Sviluppo sostenibile
(App. V, v, p. 371)
Negli anni Novanta del Novecento la discussione e le numerose definizioni di s. s. (che attualmente si preferisce indicare come sostenibilità), spesso in contrasto l'una con l'altra, hanno messo in evidenza due approcci che differiscono tra loro profondamente in quanto impostati su ideologie ambientali opposte: possiamo parlare, infatti, di sostenibilità debole e di sostenibilità forte a seconda se si parta rispettivamente da un punto di vista tecnocentrico o ecocentrico.
Secondo il punto di vista tecnocentrico il concetto di sostenibilità non aggiunge molto di nuovo alle teorie di politica economica tradizionalmente consolidate: nel lungo periodo il mantenimento delle strategie di sviluppo economico sostenibili dipende da un adeguato livello di spesa per gli investimenti. In questo caso, però, gli investimenti in capitale naturale, seppure non irrilevanti, non rivestono un'importanza fondamentale.
In linea generale, se il concetto di sostenibilità passa attraverso il trasferimento di generazione in generazione di lasciti di capitale che possano garantire alle generazioni future uno stock di capitale non inferiore a quello attualmente presente, nel caso della sostenibilità debole l'assunto di principio è la sostituibilità perfetta fra le diverse forme di capitale. È cioè possibile lasciare una quantità inferiore di ambiente naturale compensando tale perdita con l'aumento della quantità di strade, macchinari o altro capitale fisico prodotto dall'uomo. La compensazione potrebbe comunque prevedere una maggiore quantità di boschi, zone umide o un più elevato tasso di istruzione al posto di manufatti tecnologici. In questo modo è possibile il trasferimento alle generazioni future di uno stock di capitale aggregato non inferiore a quello presente, secondo la regola del capitale costante a sostenibilità debole.
Il punto di vista ecocentrico, sebbene alquanto diversificato, parte dal presupposto che lo sviluppo debba essere limitato o comunque rallentato, ma per taluni risulta inaccettabile anche una politica di sviluppo 'modificato', basato sull'utilizzazione sostenibile di beni naturali.
Comunque, l'assunto di principio della sostenibilità forte è che non esiste una sostituibilità perfetta tra le diverse forme di capitale: certi elementi di capitale naturale non possono essere sostituiti con capitale costruito dall'uomo.
Alcune funzioni ecosistemiche, come per es. i cicli biogeochimici, sono essenziali per il mantenimento della vita e non possono essere sostituite, come altre caratteristiche dei sistemi viventi, quali la diversità di specie o la variabilità genetica. Altri beni ecologici, quali per es. il paesaggio o lo spazio, sono essenziali per la sopravvivenza e/o il benessere dell'uomo e costituiscono il capitale naturale critico, che, non essendo parzialmente o totalmente sostituibile, deve essere tutelato come tale (Turner, Pearce, Bateman 1994).
Il progetto per un'economia verde, come è stato denominato da taluni, è l'affermazione della possibilità, ma anche della necessità, che la teoria economica offra alla tutela ambientale una difesa più efficace di quanto non sia possibile con i sistemi tradizionali. È ormai evidente che gli obiettivi di crescita illimitata non sono riusciti a eliminare la disoccupazione, l'esclusione sociale e la povertà: infatti, la crescita economica sempre più spinta non ha ridotto i divari tra le classi sociali e non ha migliorato la qualità della vita, né nei paesi più arretrati economicamente né in quelli che si definiscono opulenti. Ciononostante, non si è ancora fatta strada una univoca modalità di sviluppo che sia attenta ai bisogni delle generazioni future, oltre che a quelli delle generazioni presenti.
Un punto di partenza importante per questa impostazione è stata la Conferenza delle Nazioni Unite sull'ambiente e lo sviluppo, tenutasi a Rio de Janeiro nel 1992. In tale sede è stata stilata una dichiarazione che, richiamandosi ai principi della Dichiarazione sull'ambiente di Stoccolma del 1972, ha sancito la necessità di una cooperazione tra tutti gli Stati della Terra per rendere concreti gli accordi internazionali che, pur rispettando gli interessi di tutti, siano in grado di tutelare l'integrità del sistema globale dell'ambiente, pure nell'ambito di processi di sviluppo. Questa dichiarazione pone come questione centrale la necessità di uno s. s., cioè pone come questioni prioritarie il diritto di tutti di soddisfare equamente le proprie esigenze di sviluppo, nelle generazioni presenti e future, e il dovere di tutela dell'ambiente che dovrà essere parte integrante e non scindibile dello sviluppo (v. anche ambiente, in questa Appendice). Il primo punto prevede la promozione di un sistema economico internazionale aperto e favorevole a una crescita economica e a uno s. s. in tutti i paesi; il secondo punto, di protezione dell'ambiente, prevede interventi a tutti i possibili livelli: dagli scambi e dalla cooperazione scientifica, per promuovere e diffondere tecnologie sostenibili, all'informazione, che renda partecipi e sensibilizzati tutti i cittadini; dai diritti nazionali, che sviluppino legislazioni in materia di responsabilità per i danni da inquinamento, alla cooperazione per prevenire e scoraggiare il dislocamento o trasferimento di attività o sostanze dannose per l'ambiente.
