunicazioni e l'espansione dei trasporti, legati alla rapida diffusione di innovazioni tecnologiche cruciali (in differenti fasi, le ferrovie o i trasporti aerei, la radio o i cellulari ecc.). Gli effetti incrociati di tutte queste innovazioni ne ampliano le potenzialità (si pensi all'informatizzazione per il controllo del trasporto aereo). Esternalità o effetti positivi cumulativi derivano dallo sviluppo estensivo del reddito e della popolazione. L'espansione dei mercati, che è di incentivo allo sviluppo di trasporti e comunicazioni, è favorita a sua volta dalla rapidità dei collegamenti e dalla circolazione delle informazioni. Benché i legami di scambio e dipendenza tra economie locali siano nella storia noti, diffusi e antichissimi, lo sviluppo di trasporti e comunicazioni accelera l'integrazione di economie geograficamente distanti, l'uscita dall'isolamento di economie locali rimaste relativamente chiuse, massicci fenomeni migratori, la rapida delocalizzazione di attività produttive, che vengono trasferite in nuovi mercati, mutamenti nella divisione internazionale del lavoro per l'emergere di nuovi produttori. Lo s. e. è generalmente accompagnato dall'espansione dell'economia di mercato e dalla diffusione dei servizi finanziari e di pagamento.
Muta la distribuzione della popolazione sul territorio, per la capacità di attrazione delle regioni dove si concentrano attività produttive innovative. Cresce la percentuale della popolazione che vive nei centri urbani o nelle megalopoli, e tale urbanizzazione può essere rapida e caotica. I movimenti migratori verso le città creano estese baraccopoli, senza risorse pubbliche per offrire condizioni sanitarie e abitative dignitose ai nuovi immigrati. Nei Paesi che partono da bassi livelli di reddito, nel corso della transizione le aree rurali possono presentare divari estremi rispetto alle zone urbane nell'accesso ai servizi sanitari, all'acqua potabile, all'istruzione, alle comunicazioni, con fenomeni di conflitto culturale o esclusione. Lo s. e. induce inoltre fenomeni diffusi di modernizzazione, perchè l'aumento del PIL pro capite, il declino del settore rurale, le opportunità di lavoro e d'istruzione cambiano radicalmente il quadro sociale. Il mutamento della struttura familiare e l'accesso delle donne al mercato del lavoro hanno effetti culturali ed economici importanti. In tutte le esperienze storiche, i mutamenti incontrano forti resistenze e generano conflitti tra gruppi sociali o tra generazioni. La modernizzazione minaccia di fatto ceti privilegiati e sistemi di potere consolidati. Se la crisi è vissuta in maniera traumatica, i conflitti possono acuirsi fino a sfociare in colpi di Stato, guerre civili oppure altri rivolgimenti politici, che bloccano sul nascere il procedere dello sviluppo.
Per tutti i caratteri delineati, lo s. e. appare una trasformazione che avviene con ritmi ineguali tra settori in espansione e in declino, e con effetti ineguali sulla distribuzione del reddito e l'accesso al potere politico. Nell'apparato produttivo convivono imprese con tecnologie diverse e differente rapidità di adattamento al mutamento o capacità d'innovazione. Nei PVS ceti emergenti aspirano a modelli di consumo opulento, mentre strati ampi della popolazione vivono ancora in condizione di estrema povertà. Allo stesso tempo, lo s. e. offre speranze diffuse di miglioramento nel tenore di vita e di avanzamento nella condizione sociale; facilita la coesione della comunità nazionale, se le aspettative non sono disattese, anche in società con marcata ineguaglianza dei redditi o altre forme di frammentazione sociale. È 'l'effetto tunnel' sottolineato dall'economista A.O. Hirschmann: la speranza di redditi più alti sostiene i sacrifici della transizione. Per l'intreccio dei mutamenti sociali, culturali e strutturali che mettono in moto, i processi di s. e. richiedono delicati equilibri istituzionali per poter procedere.
