SVILUPPO ECONOMICO.
– Evoluzione del concetto di sviluppo, modelli e indicatori. Estensione del la sostenibilità dello sviluppo. Bibliografia. Webgrafia
Nella letteratura economica, i punti di vista fondamentali da cui partire per analizzare i processi di sviluppo di un sistema economico sono sostanzialmente due. Uno tende a individuare gli aspetti comuni ai diversi sistemi con l’obiettivo di derivare indicazioni utili da quelli più avanzati a favore di quelli meno avanzati. L’altro, invece, si concentra sulle specificità dei diversi sistemi economici (qualunque sia la loro scala dimensionale) per individuare quelle che potrebbero consentire un’accelerazione del passo dello sviluppo. In generale, i modelli che si rifanno all’uno o all’altro di questi punti di vista utilizzano come misuratore dello s. e. il tasso di variazione del PIL (v.), eventualmente pro capite, in modo esclusivo o prevalente.
Tuttavia, con sempre maggiore frequenza si pone in discussione che il PIL pro capite possa rappresentare un indicatore esaustivo dello s. e., anche limitandosi agli aspetti quantitativi: per es., questo indice prescinde completamente dalla distribuzione del reddito; nel 2013 il PIL pro capite globale (PPP, Purchasing Power Parity) ammontava a 13.100 dollari (www.indexmundi.com), ma questo dato nasconde una distribuzione del reddito molto squilibrata, con il 10% più povero della popolazione che ne riceve solo il 2,8% contro il 28,2% del 10% più ricco (CIA). Ciò significa che basta disporre di questo reddito annuo per trovarsi nella metà più ricca della popolazione mondiale. Anche in termini di tasso di crescita, il PIL si limita a misurare la velocità dello sviluppo, ma non dà indicazioni sulle cause. Sempre a titolo di esempio, il PIL mondiale è cresciuto costantemente dal 2000 a oggi, (con l’unica eccezione del 2009), ma è lecito chiedersi quanto questi valori siano condizionati dal peso della Cina, il cui PIL è cresciuto a tassi anche a doppia cifra per il periodo considerato.
Evoluzione del concetto di sviluppo, modelli e indicatori. – Per capire bene l’importanza della scelta degli indicatori di sviluppo e la loro connessione con i modelli adottati per la qualificazione dello sviluppo stesso, bisogna risalire brevemente agli anni Ottanta del 20° secolo. In quegli anni, il modello prevalente diventa quello della crescita endogena, che nega la possibilità di una convergenza dei Paesi meno sviluppati verso quelli più sviluppati: il capitale umano si qualifica sulla base del livello di progresso tecnico raggiunto e alimenta la crescita. Chi parte da livelli più bassi è destinato perciò a restare più in basso. Interventi finalizzati a forzare il passo della crescita sono destinati a risultare inutili, se non dannosi, in quanto suscettibili di ridursi a uno spreco di risorse. Con i processi di globalizzazione in rigoglioso avvio, la proposta che ne discende è allora quella di spingere i Paesi meno sviluppati a diventare ‘buoni concorrenti’ nello scenario internazionale, così da giovarsi della partecipazione agli scambi per elevare il proprio livello tecnologico e valorizzare il capitale umano. Per conseguire questo obiettivo, l’economista John Williamson nel 1989 individuò l’insieme di misure che sono state indicate in letteratura con il termine Washington consensus, e che possono essere sintetizzate come segue: stabilizzazione macroeconomica, liberalizzazione (commerciale, degli investimenti dall’estero, finanziaria), privatizzazione e deregolazione. Questo approccio allo sviluppo ebbe un’influenza enorme, anche perché fu adottato dai principali organismi internazionali votati all’economia e alla finanza: OECD (Organisation for Economic Co-operationand Development), Fondo monetario internazionale e, almeno inizialmente, Banca mondiale. Ciò ha comportato che soltanto i Paesi che si fossero adeguati ai criteri del Washington consensus avrebbero potuto sperare di ricevere aiuti da questi organismi. Basti pensare ai Paesi dell’Europa orientale, che proprio in quegli anni si affacciavano all’economia di mercato; ma la ricetta è valsa per tutti. Caratteristica dell’approccio è infatti quella di considerare lo sviluppo come un processo univoco e indifferenziato, da misurarsi in termini meramente quantitativi, indipendentemente dagli aspetti geografici, storici e culturali. Molti anni dopo, lo stesso Williamson ha ribadito i criteri del Washington consensus, dichiarandosi ‘pentito’ solo relativamente alla liberalizzazione finanziaria e, concordando con le critiche rivoltegli in questo ambito da Joseph Stiglitz (2002), ha ammesso che ci sarebbe bisogno di una «supervisione prudenziale» per evitare di incorrere «inesorabilmente» in crisi finanziarie (Williamson 2004, p. 5). Considerando la crisi che si è innescata tre anni dopo, Williamson ha forse sottovalutato gli effetti della diffusione del modello interpretato dai criteri del Washington consensus.
