Sviluppo economico
Nel linguaggio comune e in quello delle scienze naturali per sviluppo si intende il passaggio di un'entità dalla sua forma embrionale a quella compiuta o perfetta attraverso un avanzamento per stadi intermedi: così dal feto o dal seme si sviluppano gradualmente l'animale o la pianta. A ogni stadio la forma e le dimensioni, mutate rispetto allo stadio precedente, si devono riferire alla stessa entità: il concetto di sviluppo, quindi, implica insieme mutamento e persistenza, ossia la possibilità di definire l'oggetto del quale si osserva e si misura il mutamento. Nelle scienze sociali, dato che nessuno ha mai 'visto' civiltà, culture, società, economie svilupparsi nello stesso modo in cui possiamo dire di vedere questi fenomeni negli animali o nelle piante (v. Nisbet, 1969), la definizione dell'oggetto costituisce un problema, risolto diversamente a seconda del paradigma teorico e del programma di ricerca adottati. Nell'economia politica la tradizione prevalente, affermatasi fin dagli scritti dei mercantilisti e dei fisiocratici e dalla Ricchezza delle nazioni di Smith, riferisce il fenomeno dello sviluppo e lo studio delle sue cause e delle sue modalità a una entità corrispondente a un 'paese' o a una 'nazione', considerata isolatamente o nei suoi rapporti con il resto del mondo. Molto spesso, come vedremo (v. cap. 7), lo sviluppo economico viene identificato con la crescita delle grandezze macroeconomiche di un paese e, in particolare, del suo prodotto nazionale, e il valore pro capite di questo e il suo tasso di crescita vengono usati come indicatori del livello di sviluppo di un paese o delle sue variazioni. Tuttavia, mentre un aumento del prodotto nazionale in un breve periodo di tempo può essere studiato supponendo immutate le principali relazioni tra le grandezze che definiscono un sistema economico, quando si considerano le sue variazioni in un periodo di tempo lungo, appare evidente che esse sono associate con variazioni nella sua composizione, nei rapporti tra i fattori che lo determinano, nei comportamenti dei soggetti, ossia in quella che possiamo chiamare la struttura economica di un paese (v. Pasinetti, 1987). Variazioni rilevanti e persistenti di quanto si produce implicano mutamenti in ciò che si produce, nel modo in cui si produce, nella distribuzione del prodotto, e questi mutamenti, a loro volta, sono insieme effetti e cause del cambiamento di rapporti sociali e dell'affermarsi di nuovi valori e di nuove istituzioni (v. Kuznets, 1971). Ciò appare particolarmente evidente nel caso del processo di sviluppo di paesi che sono considerati, nel momento iniziale di quel processo, sottosviluppati. Si ritiene, infatti, che una crescita consistente e sostenuta del loro prodotto nazionale presupponga e determini, oltre alla trasformazione della loro struttura produttiva, anche il passaggio da istituzioni e comportamenti definiti tradizionali a istituzioni economiche, sociali e politiche definite moderne. Anche nelle economie sviluppate, tuttavia, una crescita elevata e prolungata nel tempo si accompagna a mutamenti di peso dei diversi settori produttivi, delle forme dei mercati, delle norme e procedure che regolano l'attività economica. Si può, quindi, dire che ogniqualvolta si affronta l'analisi della crescita e dello sviluppo di un paese nel tempo storico, le condizioni ceteris paribus relative alla forma della sua struttura economica e del suo quadro istituzionale devono essere abbandonate e le loro trasformazioni devono essere integrate nell'interpretazione dei processi perché questa possa essere significativa. Definiremo, perciò, lo sviluppo come il processo storico che consiste nella crescita delle grandezze macroeconomiche di un paese e nella sua trasformazione strutturale.
In analogia con il significato che il termine sviluppo ha quando si riferisce a organismi viventi, anche lo sviluppo economico è stato visto come passaggio dal semplice al complesso e come un movimento progressivo verso forme di organizzazione della società e delle sue attività economiche superiori rispetto a quelle precedenti. Questa idea, che trova una sua classica espressione nella settecentesca teoria degli stadi, secondo la quale l'umanità era progredita passando per stadi successivi, dalle società che si procacciavano i mezzi di sussistenza con la raccolta e la caccia fino alla "società commerciale" della quale parla Turgot (v., 1751), riappare in vesti moderne nella teoria dei cinque stadi della crescita di Walter Rostow (v., 1960), che descrive e spiega lo sviluppo economico come un processo di modernizzazione, da un'originaria economia tradizionale alle forme che caratterizzano l'economia dei paesi più avanzati, basata sulla produzione e il consumo di massa.Il libro di Rostow ebbe ampia eco, ma la sua concezione fu criticata da vari punti di vista: perché comprendeva, sotto l'etichetta di 'tradizionale', economie, società, culture profondamente diverse (v. Aron, 1962), perché non spiegava in modo soddisfacente il meccanismo del passaggio da uno stadio all'altro (v. Hagen, 1962), perché proponeva un modello di sviluppo di validità generale, capace di spiegare il passato e prevedere il futuro di ogni paese (v. Baran e Hobsbawm, 1961). Ciò che, più di ogni altra cosa, la teoria di Rostow, come qualsiasi altra che pretenda di offrire un modello universale dello sviluppo economico, non permette di vedere è la profonda differenza tra i processi di trasformazione economica e sociale nelle epoche che precedono l'età moderna e quelli che si verificano a partire dal XVI secolo. Prima d'allora, i sistemi economici coesistenti nelle varie parti del mondo, abbastanza simili per quanto riguarda i risultati in termini di reddito e di livelli di vita, presentano strutture differenti e dinamiche, proprie e indipendenti l'una dall'altra, di evoluzione e trasformazione (v. Sottosviluppo). Solo dal momento in cui è possibile parlare di un mercato e di un sistema economico mondiale capitalistico e definirne i caratteri essenziali - che è anche la data di nascita dell'economia politica - si possono individuare, pur con le particolarità proprie di ogni paese, tendenze generali, regolarità, fattori determinanti della crescita e della trasformazione strutturale. Lo sviluppo del quale si occupa l'economia politica è quindi lo sviluppo economico del capitalismo.
La dinamica delle economie capitalistiche è caratterizzata da oscillazioni che conferiscono loro un andamento ciclico, segnato da periodi più o meno lunghi di espansione della produzione seguiti da periodi di contrazione. Il passaggio da una fase all'altra del ciclo è segnato da una crisi, ossia dall'emergere di ostacoli al funzionamento del sistema economico che bloccano gli investimenti e riducono l'occupazione. I cicli di breve durata si succedono all'interno di fluttuazioni di maggiore lunghezza che sono state variamente periodizzate e spiegate da numerosi economisti. La loro origine sembra coincidere con crisi di particolare profondità e durata che determinano importanti trasformazioni nel funzionamento dell'economia. Questa intrinseca instabilità del capitalismo si accompagna, tuttavia, a dispetto di quanti a ogni crisi ne hanno previsto il crollo, con una sua capacità di superare i momenti critici, di allargare la riproduzione del capitale e di aumentare la produzione.
Ciò può essere spiegato con l'operare di un meccanismo di regolazione, ossia di un insieme di pratiche sociali istituzionalizzate che regolano i comportamenti dei diversi soggetti economici e le relazioni tra le componenti del sistema, in modo da mantenere i conflitti e le contraddizioni tra diversi interessi entro limiti che consentono la riproduzione e la crescita (v. Aglietta, 1976; v. Boyer e Mistral, 1978; v. De Bernis, 1983; v. Lipietz, 1984). Nei cicli brevi questo meccanismo mette in opera controtendenze che compensano la tendenza del sistema ad allontanarsi dal suo sentiero di equilibrio, come nel caso classico in cui un aumento dei costi di produzione e una conseguente contrazione del profitto in una situazione di piena occupazione portano alla flessione degli investimenti, della produzione e dell'occupazione e al rallentamento della dinamica dei salari e dei costi che ricostituisce condizioni favorevoli al profitto e quindi alla ripresa dell'accumulazione (v. Marx, 1867-1894). La crisi in questi casi può essere considerata un processo di aggiustamento del sistema. Ma, quando la crisi è particolarmente profonda e lunga, il meccanismo di regolazione può non riuscire più a svolgere la sua funzione e si impone, dunque, un suo cambiamento. Le grandi crisi che hanno segnato la storia del capitalismo dopo i secoli della transizione del feudalesimo o del 'capitalismo commerciale' rappresentano, quindi, momenti di passaggio da un sistema di regolazione a un altro e permettono di distinguere il processo di crescita e di trasformazione strutturale dell'economia moderna, ossia lo sviluppo capitalistico, in diverse fasi. Anche se la periodizzazione dei passaggi da una fase all'altra e l'identificazione dei fattori che li hanno determinati variano nei diversi autori che hanno affrontato questo tema (v. Maddison, 1982), è possibile identificare tre principali fasi dello sviluppo capitalistico. Nella prima, che inizia dopo l'affermarsi della rivoluzione industriale, la scomparsa delle antiche barriere al movimento del lavoro e del capitale, il gran numero di imprese in ogni industria e la facilità di ingresso nel mercato, consentita dalla modesta quantità di capitale necessario, la proibizione o la debolezza delle organizzazioni operaie fanno della concorrenza tra capitalisti e tra operai il principale meccanismo di regolazione, mentre nei rapporti economici internazionali si affermano il libero scambio e il sistema aureo. L'espansione economica, che raggiunge il suo culmine dopo la metà del secolo, mette in moto processi e determina squilibri che invertono la tendenza e portano alla lunga crisi del 1873-1896, che segna il passaggio a una nuova fase.
La ripresa dell'economia è spinta dall'ondata di innovazioni tecniche che danno impulso all'industria pesante e all'affermarsi come settori trainanti, in luogo del tessile che era stato il protagonista della prima rivoluzione industriale, della siderurgia, della chimica, dell'industria elettrica. Queste produzioni richiedono tecniche più complesse, raggiungono il massimo dell'efficienza per dimensioni maggiori di quelle proprie delle fabbriche del recente passato e impongono una più ampia raccolta di capitali. Ciò rende più difficile l'ingresso di nuove imprese, accresce il ruolo delle banche, porta alla diffusione delle società per azioni. Al funzionamento automatico del mercato concorrenziale tendono a sostituirsi, come elementi regolatori, la strategia delle grandi imprese con potere di mercato, la loro concorrenza di tipo oligopolistico, gli accordi tra di esse, spesso mediati dalle banche e dallo Stato.