I Paesi in via di sviluppo. I Paesi produttori di materie prime
Nell'orizzonte della storia contemporanea, i successi, i fallimenti o le prospettive di s. e. vanno valutati secondo il punto di partenza dell'economia esaminata. Una classificazione adottata dalla Banca mondiale divide gli Stati del mondo in quattro gruppi, in base al livello del PNL pro capite annuo. Nel 2005 erano classificati a basso reddito i Paesi con un livello uguale o inferiore a 875 dollari statunitensi, a medio reddito di fascia bassa quelli tra 876 e 3465 dollari, a medio reddito di fascia alta quelli tra 3466 e 10.725, ad alto reddito quelli pari o oltre i 10.726 (The World Bank 2006). I Paesi del mondo (non considerando i più piccoli) si trovavano quindi così suddivisi: ad alto reddito, tutti quelli dell'America Settentrionale e dell'Europa occidentale, e alcuni dell'Europa sudorientale (Grecia, Slovenia, Cipro), dell'Oceania (Australia, Nuova Zelanda), dell'Asia orientale (Giappone, Corea del Sud) e del Medio Oriente (Israele, Arabia Saudita e Stati arabi del Golfo Persico); a medio reddito di fascia alta, quasi tutti quelli dell'Europa orientale, e alcuni del Medio Oriente (Turchia, Libano), dell'Africa (Libia, Gabon, Botswana, Sudafrica) e dell'America Centrale e Meridionale (Messico, Costarica, Panama, Venezuela, Uruguay, Argentina, Cile), e nell'Asia sudorientale la Malaysia; a reddito medio di fascia bassa, la maggior parte (con le eccezioni già viste) di quelli dell'Asia centrale, sudorientale e orientale (tra cui la Cina), dell'Europa sudorientale, del Nord Africa, del Medio Oriente e dell'America Centrale e Meridionale, e alcuni dell'Europa orientale (Moldavia, Ucraina, Bielorussia) e dell'Africa a sud del Sahara (Camerun, Repubblica del Congo, Angola, Namibia); a basso reddito, la maggior parte di quelli dell'Africa a sud del Sahara e dell'Asia meridionale (compresa l'India, pur dotata di settori dell'economia con alta tecnologia, di capacità di esportazione e di sofisticato capitale umano).
I dati sul reddito medio annuo pro capite sono calcolati in una valuta comune (i dollari statunitensi) per rendere comparabili quelli stimati nelle valute locali. Tale operazione statistica, oltre alle difficoltà legate al calcolo realistico dei tassi di cambio di mercato, presenta anche altri problemi. Nei Paesi a più basso reddito potrebbe indurre a una stima per difetto, per la difficoltà a comparare su scala internazionale i prezzi dei prodotti inclusi nel paniere di consumo delle famiglie, o per la difficoltà di calcolare correttamente la quota di reddito che nelle economie informali di molti PVS sfugge alla rilevazione statistica. Quale che sia l'errore residuo delle stime, è evidente l'enorme divario nel reddito annuo pro capite tra i Paesi del mondo.
La divisione in quattro gruppi, peraltro, non è sufficiente per comprendere i problemi che ogni area o Stato affronta, né permette di valutare il grado di ineguaglianza nella distribuzione del reddito, che può determinare fenomeni di esclusione, marginalità o povertà assoluta per ampie fasce della popolazione. Parametri importanti del processo di s. e. che tale indicatore non coglie, riguardano i settori produttivi in cui il reddito si genera (manifattura, servizi, materie prime agricole, prodotti energetici): la presenza di un settore manifatturiero avanzato e di servizi finanziari e di telecomunicazione, o, all'opposto, la concentrazione della produzione e delle esportazioni su pochi prodotti primari o sul settore estrattivo. Sono evidenti, soprattutto tra i Paesi a medio reddito, la varietà delle condizioni di partenza e la diversa eredità storica. Per comprendere le tendenze in atto e valutare come superare i divari di reddito e tecnologia, è necessario guardare da vicino alle singole aree geografiche. Emerge la marcata divergenza tra i PVS stessi. Larga parte della popolazione dell'Asia, grazie alla crescita in due grandi Stati, la Cina e l'India, che si stanno trasformando in competitori emergenti sui mercati internazionali, e grazie allo sviluppo già consolidato in altri Stati, è coinvolta in un rapido aumento del reddito, che permette e promette la riduzione di massa della povertà. L'America Latina ha esperienze variegate, e in alcuni Paesi ha sofferto crisi gravi.