Il criterio precauzionale è stato indicato come basilare: l'assenza di certezze scientifiche assolute, anche in casi di sola ipotesi di rischio di danno grave o irreversibile, non può dilazionare o essere pretesto per disattendere l'adozione di misure di prevenzione adeguate ed efficaci.
Nonostante la chiarezza delle linee di principio, il problema dell'attuazione di queste linee guida appare sempre più difficile: la difesa del mercato, la globalizzazione dell'economia, la società dell'informazione non sono facilmente compatibili con le necessità di crescita moderata imposte dallo s. s.; d'altra parte il mantenimento, ovvero l'ampliamento, del capitale naturale impone una riorganizzazione sociale e produttiva a livello mondiale che comporta costi elevati e riconversioni oggi difficilmente attuabili.
Questo tipo di problematiche impone scelte strategiche che in qualche modo possano rispondere al rischio tecnologico insito nell'impostazione delle società 'moderne'. Di base c'è la necessità di un radicale ripensamento della visione ottimistica dei processi di sviluppo: il modello di sviluppo va impostato a livello mondiale, viste le interconnessioni e le interdipendenze ecologiche ed economiche, e la sua articolazione deve coinvolgere sia il trasferimento di tecnologia sia quello di risorse finanziarie dai paesi più ricchi a quelli in via di sviluppo.
Oltre alle Convenzioni firmate a Rio, è stato stilato anche un Master Plan, un documento programmatico e operativo, l'Agenda 21, che, pur non contenendo obblighi giuridici, riflette il consenso globale dei 183 paesi che hanno partecipato alla Conferenza di Rio. L'Agenda 21 è fondata sul principio dell'integrazione tra ambiente e sviluppo, e si pone l'obiettivo di metterlo in pratica su di una serie di 'aree di programma' quali atmosfera, suoli, acque ma anche scienza, tecnologia e formazione. Per ogni area di programma vengono identificate le basi dell'azione, gli obiettivi da perseguire, le attività da realizzare e gli strumenti attuativi. Il preambolo del primo capitolo pone una questione determinante, cioè l'impossibilità per ciascun paese di attuare da solo lo s. s. necessario per garantire all'umanità la sopravvivenza; anzi, viene anche sottolineata l'importanza dell'intervento di organizzazioni non governative, gruppi o individui, assieme alla cooperazione internazionale e nazionale, per la realizzazione dei programmi d'azione. Inoltre, l'Agenda 21 non manca di ribadire la necessità improrogabile di risorse finanziarie, specie a favore dei paesi in via di sviluppo, per la realizzazione pratica degli obiettivi prefissati.
Tra i punti cruciali di questa Agenda vi sono gli ecosistemi fragili (deserti, zone semiaride, montagne, zone umide, isole e aree costiere): l'accento è posto sulle misure preventive che permettano di preservare la ricchezza di risorse naturali e biologiche di questi ecosistemi, pari alla loro vulnerabilità sia fisica sia sociale ed economica. Ma ancora importante è l'incremento di un'agricoltura e di uno sviluppo rurale sostenibili: essi avranno il compito di soddisfare il fabbisogno alimentare di una popolazione crescente su una disponibilità territoriale già scarsa. Il criterio dello s. s. deve informare le scelte per l'aumento di produttività e la diversificazione colturale, che dovranno basarsi sulla conservazione della terra e della sua fertilità e sul rispetto delle risorse genetiche locali e globali. Quest'ultimo punto, strettamente interconnesso con il generale mantenimento della biodiversità, trova concordi il protocollo di Rio e l'Agenda 21: il mantenimento della ricchezza biologica in tutte le sue forme (genetica, tassonomica, ecosistemica) è divenuto urgente per tutta l'umanità e la sua conservazione e valorizzazione (anche tramite biotecnologie: v. App. V, e in questa Appendice), in un ambito di utilizzo sostenibile, è diritto e dovere dei singoli Stati e può assicurare a tutti la giusta quota di profitti.