Il turbolento periodo iniziato con la prima guerra mondiale, alla quale, dopo un decennio di incerta e diseguale ripresa, seguono la grande crisi del 1929 e, infine, la seconda guerra, apre la via a una fase di sviluppo nella quale il diffuso intervento pubblico nell'economia, la creazione di comprensivi sistemi di sicurezza sociale, l'istituzionalizzazione di nuove procedure di contrattazione dei salari creano un sistema di regolazione nel quale hanno un peso fino allora sconosciuto meccanismi discrezionali, consistenti in decisioni politiche e in accordi tra le parti sociali. Come questi cambiamenti, già sperimentati negli Stati Uniti del New Deal negli anni trenta e influenzati dalle teorie keynesiane, tendono a evitare il riprodursi delle cause che avevano allora determinato la crisi, così in campo internazionale, con gli accordi di Bretton Woods e le regole e istituzioni che vedono in quella sede la luce, le maggiori potenze economiche si propongono di ristabilire un ordinato funzionamento del mercato mondiale, che la crisi prima e la guerra poi avevano sconvolto. Iniziò allora quel periodo che è stato chiamato la 'golden age' del capitalismo del dopoguerra (v. Marglin e Schor, 1990), nel quale sembrò che l'instabilità del sistema potesse essere un ricordo del passato, mentre la produttività, la produzione, i profitti e i salari, il commercio internazionale crescevano a tassi più elevati di quanto era avvenuto nelle precedenti fasi di sviluppo.
È nella prima metà degli anni settanta, dopo il tramonto del sistema monetario di Bretton Woods e in coincidenza con il primo shock petrolifero, che si colloca generalmente la fine di questa terza fase dello sviluppo capitalistico e l'inizio di un processo di cambiamento i cui esiti non sono ancora ben definiti.
Sia nei secoli della transizione al capitalismo che nelle tre fasi che abbiamo sinteticamente schematizzato, lo sviluppo economico non segue lo stesso passo in tutte le parti del mondo che, anzi, proprio con la nascita e l'espansione di quel modo di produzione possono cominciare a distinguersi in sviluppate e sottosviluppate. Dopo la prima rivoluzione industriale, l'Inghilterra per alcuni decenni si trova avanti a tutti gli altri paesi e mantiene una posizione di egemonia nel sistema economico mondiale, ed è solo con quella che venne chiamata 'seconda rivoluzione industriale' che gli Stati Uniti e la Germania la raggiungono e le contendono il primato, mentre la Francia cresce e si trasforma più lentamente, e Russia e Italia seguono a distanza, in questo inseguimento dei primi arrivati (catching up) che è una delle caratteristiche dello sviluppo capitalistico su scala mondiale. Fenomeni dai connotati apparentemente assai diversi, come la restaurazione Meji in Giappone, la rivoluzione russa, il kemalismo in Turchia sono, da un punto di vista economico, episodi di questa corsa a inseguimento con la quale paesi rimasti esterni al mercato mondiale, o inseriti in esso in posizione periferica o semiperiferica, cercano di trasformare le proprie strutture economiche e sociali per ridurre il divario di reddito che li separa dai paesi del centro.
Questo divario, originato dalla stessa dinamica dello sviluppo capitalistico e dalla colonizzazione o subordinazione di gran parte del mondo da parte dei paesi dove quel modo di produzione era nato, è diventato un problema internazionale quando, negli anni quaranta e cinquanta, le antiche colonie sono diventate Stati indipendenti. Da allora è soprattutto in relazione alla possibilità per questi paesi di uscire dalla loro condizione presente, di crescere e di trasformarsi, che il problema dello sviluppo economico e dei fattori che lo determinano è tornato a essere un problema centrale dell'economia politica come lo era stato ai tempi degli economisti classici.
Gli economisti classici che, come scrive Smith (v., 1776), considerano il lavoro "il fondo da cui ogni nazione trae in ultima analisi tutte le cose necessarie e comode della vita" fanno dipendere la crescita dal sovrappiù destinato a impiegare nuovi lavoratori nella produzione di merci e dal progresso delle loro capacità produttive.Intorno alla metà del nostro secolo, dopo che per molti decenni il pensiero economico prevalente, con le sole importanti eccezioni di Marx e Schumpeter, si era posto come problema centrale l'ottima allocazione delle risorse piuttosto che il loro accrescimento, economisti di impostazione keynesiana o neoclassica hanno dato origine a famiglie di modelli volti a determinare le condizioni alle quali il prodotto nazionale può crescere nel lungo periodo mantenendo l'equilibrio tra domanda e offerta globali. In questi modelli la crescita viene fatta dipendere dall'aumento della quota di reddito destinata al risparmio e/o dall'aumento della popolazione e dal progresso tecnico considerati come variabili esogene, ossia come grandezze la cui spiegazione viene lasciata ad altre discipline (v. Harrod, 1939; v. Domar, 1946; v. Solow, 1956). In anni più recenti, nell'ambito della dominante ortodossia neoclassica, si è assistito a un rifiorire della modellistica della crescita, caratterizzato dal tentativo di rendere endogene variabili prima trattate come esogene, di abbandonare alcune ipotesi limitatrici e di inserire nel modello, come determinanti della crescita, fattori in passato non considerati, quali l'istruzione e, quindi, la formazione di capitale umano (v. Ardeni, 1995; v. Bardhan, 1995).
Questo orientamento si spiega, almeno in parte, con l'insoddisfazione per la riconosciuta incapacità dei modelli capostipiti di giungere a conclusioni rilevanti per la comprensione e la soluzione dei problemi della crescita (v. Nardozzi, 1983), benché si debba aggiungere, come è stato notato (v. Hahn, 1994), che anche i nuovi modelli sono 'parabole' che gettano qualche luce sui processi reali piuttosto che offrirne una piena descrizione e interpretazione.
Parallelamente alla modellistica della crescita, e con qualche reciproca interazione, fin dai primi anni del secondo dopoguerra si è prodotta una vasta letteratura, stimolata soprattutto dai problemi dei paesi sottosviluppati o in via di sviluppo che, pur con profonde differenziazioni al suo interno, mette l'accento sull'importanza assunta, nel determinare la crescita, da variabili strutturali quali il trasferimento del lavoro e del capitale da un settore produttivo a un altro o l'aumento della componente estera della domanda. Trasformazioni nella struttura produttiva implicano situazioni di squilibrio e, di conseguenza, questa impostazione è stata talora contrapposta alla modellistica neoclassica (ma il discorso vale anche per altri modelli di crescita), nella quale gli effetti delle variazioni delle grandezze determinanti della crescita si verificano, come si è detto, in condizioni di equilibrio (v. Chenery, 1986).
Poiché abbiamo definito lo sviluppo economico un processo del quale crescita e trasformazione strutturale sono due aspetti interdipendenti, l'identificazione e la spiegazione delle principali forze che lo determinano dovranno tener conto di entrambe. Prendendo, quindi, in esame i fattori ai quali la letteratura economica pressoché unanimemente attribuisce un effetto determinante sulla crescita, ossia l'accumulazione del capitale fisico, il progresso tecnico, la formazione di capitale umano, esamineremo come il dispiegarsi dei loro effetti sia condizionato da mutamenti strutturali e come, a sua volta, li produca. Discuteremo, poi, in che misura e a quali condizioni l'aumento della popolazione e il commercio internazionale possano favorire o ostacolare lo sviluppo.
Per gli economisti classici l'accumulazione consisteva nella destinazione del sovrappiù, non consumato improduttivamente, nell'impiego di nuovi lavoratori ai quali i capitalisti fornivano mezzi di sussistenza, materie prime e macchine.
Per gli economisti moderni l'accumulazione del capitale è il risultato della scelta di investire in mezzi della produzione, in aggiunta a quelli che vengono sostituiti perché logorati o obsoleti, scelta vista alternativamente come un aggiustamento nell'impiego di risorse scarse, guidato dal mercato fino al raggiungimento dell'equilibrio, o come un ampliamento della capacità produttiva di un'economia. È in questo secondo senso che l'investimento può essere considerato un fattore determinante per lo sviluppo.I problemi che si pongono sono di tre ordini: quali condizioni si debbono realizzare perché vi sia investimento netto; a quanto ammonta il capitale da investire per ottenere un dato tasso di crescita; in quali settori, o con quale ordine di priorità, sia opportuno impiegarlo.
Le principali condizioni perché vi sia investimento di capitale sono: l'esistenza di imprese, ossia di quelle istituzioni mediante le quali gli imprenditori capitalisti organizzano la produzione assumendosene i rischi; l'attesa di un profitto futuro e, quindi, di una domanda che permetta lo smercio dei prodotti a prezzi che consentano un margine di profitto ritenuto soddisfacente; la disponibilità di fondi, ossia di denaro, da investire. Una parte dell'investimento complessivo di un'economia, inoltre, è costituita da investimenti pubblici i quali, quando lo Stato in virtù di varie circostanze storiche non si sostituisce al capitalista privato, sono impiegati in attività indirettamente produttive, ossia prevalentemente in infrastrutture che offrono beni e servizi, pubblici o meritori. In questo caso l'investimento avviene o dovrebbe avvenire quando i benefici sociali attesi dall'investimento superano i costi sociali che esso comporta.
Nelle economie dei paesi sviluppati si suppone che ormai da tempo esista un sistema di imprese capitalistiche, operanti nei mercati dove acquistano i fattori della produzione e in quelli dove vendono i propri prodotti. Le teorie e le analisi dell'accumulazione che fanno riferimento, esplicitamente o implicitamente, a economie di questo tipo hanno come oggetto principale il rapporto tra le attese relative alla domanda dei beni prodotti e al rendimento del capitale investito e le decisioni di investimento e tra queste, la formazione del risparmio e il meccanismo del credito.
Questi temi sono centrali anche per lo studio dell'accumulazione nei paesi in via di sviluppo, ma devono essere inquadrati in uno specifico contesto strutturale e istituzionale che ha portato gli economisti dello sviluppo a formulare ipotesi e a elaborare modelli a esso appropriati. Come vedremo, inoltre, la prima delle condizioni precedentemente elencate, ossia la presenza di imprese capitalistiche e, quindi, di capacità imprenditoriale, data per scontata quando ci si occupa di paesi sviluppati, si può dire solo in parte soddisfatta in questo diverso contesto.L'insufficienza di fondi per l'investimento è stata considerata da numerosi economisti come il principale limite all'accumulazione per i paesi che iniziano un processo di sviluppo. Essa presenta due aspetti: da un lato, la quota di risparmio sul reddito nazionale è bassa; dall'altro, le entrate nette delle esportazioni non sono in grado di fornire la valuta estera necessaria ad acquistare i mezzi della produzione nei quali l'investimento si materializza; esiste, dunque, un doppio gap che può essere superato solo con flussi netti di capitale dall'estero. Di qui l'importanza degli investimenti diretti, dei prestiti e degli aiuti stranieri (v. Chenery e Strout, 1966).
Ciò che spiega l'inadeguatezza del risparmio è principalmente il basso livello del reddito, che a sua volta è la ragione principale della mancanza di prospettive di profitto e quindi del limite alle decisioni di investimento. Quando il reddito pro capite di un paese è pari o di poco superiore al livello di sussistenza, è destinato nella quasi totalità alla soddisfazione dei bisogni primari, in particolare all'alimentazione. La propensione media al risparmio è dunque molto bassa e la possibilità di risparmiare è alla portata di un numero limitato di individui. D'altra parte, se la maggioranza della popolazione ha redditi bassi e, come generalmente è il caso per i paesi nelle prime fasi dello sviluppo, è impiegata in un'agricoltura di autoconsumo, il mercato interno è estremamente ristretto, la sua capacità di assorbire l'offerta di beni limitata e, quindi, le aspettative di ricavi e profitti non offrono incentivi a investire (v. Nurske, 1953).