Nelle economie a medio reddito, soprattutto di fascia bassa, l'attività manifatturiera che adotta tecnologie avanzate ed è rivolta all'esportazione sui mercati internazionali si affianca a una produzione agricola ancora dipendente da strumenti e tecniche tradizionali. Il dualismo sul territorio persiste: distretti specializzati in rapida crescita convivono con regioni stagnanti a basso reddito. Nelle zone urbane densamente popolate, con problemi di inquinamento e di saturazione del territorio, nascono architetture avveniristiche, mentre aree rurali isolate continuano a vivere senza infrastrutture né servizi. I Paesi di industrializzazione recente affrontano il problema formidabile di aprire, per ampie popolazioni rurali, l'accesso alle tecnologie del 21° secolo. Nei Paesi a basso reddito dell'Africa a sud del Sahara, nonostante segni di ripresa dopo il tragico periodo di mancato sviluppo o declino nell'ultimo quarto del 20° sec., il miglioramento in corso è ancora lento e ineguale, gravato com'è da incognite quali l'epidemia di AIDS o la persistenza di devastanti conflitti regionali. Le economie dei Paesi del Nord Africa e del Medio Oriente soffrono per i bassi livelli di istruzione, per l'esclusione di larga parte della popolazione femminile dall'accesso al lavoro, per la limitata libertà di espressione e di iniziativa. Negli Stati a basso reddito più poveri, in Africa ma anche in zone dell'Asia, è incerta la capacità di entrare in un processo di sviluppo stabile, e restano enormi le difficoltà per portare l'agricoltura di sussistenza, che per la popolazione rappresenta la fonte principale di reddito, entro la cornice dell'economia di mercato. Élites locali nate da sanguinosi conflitti civili possono ostacolare attivamente la modernizzazione, com'è avvenuto in Afghānistān con i Tālibān o in Somalia con le milizie islamiste. In vari Paesi produttori di prodotti minerari o energetici, è embrionale o modesta la diversificazione dell'apparato produttivo, nonostante gli elevati introiti delle rendite da risorse naturali. Infine, nelle economie di mercato più avanzate, nel gruppo dei Paesi ad alto reddito, la continuità dello s. e. richiede la capacità di innovare, mantenendo un apparato produttivo competitivo sui mercati internazionali. I divari tra i PVS stanno cambiando i caratteri della divisione internazionale del lavoro. Crescono gli investimenti diretti di Cina e India negli Stati africani, nel settore petrolifero e minerario ma anche nelle industrie manifatturiere. Si espandono i flussi degli scambi commerciali tra l'Asia e l'Africa, come in genere tra i Paesi del Sud del mondo.
Povertà e sviluppo economico
All'esame della distribuzione del reddito per Paesi va accompagnato quello della sua distribuzione su scala mondiale, considerando la quota della popolazione che in ogni Paese si trova in condizioni di povertà assoluta, cioè che vive, secondo la definizione convenzionale adottata in sede internazionale, con meno di 1 dollaro al giorno o, secondo un'altra versione, con meno di 2. La Banca mondiale stima che nel 2002 oltre 1 miliardo di persone (oltre il 19% della popolazione dei PVS) vivesse con meno di 1 dollaro e oltre 2,5 miliardi con meno di 2. Peraltro, le stime indicano il declino, negli anni 1970-2000, della popolazione in condizioni di povertà estrema (-300 milioni, secondo alcuni calcoli). La riduzione della povertà, benché gli 'obiettivi del Millennio' proposti dalle Nazioni Unite siano ancora lontani, è stata possibile grazie all'aumento del reddito medio in Stati molto popolosi dell'Asia, in primo luogo la Cina. All'opposto, per l'Africa si calcola un aumento dei poveri di 200 milioni. Nei Paesi a reddito medio la distribuzione della ricchezza può essere molto ineguale, con ampie fasce di popolazione povera e con ceti emergenti che godono invece di elevati livelli di vita. La Nigeria, per es., in un trentennio di stagnazione economica ha visto migliorare i consumi dei ceti abbienti mentre cresceva la quota della popolazione sotto la soglia della povertà assoluta. Nei Paesi più avanzati sussistono fasce di povertà relativa (rispetto al reddito medio del Paese) in alcune regioni o in alcuni gruppi della popolazione.
Nonostante gli squilibri, lo s. e. è stato il principale motore per la riduzione a lungo termine della povertà. Era convinzione illuministica di Smith che lo s. e. conducesse al miglioramento delle condizioni di vita, perchè rendeva accessibili anche agli strati sociali deboli beni di migliore qualità e faceva entrare nell'uso, con l'innovazione, un paniere di consumo più variato, coinvolgendo anche "i poveri che lavorano" nelle conquiste della civilizzazione. L'esperienza storica dei Paesi europei nel 19° e 20° sec. ha confermato la convinzione di Smith. La crescita del PIL pro capite è stata accompagnata da un aumento del tenore di vita che ha toccato tutti i ceti sociali. Le innovazioni di prodotto hanno generato guadagni di benessere universalmente diffusi, l'allungamento della vita e l'accesso a consumi che nei secoli passati erano impensabili anche per i ceti dominanti. L'esperienza sembra confermata anche nei PVS, ma molte critiche sono state mosse all'idea che il PIL pro capite sia un indicatore valido delle opportunità di benessere aperte alla popolazione. Per integrare le informazioni che si ricavano dalle statistiche del PIL, le Nazioni Unite (nell'ambito dell'UNDP, United Nations Development Programme) elaborano dal 1990 l'HDI (Human Development Index), un indicatore che considera per ogni Paese, oltre al PIL pro capite, l'aspettativa di vita alla nascita e il livello di istruzione (misurato dalla percentuale di alfabetizzazione tra gli adulti e dalla frequenza scolastica).