Negli stessi anni dell’affermazione del Washington consensus, il concetto di sviluppo si andava peraltro arricchendo di ulteriori, diverse qualificazioni. La prima fu quella di sostenibile, introdotta nel cosiddetto rapporto Brundtland (1987), dal nome della presidente della World committee on environment and development: «lo sviluppo sostenibile è uno sviluppo che soddisfi i bisogni del presente senza compromettere le possibilità delle generazioni future di soddisfare i propri». Questa prima accezione, incentrata sulla sola sostenibilità ambientale, implica due importanti conseguenze per i Paesi in debito di sviluppo: non possono essere ripercorse le modalità di crescita dei Paesi di più antica industrializzazione, largamente dissipa trici di risorse non rinnovabili; inoltre, il vincolo ambientale costituisce un freno all’uso di processi o agenti verificati come inquinanti. Si avviava una riflessione sul concetto stesso di sviluppo e, prima di tutto, se sia accettabile misurarlo in termini di crescita del PIL, ovvero della quantità di beni e servizi prodotti e scambiati, che porterebbe a un uso indiscriminato delle risorse del pianeta: si moltiplicarono le obiezioni al-l’applicazione acritica del modello occidentale di sviluppo, in linea con quanto teorizzato dal bioeconomista Nicholas Georgescu Roegen già all’inizio degli anni Settanta, che si era esercitato ad applicare il secondo principio della termodinamica ai sistemi economici. In generale, per una comprensione della natura dello sviluppo e delle sue articolazioni e implicazioni, nel presente come nel futuro, si sviluppò una contaminazione dell’economia con altre discipline: la storia economica, l’antropologia, l’etnologia, la sociologia, ma anche la biologia, la fisica e la chimica.
Estensione della sostenibilità dello sviluppo. – Sulla base di una ricostruzione essenzialmente storico-antropologica, per es., alcuni ritengono che l’imposizione del modello occidentale abbia addirittura danneggiato le possibilità di sviluppo autonomo dei Paesi poveri. Tra questi William Easterly (2001), il quale inizia la sua ricerca argomentando che il problema dei Paesi poveri è quello di vedersi imposto un modello economico (quello dominante in Occidente) che non tiene in alcun conto le specificità locali: i risultati scarsi, o anche negativi, di aiuti concessi in subordine all’applicazione di quel modello si spiegherebbero con il fatto che gli individui non reagiscono a incentivi estranei alla loro cultura. Ciò sarebbe confermato anche dai diversi effetti della colonizzazione europea in diversi Paesi in termini di perdurante sviluppo, che dipenderebbero da quali e quante condizioni favorevoli al trasferimento di capitale sociale (bassa densità demografica dei nativi, originaria o indotta dalla diffusione di malattie portate dai colonizzatori; condizioni climatiche) gli europei hanno trovato localmente (Easterly, Levine 2012). Anche un esame dei percorsi di sviluppo nel lungo periodo confermerebbe quindi il ruolo fondamentale dell’interazione con le specificità locali.