Il problema dell'accumulazione del capitale in economie di questo tipo è strettamente connesso a quello della loro trasformazione strutturale, e infatti una risposta al problema del sottosviluppo è stata tradizionalmente quella dell'industrializzazione, ossia del trasferimento di fattori dal settore agricolo a quello della produzione di manufatti. Un esempio di questa impostazione si trova nell'URSS degli anni venti e nella teoria dell'accumulazione originaria socialista, che prevedeva una forbice tra prezzi agricoli e prezzi industriali come mezzo per trasferire risorse dall'uno all'altro settore (v. Preobrazenskij, 1926). Un altro esempio, che ha avuto molta influenza sulle politiche economiche dei paesi in via di sviluppo negli anni cinquanta e sessanta, è quello dei modelli dualistici. Alla base di questi modelli vi era l'assunto secondo cui nell'agricoltura tradizionale esiste una sovrappopolazione relativa, ossia una elevata quota di popolazione rurale con livelli di produttività marginale estremamente bassi o nulli. Se, accanto al settore tradizionale, esiste un settore moderno, per quanto piccolo, identificato generalmente con le attività industriali urbane, in grado di pagare salari anche di poco superiori al reddito medio agricolo, esso attirerà la popolazione eccedente dalle campagne. Fino a che tale riserva di sovrappopolazione non si esaurisce, mentre la produzione totale dell'agricoltura non diminuisce, i salari potranno restare bassi e inferiori alla produttività media del lavoro nel settore moderno. Si determinerà, quindi, un elevato margine di profitto che verrà reinvestito allargando la base produttiva e dando così vita a un processo di crescita accelerata (v. Lewis, 1954).In questa visione del processo di trasformazione strutturale il settore trainante è identificato nell'industria nascente, mentre l'agricoltura ha la funzione di fornire a essa due sovrappiù: i lavoratori in eccesso e quello che è stato chiamato 'risparmio latente', ossia quella parte del prodotto agricolo che, dopo il trasferimento di una parte della popolazione dall'agricoltura all'industria, non viene consumato dalle famiglie rurali e fornisce reddito che può tradursi in risparmio ed essere, quindi, investito (v. Nurske, 1953).
Due sono dunque le conseguenze della trasformazione strutturale: i profitti derivanti dalla elevata produttività del lavoro e dalla sua bassa remunerazione nell'industria, e la formazione di un sovraprodotto nell'agricoltura, fonti entrambe di risparmio e, quindi, di fondi per l'investimento. Perché, tuttavia, i profitti vengano realizzati è necessaria l'esistenza di un mercato abbastanza ampio da assorbire l'offerta dei beni prodotti, e l'aspettativa di domanda pagante è d'altra parte, come si è detto, una delle condizioni che devono verificarsi perché esistano incentivi a investire.
Si pone così la questione del limite che la ristrettezza del mercato interno rappresenta per gli investimenti, e quindi per la crescita, e dei modi per superarlo. Una prima risposta è data dalla teoria della crescita equilibrata. Essa parte dalla constatazione che se in un paese a struttura prevalentemente agricola e con attività manifatturiere di tipo artigianale, nel quale l'offerta soddisfa la modesta domanda consentita dal basso livello del reddito, si progetta un investimento isolato in un dato settore produttivo, la domanda che potrà essere ragionevolmente prevista per il bene prodotto sarà soltanto quella di quei pochi soggetti coinvolti direttamente o indirettamente nel progetto: insufficiente, quindi, per assicurare la realizzazione dei profitti che renderebbero conveniente l'investimento. Il progetto potrà, invece, essere attuato se è parte di un ampio programma di investimenti, distribuiti secondo date proporzioni tra settori diversi, in modo che l'offerta dei beni prodotti da ciascuna unità e da ciascun settore incontri la domanda costituita da tutti i lavoratori che la realizzazione dell'intero programma ha permesso di occupare (v. Rosenstein Rodan, 1943). Da una situazione iniziale di equilibrio di sottosviluppo si perviene, quindi, all'equilibrio di un sistema che si è sviluppato, trasformando la propria struttura e aumentando il proprio reddito.
Una diversa risposta è quella di chi privilegia nel processo di sviluppo il momento dello squilibrio e gli effetti di complementarità tra diversi investimenti. Programmare un insieme di investimenti tra loro connessi sarebbe praticamente impossibile per la presenza di incertezza e per la molteplicità incalcolabile di interconnessioni tra di essi, soprattutto in paesi nei quali la risorsa più scarsa non è costituita tanto dai fattori della produzione quanto dalla capacità di organizzarli. Il modello ideale di sviluppo non è un programma generale di investimenti che assicurano l'equilibrio finale tra domanda e offerta, ma una sequenza nella quale l'investimento in una data industria, riducendo i costi o creando domanda per altre industrie con le quali esiste complementarità, induce nuovi investimenti (v. Hirschman, 1958). Entrambe queste teorie, come del resto i modelli di tipo dualistico, vedono nell'industria il motore dello sviluppo, assegnando all'agricoltura la funzione di fornitrice di sovrappiù o, come è stato scritto, di 'scatola nera' dalla quale si possono trarre lavoratori, cibo per nutrirli e risparmio (v. Little, 1982) e trascurando altri ruoli che essa può svolgere e che storicamente ha svolto. In una fase della trasformazione strutturale nella quale la maggioranza della popolazione è ancora occupata nell'agricoltura e l'industria nascente trova con difficoltà sbocchi sui mercati esteri, sono le famiglie rurali che presentano la più ampia domanda potenziale. In secondo luogo, per paesi che possono contare prevalentemente sull'esportazione di prodotti agricoli, questi sono la principale o unica fonte della valuta necessaria per acquistare all'estero mezzi della produzione e tecnologie (v. Johnston, 1970). Infine, poiché l'industrializzazione e l'urbanizzazione tendono a far aumentare la domanda di prodotti agricoli, la loro produzione non può limitarsi a restare invariata dopo il trasferimento dei lavoratori eccedenti, ma deve aumentare (v. Kaldor, 1960).
Per questi motivi, l'aumento della produzione agricola per il consumo interno e per l'esportazione e il miglioramento della capacità d'acquisto della popolazione rurale sono da considerarsi, come storicamente si è verificato nell'Inghilterra del XVIII secolo (v. Landes, 1969), presupposti dell'industrializzazione e momenti importanti del processo di accumulazione capitalistica. Ciò significa che la trasformazione strutturale non può consistere unicamente in un trasferimento di risorse dal settore 'tradizionale' a quello 'moderno', come precedentemente definiti, ma deve comprendere anche una modernizzazione delle campagne e cioè una riorganizzazione del modo di produzione nell'agricoltura e un aumento della produttività del lavoro che implica la destinazione di una quota adeguata di investimenti all'agricoltura.
Se, come sostengono le teorie dello sviluppo basate sui modelli di crescita di tipo keynesiano, il tasso di crescita dipende dall'investimento, una volta definite le condizioni che lo rendono possibile se ne deve determinare la quantità necessaria per ottenere il tasso di crescita desiderato.
Dalla teoria della crescita equilibrata si deduce che per raggiungere una posizione di equilibrio in condizioni di sviluppo è necessario un programma che implica un grande sforzo di investimento. Alle stesse conclusioni alcuni economisti sono arrivati per altra via, mettendo in luce 'fattori depressivi' che ostacolano il passaggio da un equilibrio a basso livello di reddito a un equilibrio a livello di reddito elevato. Tali fattori agiscono nel senso di impedire che l'aumento del reddito, derivante dall'investimento, sia in grado di portare la propensione al risparmio a valori che consentano di alimentare un processo sostenuto e continuo di crescita fino ai livelli desiderati. Ostacoli di questo tipo possono essere l'esistenza di una propensione marginale al consumo molto alta, data la grande estensione di bisogni fondamentali insoddisfatti, o la crescita demografica che, fino a quando è superiore al tasso di crescita del reddito, tende a riportarne il livello pro capite al basso valore di partenza (v. Leibenstein, 1957; v. Nelson, 1956). Di conseguenza, per arrivare a un equilibrio ad alto livello di reddito pro capite, sarebbe necessario uno 'sforzo minimo' che consiste in un investimento molto elevato o, come si diceva, un big push (v. Rosenstein Rodan, 1963).
La teoria che privilegia il ruolo dell'investimento, in particolare nell'industria, e sostiene la necessità che esso sia in dosi massicce, teoria tipica dell'economia dello sviluppo dei primi decenni del dopoguerra, sembra trascurare altri fattori della crescita ai quali già gli economisti classici avevano dato grande importanza. Mentre vedremo più oltre come questi fattori vengono trattati dagli economisti moderni, richiamiamo qui brevemente alcuni altri aspetti della trasformazione strutturale che costituiscono, insieme, una condizione e un effetto del processo di accumulazione del capitale.
Il primo riguarda l'esistenza e la formazione del mercato o, meglio, di mercati per le merci e i fattori della produzione. In economie prevalentemente agricole, dove le forme di possesso della terra e le tecniche produttive consentono solo una bassa produttività del lavoro e le comunicazioni tra regioni diverse sono difficili, l'agricoltura è orientata all'autoconsumo dei coltivatori, gli scambi sono ristretti a mercati locali e la circolazione monetaria è limitata. In questa situazione manca una delle condizioni dell'accumulazione, precedentemente ricordata, ossia l'esistenza di imprese capitalistiche orientate al profitto e incentivate all'investimento. In Occidente il superamento di questa situazione è stato determinato sia dall'introduzione nell'agricoltura di tecniche che hanno permesso l'aumento della produttività, sia da riforme della legislazione della proprietà e della conduzione della terra, nonché dall'attuazione di opere pubbliche volte a migliorare le comunicazioni e i trasporti tra le diverse regioni di un paese.
Il ruolo della legislazione e dell'intervento pubblico è stato ancora maggiore nel creare le condizioni per lo sviluppo degli scambi tra paesi diversi e per la nascita di compagnie commerciali che sono state la principale forma di impresa capitalistica ai tempi del capitalismo commerciale. La diffusione degli scambi all'interno e all'estero, la monetizzazione dell'economia, la nascita delle imprese capitalistiche sono aspetti dell'accumulazione originaria capitalistica che si sono intrecciati strettamente con la nascita e il rafforzamento degli Stati nazionali, offrendo un primo esempio di interdipendenza tra la trasformazione strutturale dell'economia e la trasformazione delle istituzioni sociali e politiche.