L'economista A.K. Sen ne ha proposto un'accezione più ampia, che tenga conto delle opportunità di realizzazione (le 'capacitazioni') aperte a ciascuno in vari ambiti della vita. Nella concezione di Sen, lo s. e. è ampliamento delle opportunità di scelta, e quindi è conquista di libertà nell'accesso non solo al consumo ma anche alla cultura, alla formazione, alla salute, alla vita sessuale, al pensiero indipendente, alle libertà politiche e di espressione, cui ogni persona ha diritto secondo libere scelte di vita.
Il reddito reale pro capite resta tuttavia l'indicatore primario, benché imperfetto, del grado di sviluppo che l'economia ha raggiunto o deve ancora raggiungere. I Paesi dove si osserva il ristagno o la riduzione del PIL pro capite, non in via transitoria ma nell'arco di un periodo, affrontano un grave declino anche nelle possibilità di sviluppo umano. Vi è la fondata aspettativa che nel lungo periodo l'aumento del PIL pro capite porti alla drastica riduzione della povertà in tutti i Paesi che sono entrati in un percorso di sviluppo. Lo s. e., pur ineguale, cancella antiche, tragiche povertà diffuse, anche quando genera nuove differenze sociali. Vi sono, però, processi di transizione che possono avere esiti devastanti per i delicati equilibri sociali, che nel corso del mutamento sono toccati e stravolti, con effetti di esclusione per minoranze, popolazioni indigene, minori, famiglie rurali in condizioni di marginalità o nuovi poveri delle aree urbane. I fenomeni di sfruttamento ed esclusione colpiscono soprattutto le popolazioni rurali incapaci di adattarsi alla rapidità del mutamento e di accedere ai mercati, in regioni provate da disastri ambientali o da eventi bellici, ovvero che non entrano al ritmo di altre sul sentiero della crescita.
Le sinergie dello sviluppo. La trappola della povertà
Perchè alcune economie ristagnano o crescono a tassi modesti? Perchè persistono divari estremi tra le nazioni? Perchè milioni di persone nel mondo continuano a vivere in condizioni di povertà? Quando una nazione entra in un processo virtuoso di sviluppo? Si può confidare nella convergenza verso un livello medio del reddito più uniforme, o nella rapida diffusione delle tecnologie avanzate? Di fronte a questi interrogativi, gli approcci e le conclusioni sono discordi. La ricerca dei fattori che generano la crescita è orientata sia alla comprensione teorica sia, più fattivamente, alle strategie che possono sostenere la crescita, se adottate o promosse dalle autorità pubbliche.
Sotto il profilo teorico e anche sotto l'aspetto della verifica empirica, la prima e più limpida relazione messa in luce è quella tra investimenti e sviluppo, insieme a quella tra risparmio e investimenti, già sottolineata da Smith. Lo s. e. richiede la destinazione di risparmio agli investimenti necessari alla trasformazione dell'apparato produttivo, all'adozione di tecnologie innovative, alla formazione di lavoratori qualificati. Vi è possibilità di investire (in infrastrutture e impianti, ma anche in istruzione e in ricerca) se nell'economia si genera risparmio, oppure, quando il risparmio interno è insufficiente, se finanziamenti aggiuntivi affluiscono dall'estero con investimenti diretti, prestiti o aiuti. Gli investimenti devono essere sostenuti nel tempo, in modo coerente, per produrre mutamenti complementari e interdipendenti nella filiera produttiva e di impatto, per generare rilevanti guadagni di produttività. L'industria automobilistica non può svilupparsi, per es., in assenza di rifornimenti di combustibile, di reti stradali, di imprese specializzate nella fornitura di parti e pezzi di ricambio. Molti economisti hanno sostenuto e sostengono che per avviare la trasformazione è necessario lo sforzo concentrato e simultaneo in investimenti coordinati e complementari, che permettono di superare la soglia critica sotto la quale gli investimenti isolati in singoli progetti non sarebbero profittevoli. In tale visione, l'accento è posto sugli investimenti in capitale fisico (macchine, infrastrutture, impianti), finanziati da aiuti, spesa pubblica o flussi di capitale dall'estero (investimenti esteri diretti); per generare innovazioni e profitti, tali investimenti devono comunque essere ben diretti e ben gestiti. In un'altra visione, l'accento è spostato sugli investimenti in capitale umano (formazione, livelli di scolarità, istruzione tecnica, sistema della ricerca), considerati cruciali per l'innovazione e l'adozione di tecnologie avanzate, con rendimenti crescenti. Le economie che hanno investito e continuano a investire in capitale umano producono, secondo queste tesi, progresso tecnico e quindi aumenti di produttività, in un percorso virtuoso di crescita endogena. Va notato che l'endogeneità del progresso tecnico ostacola il recupero dei divari di produttività nei Paesi ritardatari, con bassi livelli iniziali di capitale umano, mentre favorisce i Paesi precocemente avviati sul sentiero della crescita.