La derivazione più radicale da considerazioni sulla sostenibilità dello sviluppo è quella che si può trovare nella cosiddetta teoria della decrescita, dove si nega che lo sviluppo, in quanto crescita appunto, possa mai risultare sostenibile, rispetto alle risorse necessarie per alimentarlo. Anche il progresso tecnico orientato a processi caratterizzati da minore impatto ambientale viene considerato negativamente, perché indurrebbe un effetto rebound, un rimbalzo sull’accelerazione dei consumi provocata da un’artificiosa obsolescenza dei prodotti. Secondo il più noto esponente di questa corrente di pensiero, Serge Latouche (2007) è l’idea di sviluppo associata all’homo oeconomicus a essere ‘tossica’: essendo basata su un approccio produttivistico, sacrifica tutto quello che ha valore per accrescere il benessere umano. Latouche propone un programma politico-filosofico basato su una profonda riclassificazione di valori, metodi e obiettivi dell’azione economica, che metta al centro l’uomo, i suoi bisogni e le sue relazioni, a partire da quella fondamentale con l’ambiente in cui vive.
Questo tipo di messaggio è ovviamente rivolto principalmente alle società avanzate, considerate dissipatrici di risorse, dove ha trovato un certo accoglimento, essendo stato per certi versi considerato profetico della grave crisi internazionale avviatasi nel 2007.
Tuttavia, già da tempo la misurazione dello sviluppo era stata orientata a una valutazione del benessere e delle condizioni che possano sostenerlo. Nel 1990 l’UNDP ha adottato l’Indice di sviluppo umano (HDI, Human Development Index), con l’intento di fornire un indicatore in grado di orientare opportunamente anche le politiche pubbliche. L’indice è una misura sintetica del livello medio raggiunto in tre aspetti chiave dello sviluppo umano: l’aspettativa di vita alla nascita, il grado di scolarizzazione, il reddito pro capite. A esso si affiancano altri indici, come l’Indice di sviluppo umano aggiustato per la disuguaglianza (IHDI, In equality-adjusted Human Development Index), che misura lo scostamento dal grado di sviluppo umano raggiunto dovuto a una distribuzione delle risorse non equa (se la distribuzione fosse perfettamente equa, HDI e IHDI coinciderebbero). Nel 2013 lo scostamento globale medio, ovvero la perdita di sviluppo umano causata dalla disuguaglianza, era del 22,9%, spaziando da un minimo del 5,5% della Finlandia a un massimo del 44% dell’Angola.
L’HDI è stato costruito da due economisti, il pakistano Mahbub ul Haq e l’indiano Amartya Sen, che, più o meno in contemporanea alla codificazione del Washington consensus, hanno orientato la loro ricerca verso la definizione di un modello capace di estendere la sostenibilità dello sviluppo anche all’ambito sociale ed economico, oltre che a quel lo ambientale. È stato in particolare Sen a sviluppare il capability approach: un approccio metodologico, appunto, filosofico-sociale, ma in grado di produrre anche indicazioni quantitative del grado di sviluppo umano conseguito e, quindi, di rendere possibile la comparazione tra le situazioni di più individui o gruppi sociali o interi Paesi. I concetti centrali dell’approccio sono quelli di ‘funzionamenti’ (functionings) – ovvero stati della persona, come essere ben nutrito o malnutrito, essere diplomato o analfabeta, essere in buona o in cattiva salute ecc., o attività, come viaggiare, prendere parte a un dibattito pubblico, votare, prendersi cura di un figlio ecc. – e di capacità (capabilities), ossia l’effettiva possibilità che ha una persona di scegliere le funzioni che desidera acquisire o praticare. È evidente che le funzioni desiderabili e, soprattutto, le opportunità concrete di realizzarle sono condizionate dal contesto socioeconomico e culturale in cui un individuo si trova a vivere: tanto più saranno grandi i vincoli e gli ostacoli derivanti dal contesto nel concretizzare le capabilities, tanto più basso sarà il grado di sviluppo conseguibile dagli individui e dai gruppi sociali che ci vivono. Sen enfatizza la relazione tra libertà e sviluppo: «la povertà è una causa di non-libertà (unfreedom) non solo per le limitazioni che comporta all’acquisizione di stati desiderabili, ma anche perché rende le persone vulnerabili alla coercizione e alla sottomissione» (Sen 1999). La povertà è perciò causa di profonde ingiustizie e di ulteriori limitazioni alle capabilities.