In senso proprio il progresso tecnico consiste nell'applicazione al processo produttivo di invenzioni che modificano la combinazione dei fattori e rendono più produttivo il lavoro. La produzione di nuovi beni, l'apertura di nuovi mercati o l'introduzione di nuovi metodi organizzativi, che Schumpeter elenca tra le innovazioni attuate dall'imprenditore protagonista dello sviluppo economico, si possono considerare piuttosto condizioni o concause del progresso tecnico (v. Schumpeter, 1912; v. Sylos Labini, 1977⁴). Nei moderni modelli di crescita la trattazione dei nessi tra progresso tecnico, accumulazione e sviluppo non è fino a oggi soddisfacente. In particolare, le innovazioni sono state trattate nei modelli capostipiti, sia del filone keynesiano (v. Harrod, 1939) sia di quello neoclassico (v. Solow, 1956), come esogene al sistema economico, ossia indipendenti dalle caratteristiche del suo funzionamento. Se così fosse, il progresso dipenderebbe da invenzioni casuali o frutto del genio dell'inventore, liberamente disponibili per tutti, così che il tasso di crescita - se lo si suppone determinato dal progresso tecnico - tenderebbe a convergere in tutte le economie, a qualsiasi livello di sviluppo esse si trovino. Il che non risulta dimostrato.
I modelli neoclassici più recenti considerano il progresso tecnico come una variabile esogena, ma il fatto che essi analizzino le condizioni di una crescita in equilibrio, nella quale il progresso si verifica gradualmente a un tasso costante, impedisce loro di cogliere la discontinuità, le rotture, le crisi che accompagnano i flussi di innovazioni nel processo di accumulazione capitalistico così efficacemente tratteggiate da Marx o da Schumpeter (v. Sote e Verspagen, 1993).
Nelle teorie dello sviluppo di ispirazione keynesiana, nei modelli dualistici e nelle tesi sulla crescita equilibrata o del big push che abbiamo ricordato, il progresso tecnico non aveva un ruolo rilevante o, in alcuni casi, era escluso dall'ipotesi di uno stato delle tecniche dato. L'interesse per il problema delle innovazioni venne destato soprattutto da ricerche econometriche che misero in luce come negli Stati Uniti la crescita del prodotto nel lungo periodo era spiegata principalmente dal progresso tecnico e solo in parte minore dall'aumento dei fattori produttivi, lavoro e capitale, impiegati (v. Abramovitz, 1956; v. Denison, 1962; v. Phelps, 1962). È evidente che per poter produrre i loro effetti le innovazioni devono essere applicate all'attività produttiva e, quindi, almeno in parte, incorporate nei mezzi della produzione: il progresso tecnico è quindi un aspetto dell'accumulazione del capitale. Prenderlo in considerazione porta a concludere che, per ottenere un dato tasso di crescita, l'ammontare di investimenti di capitale fisico può essere minore di quello che sarebbe richiesto in sua assenza.
Se il progresso tecnico viene considerato un fattore determinante in ogni processo di sviluppo, l'origine, le caratteristiche, le modalità di diffusione delle innovazioni sono state diverse nella storia del capitalismo a seconda del momento in cui il processo è iniziato e devono essere trattate diversamente a seconda della struttura economica e del grado di sviluppo di ogni paese considerato.
Gli storici dell'economia hanno discusso i presupposti e le condizioni che hanno caratterizzato le invenzioni e la loro applicazione alla produzione nella rivoluzione industriale inglese e le diverse modalità con le quali una successiva ondata di innovazioni ha determinato la seconda rivoluzione industriale nei late comers, rilevando anche i vantaggi e gli svantaggi che ha rappresentato la relativa arretratezza di questi (v. Landes, 1969; v. Gerschenkron, 1962).
Per quanto riguarda in particolare i paesi sottosviluppati, la scarsità delle risorse finanziarie e umane che essi possono destinare alla ricerca scientifica fa sì che in questo caso il progresso tecnico e il conseguente aumento della produttività del lavoro derivino solo in parte dall'applicazione alla produzione di invenzioni realizzate localmente e si ottengano prevalentemente dal trasferimento di tecnologie dai paesi più sviluppati. Il vantaggio, proprio di tutti i late comers, di poter usufruire di tecniche già sperimentate altrove, che li mettono in grado di compiere un salto tecnologico più rapido, richiede l'esistenza di alcune condizioni ed è controbilanciato da alcuni svantaggi e inconvenienti ben noti. Le condizioni necessarie perché il trasferimento di tecnologie, generalmente incorporate in mezzi della produzione, abbia luogo e produca gli effetti desiderati, sono la capacità di investire e, quindi, la disponibilità di capacità imprenditoriale, di risparmio e di valuta estera o la possibilità di attirare investimenti diretti stranieri, e l'esistenza di tecnici e lavoratori in grado di utilizzare efficacemente le tecnologie importate adattandole a un ambiente diverso da quello dal quale provengono. Come vedremo più oltre, quest'ultima condizione può rappresentare e ha rappresentato una delle maggiori strozzature che ostacolano il processo di industrializzazione di molti paesi.
Il principale inconveniente derivante dall'applicazione di metodi produttivi importati da paesi sviluppati è quello che va sotto il nome di inappropriatezza delle tecnologie: la combinazione di fattori prevista dalla nuova tecnica può essere diversa da quella che verrebbe suggerita dalla loro relativa scarsità o abbondanza nel paese sottosviluppato; la tipologia dei prodotti può non corrispondere ai bisogni che sarebbe opportuno soddisfare prioritariamente; l'applicazione di quei metodi perpetuerebbe la dipendenza del paese da quelli più sviluppati per la fornitura dei ricambi e per l'assistenza tecnica. Si pone, quindi, il problema della scelta della tecnica più appropriata tra quelle che sono disponibili. L'aspetto più discusso di questo problema, al quale anche gli altri finiscono per riallacciarsi, è quello della maggiore o minore intensità capitalistica della tecnica da adottare, ossia del rapporto tra capitale fisico e lavoro impiegati nel processo produttivo. Poiché si ritiene che nei paesi che iniziano lo sviluppo il capitale sia il fattore relativamente scarso, il criterio di scelta della tecnica sembra debba essere il risparmio di capitale e, quindi, la tecnica preferita quella che massimizza il prodotto per unità di capitale indipendentemente dal tipo di rapporto tra capitale e lavoro. Se la tecnica che soddisfa questa condizione è ad alta intensità di capitale, inoltre, essa porterà a una distribuzione del reddito ottenuto più favorevole al profitto di quanto accadrebbe con una tecnica ad alta intensità di lavoro. Dato che la propensione al risparmio dei capitalisti è maggiore di quella dei salariati, le tecniche ad alta intensità di capitale avrebbero anche il vantaggio di aumentare la formazione di risparmio e, quindi, l'accumulazione (v. Buchanan, 1945; v. Galenson e Leibenstein, 1955). Di fatto, nella maggior parte dei paesi in via di sviluppo i programmi di industrializzazione e di costruzione delle infrastrutture hanno mostrato una preferenza per investimenti che richiedevano tecniche, trasferite dall'estero, ad alta intensità di capitale. Sia le premesse teoriche che le conseguenze di questa scelta si prestano, tuttavia, a numerose obiezioni. In primo luogo, non esiste una soddisfacente evidenza empirica in merito ai rapporti tra intensità di capitale delle tecniche e risparmio di capitale: sembra plausibile che essi varino in produzioni diverse e al variare dei processi produttivi (v. Stewart, 1987). In secondo luogo, l'introduzione di tecniche che, rispetto ad altre, impiegano meno lavoro ripresenta il problema, per la prima volta affrontato da Ricardo, degli effetti dell'uso delle macchine sull'occupazione. È questo il punto che richiede maggiore attenzione quando si affronta il problema del progresso tecnico nei paesi in via di sviluppo. Come abbiamo visto, un limite agli investimenti e, quindi, all'avvio del processo di accumulazione è la ristrettezza del mercato interno, limite che può essere superato solo se l'espansione dell'occupazione crea reddito e domanda. Inoltre, un ampio impiego del lavoro, che è il fattore più abbondante e meno costoso, può consentire ai paesi in via di sviluppo di godere vantaggi comparati sul mercato internazionale per quei prodotti che lo impiegano intensivamente. Infine, le tecniche ad alta intensità di lavoro sono generalmente le più semplici, richiedono meno di quelle complesse il ricorso a personale specializzato straniero, possono più facilmente essere assimilate e adattate alle particolarità dell'ambiente locale e moltiplicare così le possibilità del learning by doing che, come vedremo, è uno strumento importante per accrescere le capacità dei lavoratori e aumentare la loro produttività.
La constatazione che per i paesi che sono all'inizio del processo di sviluppo il progresso tecnico avviene principalmente attraverso il trasferimento di tecniche già sperimentate altrove non significa che la ricerca scientifica e tecnologica non debba essere promossa e sostenuta. Ciò vale particolarmente per un settore la cui modernizzazione abbiamo visto essere un aspetto importante della trasformazione strutturale: l'agricoltura. Le caratteristiche climatiche e del suolo di molti paesi meno sviluppati e il fatto che nelle campagne siano più persistenti istituti e comportamenti tradizionali concorrono a ridurre i vantaggi ottenibili dall'applicazione di tecniche adatte a situazioni profondamente diverse. Di conseguenza, le innovazioni in agricoltura sono tanto più efficaci quanto più sono frutto di scoperte e sperimentazioni fatte nei paesi che le devono applicare, e quindi la ricerca in questo campo ha un grande rilievo e richiede - contrariamente a quanto è avvenuto, con poche eccezioni, nel passato - una priorità nell'impiego delle risorse.
Per capitale umano gli economisti intendono l'insieme o, per analogia con il capitale fisico, lo stock di conoscenze e di capacità produttive delle quali un uomo o più uomini sono dotati. Investire in capitale umano significa aumentare tale dotazione e il rendimento dell'investimento sarà dato dal maggior reddito che gli individui potranno ottenere e dai benefici che potranno derivare per la società cui appartengono.
L'importanza di questo fattore per lo sviluppo di un paese era già stata compresa da Smith (v., 1776) che lo chiamava "l'arte, la destrezza e l'intelligenza con cui vi si esercita il lavoro". Il recente interesse per il ruolo del capitale umano si può far risalire alle ricerche econometriche volte a individuare le determinanti della crescita, dalle quali, come abbiamo già visto, risultò che essa dipendeva meno di quanto si pensasse dall'aumento della quantità dei fattori impiegati nella produzione. L'elevata quota del maggior prodotto ottenuto nel corso del tempo non attribuibile a tale aumento veniva ricondotta a un 'fattore residuo' che sembrava consistere in un miglioramento della qualità dei fattori derivante, per i mezzi della produzione, dal progresso tecnico e, per il lavoro, dall'aumento del capitale umano. Sul 'fattore residuo' si è discusso a lungo e sono state avanzate diverse critiche, fra cui quella di Neild (v., 1964) e quella, radicale, di Sylos Labini (v., 1995) secondo la quale quello del 'fattore residuo' è un problema spurio: al progresso tecnico e organizzativo va imputato non il 70 o l'80% dell'aumento della produttività, come sostengono gli economisti che considerano valida la funzione Cobb Douglas, ma, quando ci riferiamo all'economia nel suo complesso, il 100%.