Altri studiosi affermano che nei Paesi a basso reddito mancano le condizioni basilari perchè il capitale umano possa attivarsi, quali la buona nutrizione e la buona salute della popolazione. La morbilità per fattori ambientali negativi (malaria e altre malattie tropicali, epidemia di AIDS) è evidentemente un fattore di freno per lo sviluppo. Invece è ambiguo il ruolo della crescita della popolazione. L'esplosione demografica causata dalla caduta della mortalità può avere effetti negativi nella fase di transizione, perchè limita o addirittura riduce la crescita del reddito pro capite (come nelle previsioni malthusiane), o perchè cresce rapidamente la quota della popolazione giovanissima, ancora dipendente (non in età lavorativa). Per un altro verso, una popolazione giovane ampia e in crescita offre risorse di forza lavoro, maggiore facilità di adattamento al nuovo, di istruzione e di assimilazione delle nuove tecnologie. In generale, una vasta popolazione favorisce l'ampiezza del mercato e, in condizioni favorevoli, offre contatti moltiplicati e scambi più ricchi di informazioni, che accrescono le opportunità di invenzione e perfezionamento delle tecnologie. Una popolazione rada e dispersa sul territorio affronta senza dubbio condizioni decisamente sfavorevoli allo sviluppo.
Quali siano le relazioni tra questi aspetti in ogni Paese, regione o fase storica, è problema difficile, che va affrontato nell'ambito specifico con l'apporto di varie discipline. È importante sottolineare che non è corretto cercare la sommatoria delle cause, disgiunte e indipendenti, che portano l'economia su un sentiero di crescita. Lo s. e., come ampliamento della capacità produttiva con radicali innovazioni tecnologiche e organizzative, coinvolge sinergie nell'attività economica e tra questa e altri aspetti del contesto politico e sociale. Lo s. e. si sostiene se le sinergie operano in senso positivo, sia pure tra momenti di squilibrio e rottura, con rendimenti di scala crescenti. Non parte o abortisce nel caso in cui le istituzioni, il sistema politico, lo stato iniziale dell'economia operano insieme da impedimento alla trasformazione produttiva e sociale che genera l'aumento del reddito. Le condizioni negative che bloccano l'avvio di percorsi di sviluppo sostenuti nel tempo in economie a basso reddito, vengono chiamate 'la trappola della povertà'.
Sinergie nascono, oltre che dall'ampiezza dei mercati e dalla loro accessibilità, dalle complementarietà tra le tecnologie, dai rendimenti di scala crescenti, dalla diffusione di conoscenze e informazioni. La crescita di un settore produttivo è facilitata dall'esistenza di industrie già presenti, a monte e a valle, che offrano i beni intermedi di cui il settore ha bisogno o possano assorbire i beni che esso produce. Le reti di trasporto e di comunicazione già impiantate facilitano la nascita di nuove imprese, che non avrebbero incentivo a stabilirsi in località isolate, con alti costi aggiuntivi. La rete degli intermediari finanziari, ben sviluppata sul territorio, apre l'accesso al credito per le imprese e per i consumatori, e quindi ne sostiene gli investimenti in ricerca, in impianti o in capitale umano. La varietà di figure professionali sul mercato del lavoro agevola le imprese nel selezionare personale ad alta produttività. Innovazione e capacità di fare si alimentano in un contesto di esperienze innovative, dove le conoscenze, varie e diffuse, circolano liberamente. Ambienti competitivi per la presenza di imprese sulla frontiera tecnologica permettono di applicare in nuove iniziative conquiste nate in settori diversi, o di trovare nuovi partner commerciali. Già alla fine dell'Ottocento, l'economista A. Marshall poneva in luce i vantaggi della concentrazione delle imprese nei distretti industriali. Università e centri di ricerca dinamici offrono un ambiente fertile per la produzione di nuova ricerca, per la rapida diffusione di idee e opportunità. Nei Paesi ad alto reddito e a sviluppo precoce, le sinergie della qualificazione professionale, della ricerca, dell'innovazione, della finanza sono favorevoli. I Paesi poveri soffrono, all'inizio del percorso, di un pesante svantaggio relativo che non facilita il decollo.