La principale caratteristica positiva del capability approach, e cioè la sua generalità che lo rende adattabile e applicabile a contesti diversi (per es., sia a Paesi avanzati sia a Paesi poveri), è stata anche la fonte delle principali critiche: in particolare, il fatto che le capacità, la loro ampiezza e il loro numero possono differire anche per ragioni culturali e un loro cambiamento implica un giudizio di valore sul sistema etico di un individuo o di un gruppo sociale. Martha Nussbaum (2000) ha ritenuto di poter individuare una serie di capacità essenziali per le funzioni umane, da lei considerate accettabili come nucleo morale condiviso di ogni possibile contesto culturale, tra cui: vita; salute fisica; integrità fisica; sensi, immaginazione e pensiero; emozioni; ragion pratica; unione e relazioni; gioco; controllo sul proprio ambiente, politico e materiale. Sen ritiene invece che la ridiscussione dei valori fondanti, qualora fossero valutati come ostativi di capacità, è parte della dinamica dei gruppi sociali e della loro evoluzione culturale.
Dalla formulazione originale, il capability approach ha comunque stimolato un’ampia discussione, diventando il principale paradigma di riferimento per la promozione dello sviluppo in alternativa ai modelli economici tradizionali. Quello che appare acquisito, alla luce di questa impostazione, è che un approccio multidisciplinare consente di trattare più propriamente la complessa materia dello sviluppo e, in ultima analisi, di ottenere risultati migliori (e più sostenibili, sotto ogni punto di vista) anche là dove si intervenga avendo come obiettivo primario la crescita economica.
Il riferimento alla concezione di uno sviluppo umano e sostenibile ha influenzato anche la Millennium declaration adottata dall’Assemblea generale dell’ONU l’8 settembre del 2000, a partire dall’indicazione dei principi e dei valori da porre alla base delle relazioni internazionali nel 21° sec.: libertà, uguaglianza, solidarietà, tolleranza, rispetto della natura, condivisione di responsabilità. Dai termini generali della dichiarazione è discesa l’individuazione dei Millennium development goals, ossia otto obiettivi di sviluppo da perseguire principalmente attraverso i fondi per la cooperazione stanziati dai Paesi più ricchi (con il 2015 come termine dato per la verifica di quanto conseguito). Gli obiettivi assunti sono: sradicare la fame e la povertà estrema; rendere universale l’istruzione primaria; promuovere la parità di genere e l’autonomia delle donne; ridurre la mortalità infantile; migliorare la salute delle gestanti; combattere l’AIDS, la malaria e altre malattie; garantire la sostenibilità ambientale; promuovere un partenariato globale per lo sviluppo. Il conseguimento degli obiettivi è stato molto diversificato, anche geograficamente, e certamente ostacolato dall’insorgere della crisi internazionale nel 2007: il tasso di incidenza della povertà estrema è stato dimezzato e sono stati ottenuti risultati positivi nella lotta all’AIDS e nella diffusione dell’educazione primaria; mentre molto resta da fare in altri campi, a partire dalla salute delle gestanti e dalla mortalità infantile.
Bibliografia: A.K. Sen, Development as freedom, New York 1999; M.C. Nussbaum, Women and human development: the cap ability approach, New York 2000; W. Easterly, The elusive quest of growth: economists’ adventures and misadventures in the tropics,Cambridge (Mass.) 2001; J. Stiglitz, Globalization and its discontents, London 2002; S. Latouche, Petit traité de la décroissance sereine, Paris 2007 (trad. it. Torino 2008).
Webgrafia: J. Williamson, A short history of the Washington consensus, CIDOB Conference from the Washington Consensus towards a new global governance, Barcelona 2004, http://www.iie.com/publications/papers/williamson0904-2.pdf (23 settembre 2015); W. Easterly, R. Levine, The European origins of economic development, National Bureau of economic research working paper, 18162, 2012, http://www.nber.org/papers/w18162(23 settembre 2015). Si vedano inoltre: CIA (Central Intelligence Agency), The world factbook, https://www.cia.gov/library/publications/resources/the-world-factbook/geos/xx.html; Indexmun di, World GDP - per capita (PPP), http://www.indexmundi.com/world/gdp_per_capita_%28ppp%29.html.