Questi risultati sul piano teorico portavano a modificare la tradizionale funzione della produzione ed erano particolarmente rilevanti per lo studio dei problemi dei paesi in via di sviluppo, dato che l'analisi delle loro esperienze mostrava come l'insufficienza o la mancanza di capacità imprenditoriali, manageriali e tecniche avessero spesso contribuito pesantemente a determinare l'insuccesso dei programmi di investimento e avessero così ostacolato i processi di industrializzazione e la trasformazione strutturale delle loro economie.
L'investimento in capitale umano avviene in forme diverse: l'accrescimento delle conoscenze e delle capacità produttive si ottiene mediante l'istruzione formale o con la pratica del lavoro, ma perché esse possano essere utilizzate efficacemente occorre che il lavoratore goda di buone condizioni fisiche, assicurate da un'alimentazione adeguata e dall'accesso a servizi igienici e sanitari. Così, una parte degli impieghi del reddito che nella contabilità nazionale vengono considerati consumi, quali le spese correnti per l'istruzione e la sanità e quelle per garantire un minimo livello nutrizionale, concorre, aumentando la produttività del lavoro, a determinare il risultato produttivo (v. Kamarck, 1983). A seconda della forma dell'investimento varia la qualità del capitale umano. Ciò che assicura buone condizioni fisiche dei lavoratori e le spese per la loro alfabetizzazione e, in generale, per i primi gradi dell'istruzione formale contribuiscono alla creazione di capitale umano generico, utilizzabile in diversi tipi di attività. Quanto più l'istruzione formale ha carattere specialistico o la formazione avviene by doing ossia attraverso l'esperienza di lavoro in una data attività, tanto più specifico è il capitale umano e tanto più probabile è che il suo trasferimento da un'attività a un'altra richieda ulteriori investimenti.
Diversi, infine, sono i rendimenti che l'investimento ha per il soggetto che investe o che gode degli effetti di un investimento pubblico e il suo rendimento per la società cui il soggetto appartiene. In particolare, gli economisti che studiano gli effetti dell'istruzione sullo sviluppo distinguono il tasso di rendimento privato, che eguaglia il valore dei costi diretti e indiretti dell'istruzione e quello delle retribuzioni nette attese nel futuro, e il tasso di rendimento sociale, che si ottiene aggiungendo ai costi privati quelli sostenuti dallo Stato e ai ricavi le esternalità positive nette.
Le ricerche svolte a questo proposito hanno portato a risultati rilevanti per lo studio dello sviluppo economico e per la determinazione delle politiche che lo pongono come obiettivo. In primo luogo, si è constatato che, nei paesi in via di sviluppo, il saggio di rendimento degli investimenti nell'istruzione è più elevato di quello che si registra in paesi già sviluppati e che esso, data la scarsità della dotazione di capitale umano in questi paesi, ha un effetto maggiore, relativamente ad altri fattori, sulla crescita del reddito. In secondo luogo, si è rilevato che, al crescere del grado dell'istruzione, il tasso di rendimento privato tende a superare quello sociale e che, all'interno di ogni grado, il rendimento è più alto per gli indirizzi di studio di carattere generale rispetto a quelli più specialistici (v. Psacharopoulos, 1991). Infine, il confronto tra paesi diversi che hanno iniziato in tempi recenti un processo di crescita e di trasformazione strutturale e, in particolare, lo studio del successo delle economie di alcuni paesi dell'Asia orientale hanno dimostrato che il livello di istruzione esistente al momento in cui lo sviluppo è iniziato spiega, almeno in parte, il divario dei risultati ottenuti.
Nel superamento degli ostacoli che un paese sottosviluppato affronta nelle prime fasi della sua trasformazione, il livello dell'istruzione, e quindi gli investimenti che lo innalzano, appaiono particolarmente importanti per i loro effetti indiretti. Una migliore istruzione, infatti, oltre ad accrescere la produttività del lavoro, ha effetti positivi sulla capacità di ottenere informazioni e di accedere al credito da parte dei piccoli imprenditori che svolgono attività commerciali, agricole o artigianali. Inoltre, quando è estesa alle donne, l'istruzione modifica il comportamento delle famiglie, aiutandole a prevenire e combattere le malattie e a curare meglio i figli, apre alle donne la possibilità di entrare nel mercato del lavoro, induce una riduzione della loro fertilità, frenando così l'eccessiva crescita demografica.
Tutto ciò porta a sottolineare l'importanza che assumono per lo sviluppo il capitale umano, una equilibrata allocazione delle risorse tra investimenti in capitale fisico e in servizi sociali, quali l'istruzione e la sanità, che si possono considerare in parte complementari e in parte sostitutivi dei primi (v. Svennilson, 1966), e una programmazione della spesa pubblica adeguata alle caratteristiche del paese e che, quindi, dia priorità a quei gradi di istruzione dai quali ci si può attendere nelle condizioni date il maggior rendimento sociale, evitando di sostenere, come spesso è accaduto, costi elevati per la creazione di capacità che non possono trovare impiego e la diffusione di aspettative insoddisfatte (v. Colcough, 1982). È d'altra parte evidente la connessione tra i processi di formazione del capitale umano e altri aspetti dello sviluppo. Quando, ad esempio, l'industrializzazione avviene mediante la creazione di poli o enclaves, con scarsi legami con il resto del territorio e con altri settori produttivi, le capacità acquisite dai lavoratori occupati potranno difficilmente trasferirsi altrove e generare effetti di diffusione delle conoscenze; se prevalgono industrie a capitale straniero, che fanno largo uso, dalla fase della progettazione a quella della produzione, di personale espatriato, le possibilità per la mano d'opera locale di apprendere nuove tecniche saranno modeste; se le tecniche sono complesse sarà più difficile impratichirsene e appropriarsene.
Come, a proposito del progresso tecnico, avevamo osservato che l'importanza dell'acquisizione e dell'adattamento di tecnologie importate dall'estero non deve far trascurare l'impegno per la ricerca scientifica e per l'innovazione autonoma, così, per quanto riguarda l'istruzione, la priorità data all'alfabetizzazione e alla formazione di base non significa che la creazione di figure professionali con un elevato livello di istruzione non sia una condizione rilevante per lo sviluppo. Tali figure sono, in particolare, richieste nella pubblica amministrazione, proprio per permettere quella programmazione della spesa e quella promozione e regolazione dei processi di industrializzazione che consentono una efficiente allocazione delle risorse tra i vari tipi di investimenti e il maggior rendimento di quelli destinati alla formazione del capitale umano.
Il tema dei rapporti tra andamenti demografici e sviluppo economico ha una lunga storia che si può far risalire al famoso Essay nel quale Malthus (v., 1798) esponeva la sua "legge della popolazione come essa influenza il futuro miglioramento della società". La teoria malthusiana si basa sull'assioma che la capacità naturale dell'uomo di riprodursi supera la capacità di aumentare la disponibilità di alimenti, cosicché, quando il reddito di un paese cresce e i salari superano il livello di sussistenza, rendendo più precoci i matrimoni e più numerose le nascite, si determina uno squilibrio tra bocche da sfamare e cibo che soltanto freni repressivi, come la miseria, le guerre e il conseguente aumento della mortalità, o preventivi, quali il vizio o il controllo morale, potranno superare o evitare. L'immiserimento dei lavoratori, che avrebbe eliminato la popolazione eccessiva o la paura del quale poteva indurli a ritardare la formazione di una famiglia, trovò poi una spiegazione in quella legge dei rendimenti decrescenti dell'agricoltura, accolta anche da Ricardo, secondo la quale l'accresciuto bisogno, spingendo a coltivare terre sempre meno fertili, impedirebbe alla produzione di crescere quanto la popolazione, determinando nello stesso tempo l'aumento della rendita agraria (v. Malthus, 1815). Malthus fondava il suo assioma di base su dati empirici assai deboli, tratti prevalentemente dall'osservazione della realtà americana, ma le sue tesi ebbero un'ampia eco in Inghilterra e da lì si diffusero successivamente nel continente, anche perché i tempi in cui egli scriveva furono contrassegnati da un aumento senza precedenti della popolazione europea (v. Blaug, 1968).
Ciò che avvenne nel XIX secolo, nonostante il raddoppio della popolazione mondiale, smentì le previsioni di Malthus. Il progresso tecnico accrebbe la produttività del lavoro più che compensando gli effetti sul reddito dei temuti rendimenti decrescenti, mentre i mutamenti nei valori e nei comportamenti che accompagnarono la crescita economica e la trasformazione strutturale ridussero gradualmente il tasso di natalità. Alla fine del secolo quella che i demografi chiamano 'transizione demografica' si poteva dire conclusa nei paesi più sviluppati, e il crescente benessere portava non a un aumento ma a una riduzione del tasso di crescita della popolazione.Il problema degli effetti di elevati tassi di crescita della popolazione sulla crescita del prodotto nazionale e il timore che essi possano rappresentare un ostacolo allo sviluppo si sono riproposti in epoca recente, in relazione alla situazione e alle prospettive dei paesi meno sviluppati. È a questi paesi, infatti, che si deve in massima parte l'eccezionale aumento della popolazione mondiale, più che raddoppiata dal 1950 al 1990, ed è in essi che ancor oggi fenomeni quali le carestie, la povertà, la fame non sono stati sconfitti dalla crescita economica (v. Birdsall, 1988).
I principali modelli di crescita trattano l'aumento della popolazione come una variabile esogena, non spiegata quindi dalle grandezze e dal funzionamento del sistema economico, e lo considerano coincidente con l'aumento dell'offerta di lavoro. I suoi effetti sono studiati prevalentemente in relazione alle conseguenze che esso determina sull'offerta degli altri fattori della crescita: l'accumulazione del capitale, il progresso tecnico e la dotazione di capitale umano.La tesi prevalente è che l'aumento dell'offerta di lavoro determina una diminuzione dei salari e, quindi, del costo del lavoro rispetto a quello del capitale: ne conseguirebbe un freno all'accumulazione e alla diffusione di innovazioni incorporate nei beni capitale e, quindi, una minore produttività del lavoro e un rallentamento della crescita (v. Kelley, 1988). È possibile, tuttavia, ipotizzare anche un effetto che va nella direzione opposta: in un'economia dove, come in molti paesi nelle prime fasi del loro sviluppo, prevale ancora un'agricoltura di sussistenza, l'aumento della popolazione e, in particolare, della sua densità sul territorio è uno stimolo a ricercare e ad applicare metodi più produttivi di sfruttamento del suolo (v. Boserup, 1981), mentre in economie più sviluppate esso determina un ampliamento del mercato e, quindi, favorisce decisioni di investimento e l'introduzione di innovazioni (v. Simon, 1981).