Alla base di ogni processo di sviluppo vi è la speranza di raggiungere maggior benessere e, come Smith indicava, lo sforzo che i singoli fanno per migliorare la propria condizione. Ogni atto privato di investimento, che sia in istruzione, in ricerca o in impianti, è motivato dall'attesa di un reddito aggiuntivo (il differenziale salariale che spinge a emigrare, lo stipendio più alto dopo la formazione, il profitto da innovazione ecc.) e anche di maggiore visibilità sociale. La tutela dei diritti di proprietà è, quindi, fondamentale per lo s. e., quando non sia difesa di diritti di monopolio e rendite che producono esclusione. Deve vivere la speranza ragionevole di trarre frutti dall'investimento, anche in capitale umano, che non saranno arbitrariamente espropriati dal potere politico o esposti a incertezze estreme. La percezione delle opportunità effettivamente aperte e la concreta possibilità di agire con prospettive di successo, offrono l'incentivo primario a entrare nei processi di s. e. per quanti aprono nuove imprese, cambiano lavoro, acquistano formazione, avviano attività innovative. Tutela dei diritti di proprietà e libertà d'accesso all'attività economica, entro regole di legge stabili e istituzioni che tutelino la giustizia, sono per lo s. e. condizioni cruciali.
Controverso è il nesso tra la democrazia politica e lo s. e., per l'evidenza storica di fasi di crescita accelerata in Stati con il più vario grado di maturità democratica, o perfino in Stati totalitari. A lungo termine, tuttavia, i regimi politici totalitari non possono generare s. e. durevole, anche quando per una fase riescono a estrarre lavoro forzato, peraltro con enormi perdite di forze produttive e con costi spaventosi in termini di capitale umano. La libera circolazione delle idee e il libero accesso alle opportunità, la ricchezza delle capacitazioni (per usare il linguaggio di Sen) offerte a un'ampia popolazione, inclusa 'l'altra metà del cielo', sono la ricchezza umana che in ultima analisi promuove la trasformazione produttiva.
Infine, lo sviluppo genera complessità nei sistemi economici: nella tecnologia e nella ricerca (di base e applicata), nelle relazioni di mercato (per la varietà dei beni scambiati e la globalizzazione degli scambi), nelle competenze e nella specializzazione della forza lavoro, nei mercati finanziari. Cresce, di conseguenza, la sofisticazione dei sistemi legali che regolano le relazioni tra le imprese, il mercato del lavoro, i rapporti dei cittadini con il settore pubblico, la tutela dei consumatori, il settore assicurativo e bancario, i mercati di Borsa. Un'attenzione crescente è rivolta all'amministrazione della giustizia e al buon governo della cosa pubblica, perchè cattiva amministrazione, corruzione, appropriazione privata di risorse collettive, carenze nella legislazione o incertezza del diritto soffocano gli incentivi alla crescita.