Da un'ottica scientifica è possibile identificare dei punti cruciali per le attività sostenibili: il primo è che le attività proposte debbano poter essere praticate per un tempo pressoché illimitato senza alterare le risorse naturali di base. Tali attività dovranno mantenere intatta o addirittura incrementare la biodiversità, cioè contribuire a un uso duraturo delle risorse, ma dovranno altresì coprire le necessità umane e promuovere l'integrazione tra ecosistemi antropizzati e non. Le attività dovranno avere un costo sempre minore in termini di materiali e di energia e dovranno porsi nella prospettiva dei sistemi chiusi di riutilizzo dei materiali: questo per diminuire al massimo l'emissione di scarti potenzialmente pericolosi a carico dei processi produttivi, dei prodotti stessi o nella fase di consumo. Tali attività potranno sicuramente fornire spunto per una crescita socioculturale ed economica locale meno competitiva, con riduzione della disoccupazione e più equa distribuzione degli utili. Dunque un miglioramento della qualità della vita.
Le questioni ambientali di maggiore gravità, legate allo sviluppo economico e demografico nelle varie aree del mondo, sono quelle dell'inquinamento di atmosfera, suoli e acque, della deforestazione, specie nelle zone tropicali, del 'riscaldamento' progressivo del pianeta Terra e della deplezione dello strato di ozono. Spesso tra loro interconnessi, questi problemi o sono stati rilevati di recente o, più semplicemente, hanno assunto di recente dimensioni tali da imporsi per la gravità delle possibili conseguenze.
L'inquinamento atmosferico è uno dei fenomeni che viene considerato critico perché ritenuto responsabile di danni alla salute umana non solo gravi a livello individuale ma anche rilevanti sul piano epidemiologico. Ciononostante, per es. le deposizioni acide, siano esse secche o umide (come le piogge acide, v. solforosa, anidride, App. V), conseguenti alle emissioni di ossidi di zolfo e azoto nell'atmosfera, costituiscono un fattore determinante del deterioramento di ecosistemi naturali e di attività produttive come pesca o agricoltura. Uno dei problemi di un tale tipo di inquinamento è che spesso le 'vittime' non si trovano nello stesso paese da cui viene emesso l'inquinamento. Questo rende ancora più difficile imputare un costo agli inquinatori: non esiste infatti un'autorità sovranazionale che determini i responsabili, che stabilisca la gravità dell'accaduto e decida gli interventi necessari. Non meno gravi sono gli effetti dell'inquinamento chimico di suoli e acque, che concorrono direttamente e indirettamente ad aggravare la situazione della salute umana e causano depauperamento sia degli ecosistemi naturali sia di quelli antropizzati.
La deforestazione (v. oltre), è un esempio emblematico di danno alla biodiversità, cioè alla ricchezza biologica in tutte le sue forme (genetica, tassonomica, ecosistemica) e del suo 'valore' anche in termini economici).
Il riscaldamento della Terra è un altro dei punti critici: si ritiene in parte associato all'incremento dei gas 'serra', cioè di quei gas (come CO₂, metano, NOx) che sono in grado di mantenere negli strati più bassi dell'atmosfera la radiazione termica riflessa dalla superficie terrestre. Le attività economiche hanno aumentato il tasso di emissione e, conseguentemente, la concentrazione di questi gas (principalmente di CO₂) nell'atmosfera, in grado di indurre un riscaldamento addizionale della superficie terrestre. Nel caso appena citato della CO₂, la deforestazione, o comunque la riduzione della superficie terrestre coperta da organismi autotrofi, ne riduce l'utilizzo consentendo ulteriormente l'aumento di concentrazione nell'atmosfera. Al centro di una serie di iniziative, tra cui quella del Comitato della Ecological Society of America detta Sustainable Biosphere Initiative, la misura, la velocità e la distribuzione sulla Terra di tale aumento sono avvolte da grande incertezza. Le conseguenze di un tale incremento dovrebbero essere di segno negativo ma potrebbero, in qualche caso, anche essere positive.