La combinazione dei diversi effetti impedisce di arrivare a risultati determinati di carattere generale. Analoga indeterminatezza si presenta quando, abbandonando l'ipotesi della coincidenza tra crescita demografica e aumento dell'offerta di lavoro, si considerano le conseguenze che la crescita ha sulla composizione della popolazione per classi di età. La crescita demografica non dipende principalmente dall'aumento del tasso di fertilità delle donne, quanto piuttosto dalla diminuzione della mortalità infantile e dall'allungamento della durata della vita conseguenti al miglioramento delle condizioni nutrizionali, igieniche e sanitarie. Questo fatto, che è indubbiamente un aspetto altamente positivo e desiderabile dello sviluppo economico, aumenta il numero dei bambini e dei vecchi e, quindi, la proporzione della popolazione economicamente dipendente da chi è in età lavorativa. I redditi da lavoro devono, quindi, provvedere ai maggiori consumi dei componenti non produttivi della famiglia, e ciò ridurrebbe la propensione al risparmio con effetti negativi sull'accumulazione e sulla crescita. Questa conclusione, tuttavia, non tiene conto del ruolo che nello sviluppo economico ha il capitale umano: un maggior numero di figli viventi, purché le famiglie o la società facciano quanto è necessario per allevarli e provvedere alla loro salute e alla loro istruzione, significa un maggior numero di esseri umani disponibili a usare le proprie facoltà intellettuali e ad accrescere le abilità e le conoscenze utili per la produzione e per il progresso tecnico (v. Simon, 1981).
Il limite principale del modo in cui le teorie della crescita trattano l'aumento della popolazione e, quindi, cercano di definirne i rapporti con lo sviluppo è quello di considerarlo una variabile esogena. L'evidenza empirica e l'esperienza storica mostrano invece l'esistenza di relazioni tra variabili demografiche e variabili economiche, e che l'andamento del tasso di crescita della popolazione di un paese può essere spiegato dalla fase e dalle caratteristiche del suo sviluppo.La teoria della transizione demografica, come è noto, sostiene che nelle prime fasi dello sviluppo la diminuzione del tasso di mortalità, conseguente alle migliori condizioni igieniche e sanitarie, si accompagna a una invarianza del tasso di natalità, perché l'aumentato livello dei redditi familiari consente di mantenere più figli, soddisfacendo un desiderio frustrato nel passato dalla forte mortalità infantile, e soprattutto perché i valori e le abitudini cambiano più lentamente di quanto si trasformi l'economia (v. Simon, 1992). Raggiunto un certo livello, il tasso di crescita si stabilizza e in seguito, con il sempre maggiore ingresso delle donne nella produzione e con il mutare dei costumi, tende a scendere e ad avvicinarsi allo zero.
Il confronto tra paesi diversi nella stessa fase di sviluppo permette inoltre di rilevare che la diffusione dell'istruzione abbassa i tassi di crescita demografica e di fertilità delle donne, e che in tal senso sono efficaci anche politiche volte a incoraggiare e a rendere possibile la pianificazione delle nascite. Quest'ultima osservazione permette di correggere la tesi, già a suo luogo ricordata, secondo la quale l'aumento del tasso di crescita della popolazione che si verifica, in una prima fase, al crescere del reddito costituisce un ostacolo al raggiungimento del livello di reddito pro capite desiderato, a meno che un massiccio programma di investimenti (un big push) non consenta di portare l'economia nella fase in cui il tasso di crescita della popolazione si stabilizza. I fatti dimostrano che, in attesa che la transizione demografica si compia, gli effetti negativi di un eccessivo aumento della popolazione possono essere contrastati, almeno in parte, incoraggiando il controllo delle nascite e destinando risorse adeguate all'istruzione e, quindi, alla formazione di capitale umano.
La nascita del capitalismo è strettamente legata alla formazione di un mercato mondiale; si comprende, quindi, come uno dei principali oggetti di riflessione dei mercantilisti e, in generale, degli economisti del XVII e XVIII secolo sia stato, fino a Smith, il commercio d'esportazione con i suoi effetti sulla ricchezza delle nazioni; nelle teorie di Smith (v., 1776) sono già presenti alcuni temi ricorrenti poi nella letteratura in materia: i benefici che deriverebbero a tutti i paesi dall'entrare in rapporti commerciali tra loro, l'ampliamento della domanda che deriva dall'aggiungersi di quella estera a quella interna, la divisione e la specializzazione del lavoro, consentite dall'allargamento del mercato, che determinano un aumento della sua produttività.
Tuttavia, come si sa, è dal cap. 7 dei Principles di Ricardo (v., 1817) e dal suo famoso esempio dello scambio di tessuti e di vino tra Inghilterra e Portogallo che si può dire derivi tutta la teoria del commercio internazionale (v. Findlay, 1984), basata, nei suoi successivi perfezionamenti e svolgimenti, sul concetto di vantaggi comparati che quell'esempio illustrava in modo così brillante e convincente.
Fino a tempi recenti, tuttavia, questa teoria, prima nella versione classica e poi in quella neoclassica, ha considerato due economie con risorse date e pienamente occupate, che in regime di perfetta concorrenza, aprendosi allo scambio, possono realizzare combinazioni più efficienti dei fattori, restando sulla stessa frontiera delle possibilità produttive. In questi termini e per le ipotesi restrittive che la sempre maggiore formalizzazione imponeva, l'analisi dei vantaggi del commercio estero restava nell'ambito della statica economica e, al di là di qualche spunto e intuizione, non poteva cogliere e analizzare adeguatamente gli effetti che l'apertura di un paese, precedentemente chiuso agli scambi, determinava sulla sua crescita e sulla sua trasformazione strutturale.
È stato soltanto negli scorsi decenni che numerosi autori si sono proposti di dinamizzare i modelli del commercio internazionale, di estendere i modelli di crescita al caso di un'economia aperta e di studiare gli effetti del pieno inserimento nel mercato mondiale sui paesi in via di sviluppo. Il passaggio dall'allocazione ottima di risorse date al loro accrescimento e, quindi, allo spostamento della frontiera delle possibilità produttive e allo sviluppo di un'economia, nonché la ricerca di una maggiore aderenza dei modelli teorici alla realtà delle strutture economiche in trasformazione hanno portato ad abbandonare alcune ipotesi restrittive e a una più ampia concezione degli stessi vantaggi comparati (v. Bliss, 1989).
Gli effetti positivi degli scambi con l'estero sullo sviluppo di un paese possono essere così sintetizzati. Il primo è implicito nei risultati della teoria statica del commercio internazionale. Se una più efficiente allocazione delle risorse, in base ai vantaggi comparati dei quali un paese gode, porta a un aumento del suo reddito, una parte maggiore di questo reddito potrà essere risparmiata e investita. Questo effetto si può verificare, ad esempio, nel caso dello sviluppo di un'economia dualistica con eccedenza di popolazione nel settore tradizionale a suo luogo considerato (v. § 3a). In un'economia di quel tipo l'offerta di lavoro è abbondante e a basso costo relativamente a quello del capitale e ai salari correnti nei paesi industrializzati: se essa è impiegata in industrie ad alta intensità di lavoro, i loro prodotti potranno essere collocati sui mercati esteri a prezzi competitivi, ottenendo valuta utilizzabile per l'importazione di mezzi della produzione che consentono un allargamento della base produttiva e l'introduzione di nuove tecniche. Un secondo tipo di effetti è quello già considerato da Smith, quando scriveva che il commercio estero può consentire di produrre e di vendere all'estero merci per le quali non vi è sufficiente domanda interna (vent for surplus), impiegando, quindi, terra, lavoro e risparmi che non sarebbero altrimenti utilizzati. Questo effetto, valido in generale per la crescita del prodotto nazionale, può essere particolarmente significativo per la trasformazione strutturale di un paese dove prevale o manifesta ancora una forte presenza l'economia di sussistenza e dove i mercati si limitano ad ambiti locali (v. Myint, 1958; v. Caves, 1965). Quando paesi di questo tipo dispongono di ricche risorse naturali e di terra in abbondanza, la domanda estera può portare a un maggiore sfruttamento di tali risorse e all'estensione delle colture: l'esportazione di materie prime procurerà il reddito necessario ad alimentare la nascita di industrie di prima trasformazione e quindi permetterà il passaggio alla produzione e all'esportazione di beni con più alto valore aggiunto.
È stato questo, secondo alcuni autori, il caso del Canada (v. Watkins, 1963), sullo studio del quale si è basata la cosiddetta staple theory che spiega l'inizio del processo di sviluppo con l'esportazione di materie prime agricole e che può essere generalizzata, con le opportune qualificazioni, ad altri esempi (v. Balassa, 1989). A questi due tipi di effetti, che consistono in una maggiore disponibilità o in un più ampio impiego delle risorse che un paese può destinare alla produzione e all'accumulazione, se ne possono aggiungere altri che riguardano la trasformazione della sua struttura economica. Di effetti di questo tipo parlava già John Stuart Mill (v., 1848), osservando come l'apertura al commercio estero, facendo conoscere beni nuovi o nuovi modi per produrre più facilmente beni già conosciuti, possa far nascere bisogni prima inesistenti e stimolare energie e ambizioni, determinando una specie di 'rivoluzione industriale' in un paese precedentemente stagnante o sottosviluppato. Questo tema è stato ripreso in epoca recente per dimostrare che l'effetto negativo sui risparmi, che può derivare da nuovi bisogni indotti dalla conoscenza di bisogni e consumi di paesi più ricchi (effetto di dimostrazione internazionale), potrebbe essere più che compensato dagli effetti sull'incentivo a produrre da essi creato (v. Myint, 1964). Le conseguenze che gli scambi internazionali possono avere sulla struttura dell'economia sono ancor più evidenti se si considera che i mezzi della produzione sono beni che generalmente un paese nelle prime fasi del suo sviluppo deve acquistare all'estero: il ricorso al mercato internazionale è stato in molti casi la via obbligata per l'industrializzazione. Infine, una volta che in un paese si è creata una base industriale orientata prevalentemente, come in molti casi è avvenuto, alla soddisfazione della domanda interna, l'apertura all'estero, ampliando il mercato, consente alle unità produttive di accrescere le proprie dimensioni, realizzando economie di scala (v. Krugman, 1987).Gli argomenti a favore degli effetti positivi del commercio internazionale sono oggi prevalenti nelle correnti dominanti del pensiero economico, che vedono nel pieno inserimento dei paesi in via di sviluppo nel mercato mondiale la strada maestra per crescere e trasformarsi. Non mancano, tuttavia, anche nell'ambito delle teorie ortodosse, dimostrazioni della possibilità che, a certe condizioni, una crescita economica trainata dal commercio estero possa produrre effetti dannosi: il caso più studiato è quello di un aumento delle esportazioni che determina una caduta delle ragioni di scambio tale da peggiorare la situazione del paese rispetto a quella che si sarebbe avuta in assenza di crescita (v. Bhagwati, 1958). Ma le tesi più critiche nei confronti dell'orientamento di un'economia verso il mercato internazionale sono quelle di autori come Myrdal (v., 1957), Prebisch (v., 1950) e Singer (v., 1950), che ebbero una vasta diffusione e influenzarono le politiche commerciali dei paesi in via di sviluppo nei primi decenni del dopoguerra. Mentre la teoria classica e neoclassica del commercio internazionale spiegava perché, a determinate condizioni, una specializzazione produttiva dei vari paesi aperti agli scambi, basata sui loro rispettivi vantaggi comparati, aumentasse il benessere di tutti, questi economisti partono dall'esistenza di una specializzazione produttiva, creatasi nel corso dei secoli come risultato non di forze di mercato operanti alle condizioni presupposte dalla teoria pura, ma di un processo storico nel quale la conquista, la colonizzazione, lo sfruttamento di una parte del mondo da parte di un'altra hanno avuto un ruolo determinante. In seguito a questo processo, i paesi industrializzati al centro del sistema economico mondiale si sono specializzati nella produzione di manufatti, quelli sottosviluppati, della periferia, nella produzione di materie prime. Ciò determinerebbe un'asimmetria delle rispettive posizioni, perché negli uni e negli altri sono diversi i meccanismi di formazione dei prezzi e diverse le elasticità della domanda internazionale per i due tipi di prodotti. Nei paesi industrializzati l'esistenza di mercati oligopolistici e di forti sindacati operai fa sì che l'aumento della produttività, conseguente all'accumulazione e al progresso tecnico, si traduca, in gran parte, in maggiori profitti e salari, mentre nei paesi periferici la forte concorrenza internazionale per i prodotti agricoli, l'offerta quasi illimitata di lavoro, la mancanza o la debolezza dei sindacati mantengono i prezzi bassi, cosicché l'effetto di una maggiore produttività va a vantaggio dei consumatori e, quindi, degli importatori di questi prodotti. Ne deriva una tendenza secolare alla caduta delle ragioni di scambio per i paesi sottosviluppati esportatori di materie prime. Inoltre, mentre in questi paesi l'inizio di un processo di sviluppo comporta una elevata elasticità della domanda di prodotti manufatti al crescere del reddito, la domanda di beni primari da parte dei paesi industrializzati aumenta molto lentamente, perché la quota dei prodotti agricoli per l'alimentazione sul consumo totale diminuisce al crescere del reddito e il progresso tecnico sostituisce nell'industria di trasformazione materiali sintetici alle materie prime naturali. Un paese importatore di manufatti ed esportatore di materie prime sarà quindi costretto, per ottenere la stessa quantità dei primi, a scambiare una sempre maggiore quantità delle seconde e incontrerà, d'altra parte, sempre maggiori limiti alla loro esportazione.