Le trappole della povertà emergono quando, per varie cause storiche, in uno Stato o in una regione le istituzioni, le norme di comportamento cristallizzate, il potere politico e le difficili condizioni economiche iniziali ostacolano, congiuntamente, i processi di sviluppo. Per il nucleo familiare o per il singolo, la povertà assoluta significa reddito ai minimi di sussistenza e quindi incapacità di risparmiare, ma anche mancanza di capitali (abitazione, terra, denaro, bestiame ecc.) che offrano riserve nella cattiva fortuna, tutela in caso di malattia, garanzia per ottenere prestiti. La famiglia povera non può investire per incapacità di generare risparmio, per impossibilità di ottenere prestiti, per il rischio costante in cui vive a fronte di eventi sfavorevoli. La percezione della fragilità e la ridotta speranza di vita scoraggiano il risparmio anche entro i margini minimi di reddito che permetterebbero qualche miglioramento. A livello collettivo, l'analfabetismo diffuso, la scarsa protezione dalla malattia per ragioni sociali o ambientali (spesso anch'esse frutto del mancato sviluppo), la denutrizione o la scarsa nutrizione nell'infanzia, il limitato numero dei laureati e dei lavoratori con buona qualificazione professionale, abbassano la produttività del lavoro e limitano l'imprenditoria locale capace di accedere ai mercati internazionali. La scarsità di capitale umano vincola le possibilità di impiantare con successo nuove imprese. Mancano infrastrutture di trasporto, e molti mercati locali sono relativamente isolati; i costi di trasporto lievitano nella stagione delle piogge per il dissesto delle strade. L'economia si trova compressa tra la limitata domanda locale (tanti bisogni, ma scarsa capacità di spesa) e la difficoltà di accedere ai mercati esteri. La produzione per l'esportazione sui mercati mondiali richiede qualità, tecnologie per il packaging, accesso ai servizi finanziari, pubblicità, rispetto di regole sanitarie, reti di comunicazione con i clienti e le banche estere, attività di promozione e relazioni esterne; tutte condizioni difficili per le imprese di un Paese a basso reddito, e ancor più per le popolazioni delle aree rurali, anche quando i salari della manodopera sono molto inferiori a quelli sui potenziali mercati di sbocco. La scarsa capacità di risparmio limita la capacità di investimento. Trappole più nascoste, ma potenti, vincolano altri aspetti dell'attività economica in molti Paesi a basso reddito, anche come portato della pesante eredità coloniale o della difficile formazione di Stati nazionali coesi dopo la conquista dell'indipendenza. Burocrazie inefficienti lucrano in mille modi con tasse improprie, imposte a chi svolge attività produttiva. La corruzione diffusa nel settore pubblico incentiva molti a preferire le rendite lucrate da posizioni di potere ai guadagni dall'attività lavorativa o di impresa. Trappole feroci per le popolazioni che le patiscono sono le guerre civili o il collasso dello Stato. Sono condizioni estreme, dove il ritmo della vita economica è stravolto e si perde la possibilità di costruire progetti con prospettive di successo in un orizzonte di pace.
Le strategie per lo sviluppo e le politiche degli aiuti
L'efficace trasformazione di economie a basso reddito in economie moderne con sistemi di trasporto e comunicazione evoluti, servizi sanitari dignitosi, più ampio accesso all'istruzione e la progressiva riduzione della povertà assoluta, sono tra gli obiettivi di istituzioni internazionali (UNDP, Banca mondiale, FAO, tra gli altri), organizzazioni non governative (ONG) e governi nazionali che sono dediti agli aiuti allo sviluppo. Sono tra le priorità, almeno ufficialmente dichiarate, anche di molti governi nazionali che ricevono tali aiuti. Politiche per la modernizzazione e la crescita nei PVS sono nell'agenda di istituzioni internazionali e singoli Stati nazionali a partire dagli anni Cinquanta del Novecento, dopo la prima fase della decolonizzazione e, in seguito, quando nuovi Stati nazionali si sono affacciati sulla scena internazionale, soprattutto in Africa, nel corso degli anni Sessanta e Settanta.
Le politiche per lo sviluppo promosse dalle istituzioni internazionali hanno attraversato, nella seconda metà del Novecento, varie fasi, con indicazioni diverse o diversa enfasi sulle priorità, a partire inizialmente dall'idea che lo s. e. debba essere messo in moto, nei Paesi ritardatari, da un'ondata iniziale di investimenti in capitale fisso e infrastrutture, coordinati o perfino centralmente pianificati, che potessero, proprio perchè adottati simultaneamente e su larga scala, far compiere al Paese un salto di qualità nella dotazione di capitale che avrebbe portato, si sperava, all'avvio della crescita stabile nel tempo. L'accento sulla dotazione di capitale fisico si è presto rivelato illusorio, in economie dove né la struttura istituzionale, né la tipologia dei consumi, né la distribuzione dei redditi della popolazione, né l'assetto politico offrivano l'ambiente favorevole alla nascita di imprese indipendenti di media o grande dimensione e all'espansione dei mercati. Nelle economie del blocco sovietico o di area comunista lo s. e. è stato segnato da costi sociali altissimi. L'industrializzazione forzata, con l'estrazione di sovrappiù dal settore agricolo e l'imposizione di lavoro servile o schiavistico nelle grandi opere, ha fruttato apparenti successi di rapida modernizzazione, ma accompagnati da scarsità cronica di beni di consumo, distruzione di capitale già esistente e perfino carestie, con la conseguente morte per fame di milioni di persone. Il modello dell'industrializzazione massiccia, guidata centralmente e finanziata con l'estrazione di surplus dal settore agricolo, è stato per molti anni adottato come riferimento, nonostante i guasti e i costi sociali, anche in numerosi Paesi africani.