Queste tesi portavano a sostenere la necessità per i paesi in via di sviluppo di ridurre la loro dipendenza dal mercato mondiale, indirizzando i propri sforzi verso un'industrializzazione orientata prevalentemente al mercato interno, che sostituisse beni nazionali a beni importati e che avrebbe richiesto, almeno per un certo periodo, misure protezionistiche, come, del resto, avevano sostenuto nel secolo scorso List (v., 1841) e altri autori per i paesi late comers.
Anche se gli insuccessi delle politiche di industrializzazione sostitutiva delle importazioni, le distorsioni causate dal protezionismo e i suoi elevati costi sociali, i risultati ottenuti dalla liberalizzazione degli scambi, prima in Occidente e poi nei paesi dell'Asia orientale, hanno contribuito, insieme alla riacquistata egemonia delle correnti di pensiero neoclassiche, a togliere credito alle tesi dei critici del mercato mondiale, la rigida contrapposizione tra le loro analisi e quelle dei fautori del liberismo sembra essere oggi meno radicale di quanto non fosse nella prima parte degli anni ottanta.
L'evidenza empirica relativa a un campione di paesi analizzato da Maddison (v., 1982) e da Evans (v., 1989) permette di constatare, per gli anni dal 1820 al 1985, un'associazione statistica positiva tra i tassi di crescita del prodotto nazionale e delle esportazioni per tutti, tranne uno, gli intervalli considerati, ma nulla si può dire sulla direzione del rapporto causale tra le due grandezze. Anche gli storici che hanno discusso il problema con riferimento alla rivoluzione industriale, d'altra parte, hanno opinioni discordi in merito alla questione se, in quella fase dello sviluppo capitalistico, il commercio internazionale sia stato una forza motrice dello sviluppo o soltanto una condizione che lo ha favorito (un engine oppure un handmaiden of growth) (v. Eversley, 1967; v., Landes, 1969). Per quanto riguarda, in particolare, i paesi in via di sviluppo, la tesi sulla caduta delle ragioni di scambio per i paesi esportatori di materie prime era indubbiamente fondata su basi statistiche alquanto semplicistiche e deboli (v. Haberler, 1961), ma una serie di ricerche condotte su dati più numerosi e con metodi più raffinati sembrano confermare, pur attenuandone la portata, alcune delle conclusioni allora raggiunte (v. Spraos, 1980). Infine, uno studio accurato dei casi di successo dei paesi in via di sviluppo con diverse strutture e diverse politiche economiche (v. Chenery e altri 1986; v. Singer, 1987) sembra portare alla conclusione che un pieno inserimento nel mercato mondiale abbia effetti più o meno positivi sullo sviluppo a seconda dei beni che un paese può esportare e, quindi, della fase in cui si trova il suo processo di trasformazione strutturale, che ha sempre richiesto, per i late comers un periodo di sostegno e di protezione all'industria nascente per superare la posizione di relativo svantaggio rispetto ai paesi più avanzati.
Nel concetto di sviluppo economico è, fin dalle origini, implicita l'idea di un passaggio a uno stato di cose preferibile a quello precedente, ossia di un miglioramento: lo sviluppo è quindi socialmente desiderabile. Tuttavia sembra ragionevole pensare che, se esso viene definito come la crescita del prodotto e la trasformazione strutturale di un paese, per i cittadini di quest'ultimo non sia desiderabile tanto lo sviluppo in sé quanto il maggior benessere che ne può derivare. Il passaggio dal benessere individuale a quello sociale è un'operazione teorica complessa e controversa, ma si può concordare sul fatto che un aumento del benessere sociale non dipenda solo dalla crescita del prodotto nazionale, ma anche dal modo in cui essa è distribuita. L'economia del benessere, nella sua originale impostazione utilitaristica, sosteneva che se tutti gli individui hanno la stessa capacità di trarre benessere dalle risorse delle quali dispongono e queste producono soddisfazioni decrescenti al crescere della loro quantità, la distribuzione egualitaria del reddito è quella che rende massimo il benessere sociale.
Perché lo sviluppo porti a un maggior benessere sarebbe dunque necessario che la crescita del reddito si accompagnasse a una diminuzione della diseguaglianza, ma già l'autore che aveva posto i fondamenti teorici di questa tesi metteva in luce i limiti di una sua attuazione nella pratica, rilevando che una redistribuzione egualitaria del reddito poteva ridurre il reddito potenziale in misura tale da andare a danno anziché a vantaggio del benessere (v. Pigou, 1951). Il problema dei rapporti tra crescita e distribuzione del reddito è quindi un tema centrale dell'economia dello sviluppo.
Gli economisti che considerano l'accumulazione del capitale come il fattore determinante della crescita tendono a trascurare gli aspetti distributivi dello sviluppo, in quanto ritengono prioritario l'aumento del risparmio che può derivare essenzialmente da una accresciuta quota del profitto sul reddito nazionale. L'esempio più chiaro di questa impostazione è il già citato modello dualistico di Lewis (v. § 3a) nel quale la crescita è consentita dal fatto che l'offerta illimitata di lavoro mantiene i salari di poco al di sopra del minimo di sussistenza, mentre l'accresciuta produttività determina elevati margini di profitto reinvestiti dagli imprenditori. Poiché una distribuzione funzionale del reddito più favorevole al capitale e meno al lavoro si accompagnerà a una distribuzione interpersonale più diseguale, sembrerebbe che la diseguaglianza sia una condizione favorevole alla crescita. Il corollario di questa tesi era che i lavoratori e, in genere, gli strati della popolazione più poveri avrebbero potuto, ma solo in un secondo momento, godere anch'essi dei benefici dello sviluppo, che si sarebbero inevitabilmente diffusi, per l'operare di vari meccanismi, su tutta la società (v. Cline, 1975; v. Adelman, 1979).
Era questa un'idea che sembrava trovare conferma sul piano storico dalle indagini di Simon Kuznets (v., 1963) il quale, confrontando paesi che si trovavano in diverse fasi di sviluppo e derivandone, mediante un'analisi cross-section, una curva che metteva in relazione reddito pro capite e indice della dispersione del reddito, rilevava come questa avesse un andamento a U rovesciata, mostrando un'accentuazione della diseguaglianza in un primo tratto e una attenuazione in un secondo, dopo che il reddito pro capite aveva raggiunto un livello piuttosto elevato. Questi risultati appaiono spiegabili e plausibili quando si pensi al passaggio di un paese da un'economia agricola prevalentemente di sussistenza e a bassa produttività a una struttura più articolata e differenziata. La produttività del lavoro e la sua retribuzione saranno maggiori nell'agricoltura commerciale che in quella di sussistenza e nel nascente settore industriale rispetto a quello agricolo, determinando differenziazioni nel reddito degli addetti ai diversi settori, e all'interno dello stesso settore, per l'accresciuta disomogeneità del lavoro. La trasformazione strutturale determinerà un aumento del sovrappiù rispetto alla situazione precedente, e quindi si presenterà per alcuni componenti e strati della società la possibilità di risparmiare e investire una parte dei profitti e delle rendite, determinando una concentrazione della ricchezza che comporterà, a sua volta, una ulteriore dispersione dei redditi. Inoltre, la stratificazione sociale conseguente a questi processi attribuirà a classi o ceti diversi un diverso peso politico, assicurando ad alcuni una maggior tutela o una più rilevante forza contrattuale, mentre le istituzioni tradizionali della famiglia allargata, del villaggio, del clan, che svolgevano una funzione redistributiva, entreranno in crisi, almeno parzialmente, lasciando indifesi gli strati più deboli della popolazione (v. Kravis, 1960; v. Adelman e Robinson, 1989).
Se, dunque, una maggiore diseguaglianza può essere un effetto della crescita, almeno per una prima fase dello sviluppo, da ciò non si può dedurre che essa ne rappresenti una condizione favorevole o tanto meno necessaria, cosa che, del resto, Kuznets non ha mai sostenuto. Inoltre, alcune ricerche successive, confrontando paesi a un livello di sviluppo simile e verificando il grado di correlazione tra distribuzione del reddito e variabili diverse dal prodotto pro capite, hanno mostrato che alcune caratteristiche strutturali e il livello di istruzione dei paesi considerati hanno una maggiore capacità esplicativa delle differenze distributive di quanta non ne abbia il livello del reddito (v. Fields, 1980). Se questi risultati sono attendibili, se ne può trarre la conclusione che una maggiore diseguaglianza, più che un effetto della crescita, è una conseguenza del tipo di sviluppo o, più precisamente, che le tendenze all'accentuazione delle differenziazioni della ricchezza e dei redditi, conseguente alla trasformazione strutturale di un paese, possono essere più o meno compensate da appropriate scelte di allocazione delle risorse. A questo proposito una tesi interessante è quella svolta dall'economista Irma Adelman (v., 1979). L'autrice sostiene che nel passato, quando un determinato fattore della produzione (la terra, il capitale fisico, quello finanziario, quello umano) è diventato il 'fattore critico' dello sviluppo, la sua produttività è aumentata con vantaggio per i pochi individui che ne disponevano e a svantaggio di altri: di conseguenza la distribuzione del reddito è diventata più diseguale e solo in un secondo tempo, generalmente dopo due o tre generazioni, una serie di aggiustamenti ha portato a una distribuzione più egualitaria dei fattori produttivi e quindi del reddito. Una redistribuzione dei fattori strategici, prima che inizi il processo di sviluppo, determinerebbe un processo di crescita con una distribuzione migliore del reddito in tempi più rapidi e con minori sofferenze per una parte della popolazione. Nei paesi in via di sviluppo questo risultato potrebbe essere ottenuto se la terra venisse distribuita ai coltivatori prima dell'introduzione di tecniche che ne aumentano la produttività e se un vasto programma di istruzione e formazione precedesse l'inizio dell'industrializzazione.