La seconda fase delle politiche per lo sviluppo ha visto un radicale cambiamento di prospettiva, soprattutto dopo il crollo del muro di Berlino. Il nuovo credo delle organizzazioni internazionali per gli aiuti è stato l'aggiustamento strutturale, insieme di raccomandazioni ai Paesi a basso reddito per correggere gli squilibri macroeconomici e consolidare economie di libero mercato. L'aggiustamento strutturale prevede politiche per liberalizzare i prezzi interni e i tassi di cambio distorti da scelte dirigiste, consolidare le istituzioni finanziarie, ridurre l'inflazione e contenere il disavanzo pubblico. Prevede, tra le priorità, l'apertura dell'economia al commercio estero, indicazione ispirata all'eccezionale crescita trainata dalle esportazioni in alcuni Paesi del Sud-Est asiatico (le cosiddette tigri asiatiche). Una controversia, ormai di lunga data, oppone economisti e politici favorevoli alla liberalizzazione del commercio estero a forti correnti di opinione protezioniste. I primi difendono l'abbattimento delle barriere doganali, nell'intento di favorire l'integrazione dei Paesi a basso reddito nel commercio mondiale e promuoverne le esportazioni. Gli oppositori privilegiano il protezionismo o la liberalizzazione cauta e moderata, a tutela delle industrie nascenti, anche con riferimento all'esperienza dell'America Latina negli anni Trenta del 20° secolo. Forti correnti protezioniste esistono anche nei Paesi ad alto reddito, a tutela della produzione agricola interna o di settori minacciati dalle esportazioni competitive dei Paesi emergenti. Nelle politiche degli aiuti si è spostata l'attenzione sulla qualità dell'amministrazione pubblica, la lotta alla corruzione, la tutela dei diritti civili, la democrazia politica.
Di fatto, la distribuzione dei finanziamenti, gestita in parte attraverso le istituzioni internazionali ma in larga parte attraverso aiuti bilaterali, è stata pesantemente condizionata da scelte strategiche di schieramento e alleanze militari, soprattutto negli anni del confronto tra i due blocchi. Molti studiosi e operatori delle istituzioni internazionali hanno messo in luce gli effetti distorsivi degli aiuti, e la quota limitata dei fondi che va effettivamente a finanziare progetti costruttivi o a sostenere le fasce deboli della popolazione. Sono stati concessi finanziamenti a Stati i cui governi palesemente li deviavano verso spese militari o acquisti suntuari per il mantenimento di burocrazie corrotte. La concessione di prestiti ha provocato in molti Paesi l'accumulazione di un pesante debito estero, che si è rivelato non sostenibile nel medio periodo, con esiti di ripudio del debito o gravi crisi finanziarie. Il debito estero è stato a più riprese rifinanziato, non sempre con esiti positivi. Uno specifico programma della Banca mondiale (HIPC, Highly Indebted Poor Countries) agevola il rifinanziamento o la cancellazione definitiva di quote del debito estero nei Paesi a basso reddito più indebitati. La relativa inefficacia delle politiche degli aiuti finora adottate emerge dal persistente divario tra i Paesi, e le opinioni sono profondamente divise. Permangono strategie contrapposte. Voci autorevoli, che propongono ambiziosi programmi di investimento coordinati a livello internazionale, si scontrano con voci altrettanto autorevoli, che raccomandano di finanziare solo progetti mirati e ben controllabili nei risultati, ancorati alle esigenze della popolazione locale. Peraltro, le finalità degli aiuti sono eterogenee: stabilizzazione macroeconomica, investimenti in infrastrutture, qualità dell'amministrazione pubblica, lotta alla povertà, emancipazione femminile, istruzione delle giovani generazioni, partecipazione democratica, vaccinazioni, lotta all'AIDS, sviluppo della società civile, informatizzazione, tutela e valorizzazione del patrimonio culturale: sono tante le priorità che assorbono gli sforzi e i soldi di ONG e grandi donatori. La valutazione dei risultati dipende dagli obiettivi cui i fondi sono prioritariamente indirizzati. Nel 21° sec. anche il quadro dei PVS è eterogeneo e in rapido mutamento: emergono grandi potenze regionali, come Cina e India; si consolidano economie complesse e mature ma con profonde ineguaglianze sociali, come il Brasile; sono in ripresa alcune economie africane. Altre nazioni, soprattutto in Africa e in Medio Oriente, restano paralizzate dalle dittature o dalle guerre civili, vittime di oligarchie che vorrebbero bloccarne il progresso verso nuove condizioni di libertà.
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