Se il rapporto tra distribuzione del reddito e crescita non è definibile e misurabile con sicurezza, si può arrivare alla conclusione che una distribuzione più egualitaria - o che, quanto meno, permetta di vincere mali sociali come la miseria e la fame - è di per sé desiderabile indipendentemente dai suoi effetti sulla crescita (v. Cline, 1991). A favore della tesi che una riduzione della diseguaglianza, oltre a essere un obiettivo meritevole in se stesso, possa essere anche una condizione che aiuta la crescita, vi sono tuttavia alcuni argomenti ai quali la teoria che attribuiva un ruolo centrale all'accumulazione del capitale fisico, considerandolo la forza trainante dello sviluppo, non dava sufficiente importanza. Il primo riguarda il problema della domanda e dell'ampiezza del mercato interno, più volte richiamato (v. § 3a). In un'economia dove gran parte della popolazione vive a livelli di sussistenza o in condizioni di povertà, gli stimoli all'investimento e all'innovazione e, quindi, i presupposti della crescita della produzione saranno scarsi. Si può, al proposito, ricordare nuovamente come alcuni storici indichino tra le condizioni che hanno prodotto la prima rivoluzione industriale in Inghilterra, anziché nel continente, i maggiori redditi e, quindi, la maggior capacità di consumo delle popolazioni rurali in quel paese (v. Landes, 1969).
Il secondo argomento riguarda il ruolo del capitale umano. Abbiamo visto che la soddisfazione dei bisogni essenziali e il possesso di conoscenze e abilità accrescono la produttività del lavoro, offrono maggiori possibilità di evoluzione alle piccole imprese, facilitano l'apprendimento di nuove tecniche, favoriscono il contenimento della crescita demografica. Tutto ciò è possibile se l'alimentazione è sufficiente, i servizi igienici e sanitari accessibili, l'istruzione diffusa, e richiede, quindi, che i redditi degli individui e delle famiglie siano abbastanza alti da consentire di acquistare quei beni e servizi o siano integrati, in termini monetari o reali, da una redistribuzione delle risorse da parte dello Stato.
Se lo sviluppo economico consiste nella crescita del prodotto nazionale e nella trasformazione strutturale di un paese, la sua misurazione dovrebbe coincidere con la misurazione di questi due fenomeni. Di fatto gli economisti, quando studiano gli andamenti di lungo periodo di un'economia e, in particolare, i processi attraverso i quali un paese passa da una situazione definibile di sottosviluppo a un'altra che lo caratterizza come in via di sviluppo o sviluppato, prendono in considerazione, insieme al dato delle variazioni del prodotto nazionale, totale e pro capite, indici relativi alla sua industrializzazione (come la quota di prodotto attribuibile alle attività di trasformazione e la quota della popolazione in esse occupata), alla composizione delle sue esportazioni (come il rapporto tra quella di prodotti primari e quella di manufatti) e altre grandezze significative per definirne la struttura produttiva e le sue trasformazioni. Tuttavia, poiché i cambiamenti della struttura economica sono un aspetto dello sviluppo in quanto aumentano la produttività del lavoro, ampliano la base produttiva e quindi, in definitiva, accrescono la produzione, la grandezza comunemente usata per misurare lo sviluppo è il prodotto nazionale lordo. Un paese è considerato tanto più sviluppato quanto più alto è il suo prodotto pro capite, e il tasso di crescita del prodotto, confrontato con quello di crescita della popolazione, indica il ritmo del suo sviluppo, cioè la maggiore o minore capacità del paese di mantenere o accrescere il reddito disponibile per ogni suo abitante.L'uso di questi indici presenta, tuttavia, una serie di difficoltà e di problemi di ordine statistico ed economico.
Dal punto di vista statistico, i problemi sono quelli, ben noti, che riguardano il calcolo del prodotto nazionale e in particolare il fatto che questa grandezza è la somma dei beni e servizi prodotti nell'anno, valutati ai prezzi di mercato, e accertati in base ad apposite procedure di rilevazione. La parte di produzione che non passa per il mercato o che sfugge alle rilevazioni non può, quindi, essere misurata e deve essere oggetto di stime. Le difficoltà nascono soprattutto quando si considerano e si confrontano paesi diversi, con diverse strutture economiche, politiche e amministrative e con istituti statistici di diversa efficienza e affidabilità. Sappiamo, ad esempio, che nelle economie agricole poco sviluppate è molto esteso il settore che produce per l'autoconsumo e non per il mercato, che le attività dette informali o sommerse, le quali più facilmente sfuggono alla rilevazione statistica, sono presenti in misura diversa nei vari paesi, che esistono situazioni nelle quali la pubblica amministrazione ha un controllo parziale del territorio e dove le statistiche economiche e i censimenti della popolazione sono poco affidabili.Inoltre, per confrontare diversi prodotti nazionali, calcolati in ciascun paese nella moneta locale, occorre tradurli in una sola unità monetaria, cosa che si fa normalmente esprimendoli in dollari degli Stati Uniti in base al tasso di cambio tra le due valute. Il tasso di cambio ufficiale, tuttavia, è spesso sottovalutato o sopravvalutato rispetto a quello che si avrebbe in condizioni di libero mercato e talora oscilla bruscamente, cosicché il prodotto nazionale del paese che ha svalutato o rivalutato la propria moneta può mostrare una diminuzione o un aumento che non riflettono variazioni della produzione reale. In ogni caso, anche quando il tasso di cambio è determinato dal mercato, esso dipende dalla domanda e offerta di moneta connesse agli scambi di merci con il resto del mondo e ai flussi finanziari internazionali, e non tiene conto dei beni e servizi che non sono commerciati internazionalmente, ma che hanno un peso rilevante per il consumatore. Di conseguenza, il reddito pro capite di un paese espresso in dollari americani non riflette il reale potere d'acquisto dei suoi abitanti. In particolare, in paesi dove buona parte dei consumatori acquistano beni e servizi prodotti e commerciati localmente a costi e prezzi molto più bassi di quelli degli stessi beni e servizi prodotti nei paesi più sviluppati, il dollaro americano acquista una quota del prodotto nazionale molto maggiore di quella che potrebbe acquistare in questi ultimi.
Ormai da tempo, quindi, per evitare una immagine distorta del grado di sviluppo e della sua divergenza tra paesi diversi, in molte statistiche internazionali, accanto a quelli espressi in dollari degli Stati Uniti, vengono pubblicati i dati del prodotto nazionale calcolati in base a una unità di valore, convenzionale, chiamata 'dollaro a pari potere d'acquisto' che tiene conto delle diverse strutture dei prezzi interni e corrisponde alla stessa quota del prodotto nazionale per ogni paese.Il principale problema posto dall'indice del prodotto nazionale pro capite è tuttavia quello del suo significato economico, ossia della sua adeguatezza a rappresentare il livello di sviluppo economico di un paese. Questo problema rimanda a quello, più generale, della definizione stessa dello sviluppo. Come abbiamo visto, infatti, è stato osservato che lo sviluppo ha un senso solo se la crescita e la trasformazione strutturale portano a un aumento del benessere sociale, comunque questo venga definito (v. cap. 6). Un'ovvia critica all'indice del prodotto nazionale pro capite nasce quindi dal fatto che esso, per sua natura, non può dar conto di come il reddito è distribuito, e cioè di un aspetto della struttura economica e sociale di un paese rilevante per valutare il livello di benessere della sua popolazione (v. Marrama, 1958). Più in generale, si può sostenere che il rilievo attribuito dagli economisti alla crescita della produzione ha portato a considerare questa come un fine, anziché come un mezzo, importante ma non esclusivo, per migliorare le condizioni di vita di un paese, ignorando il ruolo di altre variabili (v. Sen, 1983). Se, ad esempio, si assume l'aspettativa di vita alla nascita come un indicatore delle condizioni economiche e sociali, si può notare che essa varia sensibilmente in paesi con lo stesso livello di reddito pro capite ed è più alta in alcuni paesi poveri rispetto a quella di paesi molto più ricchi. D'altra parte, ciò che permette di rendere più lunga la vita, ossia una nutrizione adeguata, accessibilità alle cure mediche, diffusione dell'igiene, è anche ciò che migliora la qualità della vita (v. Sen, 1988).
Queste considerazioni hanno spinto le organizzazioni internazionali a perfezionare le loro rilevazioni, estendendole ad aspetti demografici, sociali ed economici ritenuti rilevanti per la misurazione del grado di sviluppo di un paese, aggiungendo nelle loro statistiche al dato del prodotto nazionale pro capite altri indicatori, quali l'aspettativa di vita alla nascita, l'alfabetizzazione, le condizioni nutrizionali, l'offerta di servizi sanitari. Più recentemente le Nazioni Unite hanno elaborato un indicatore sintetico, chiamato indice dello sviluppo umano (HDI) ottenuto combinando, attraverso varie operazioni di omogeneizzazione e ponderazione, tre diverse componenti: l'aspettativa di vita, il livello di istruzione, il reddito pro capite valutato in termini di pari potere d'acquisto (v. United Nations Development Program, 1997). Confrontando la classificazione dei paesi in base al tradizionale indice del prodotto nazionale pro capite e quella ottenuta ordinandoli secondo l'indice dello sviluppo umano, si può facilmente rilevare come le due graduatorie così ottenute differiscano sensibilmente. Se, dunque, si pensa che lo sviluppo sia un risultato desiderabile dell'azione degli uomini in quanto ne migliora le condizioni di vita, si deve concludere che esso non dipende soltanto dall'ammontare e dalla crescita delle risorse e da quanto si produce, ma da come le risorse vengono impiegate, da ciò che si produce e da quanti possono disporre dei beni e dei servizi prodotti. (V. anche Agricoltura; Cicli economici; Cooperazione economica internazionale; Disoccupazione; Imprenditori; Incentivi economici; Industria; Industrializzazione; Infrastrutture; Innovazioni tecnologiche e organizzative; Modernizzazione; Occupazione; Produttività; Sottosviluppo; Terziario, settore).
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