Altra problematica globale all'attenzione della comunità scientifica è la deplezione dello strato di ozono stratosferico, che è in grado di filtrare quantitativamente e qualitativamente la radiazione ultravioletta, bloccandone la porzione dannosa (UV-B) e permettendo il passaggio della porzione utile (UV-A). La deplezione dello strato di ozono stratosferico è stata correlata all'aumentare della concentrazione di clorofluorocarburi (CFC). Questi sono composti stabili, non infiammabili, non tossici, non corrosivi, che, per queste caratteristiche, sono stati ampiamente utilizzati per un gran numero di impieghi che vanno dalla refrigerazione all'uso come propellenti, dall'uso nella produzione di schiume a quello di solventi. La produzione e l'uso di CFC sono progressivamente diminuiti a partire dalla scoperta dell'effetto sullo strato di ozono: ciò è stato possibile grazie a una serie di rapidi interventi che hanno permesso di metterne l'uso sotto controllo. Nei protocolli stilati dalla comunità internazionale (a partire da quello di Montreal, entrato in vigore nel 1989) è stato previsto il bando totale di questi composti entro il 2005 nei paesi sviluppati, mentre è previsto un margine di tolleranza di 10 anni per i paesi in via di sviluppo, in attesa di tecnologie alternative alla completa sostituzione di CFC. La rapida risposta della comunità internazionale al problema CFC è stata principalmente dovuta alla consistente base scientifica relativa agli effetti della maggiore esposizione alla radiazione UV-B, responsabile dei due tipi di cancro della pelle: il melanoma e il carcinoma. Ciononostante i potenziali effetti sugli ecosistemi sembrano altrettanto gravi, riguardando la produttività primaria e la diversità e stabilità degli ecosistemi.
La deforestazione
La deforestazione, cioè il depauperamento del patrimonio forestale di una determinata area, è principalmente dovuta alla richiesta di terre per l'agricoltura, inclusa la coltivazione illegale di piante officinali che producono narcotici, e all'estrazione mineraria. È innescata da cause socioeconomiche quali la crescita demografica e lo sviluppo economico, da fattori fisici, come distribuzione geografica delle foreste, vicinanza a strade e a vie d'acqua, distanza dai centri urbani, fertilità dei suoli, ma anche da scelte di governo, per es. quelle relative all'agricoltura e alle foreste. Essa rappresenta una modificazione ambientale globale, di tipo cumulativo, in cui l'impatto è direttamente proporzionale all'ampiezza dei cambiamenti provocati. Tra gli effetti principali della deforestazione ci sono la perdita e la frammentazione dei biotopi, e la comparsa dell'effetto di confine: queste conseguenze si traducono, come nella stragrande maggioranza degli usi antropici delle risorse ecologiche, in una semplificazione degli ecosistemi e in una riduzione della biodiversità. Per contrastare tali effetti, in termini di contromisure si è passati da una posizione fondata quasi soltanto sulla separazione degli ecosistemi da proteggere - naturalmente includendo le specie e le risorse genetiche in essi contenute - dalla maggior parte delle attività umane (attraverso azioni quali: protezione di specifiche aree, divieto di raccolta di specie, istituzione di banche di semi ecc.), al riconoscimento del fatto che l'impatto antropico, come dimostrato nel caso dell'agricoltura, ha rappresentato e rappresenta un fattore importante del processo di selezione naturale su alcune componenti della biodiversità. Se si tiene conto del fatto che attualmente l'uomo manipola circa il 70% degli ecosistemi per produrre il 98% del proprio cibo e del legname, appare chiaro che il destino della biodiversità forestale dipenderà in larga misura da come le sue componenti verranno impiegate in maniera sostenibile e dal tipo di gestione capace di minimizzarne l'impatto negativo. Il nesso tra foreste e biodiversità è forte; d'altra parte pur essendo dotati di enorme biodiversità, gli ecosistemi forestali sono fragili e il loro funzionamento è largamente ignoto. Questo, ovviamente, ostacola oggi un uso razionale delle risorse forestali nell'ottica di uno sviluppo sostenibile.
È interessante osservare che nelle società tradizionali le pratiche di gestione delle foreste erano assai diversificate e capaci di mantenere elevati livelli di biodiversità. Alcune di quelle pratiche sono scomparse, ma altre sono ancora vigenti e possono essere utilmente impiegate nello sfruttamento ecocompatibile. Attività come le coltivazioni forestali-agricole, che combinano la coltivazione di alberi fornitori di cibo, fibre, medicine e di materiali da costruzione con i raccolti annuali, sono al centro dei sistemi tradizionali di gestione degli ecosistemi forestali. Nello Yucatan, per es., questi giardini arrivano a ricoprire il 10% delle aree forestali. Situazioni analoghe sono documentate in altre aree tropicali della Colombia, Amazzonia brasiliana, Indonesia, Malaysia. In tutti questi casi il mantenimento della biodiversità è affidato a misure efficaci benché eterogenee, che vanno dalla diserbatura alla prevenzione degli incendi per rigenerare aree deforestate, al rispetto di credenze che dissuadono dal frequentare vecchi campi abbandonati ritenendoli abitati da spiriti o che autorizzano solo gli stregoni a raccogliere legittimamente le piante medicinali, con ciò limitando il pericolo di sfruttamento eccessivo delle risorse biologiche. D'altronde, i sistemi tradizionali di gestione, che spesso trattano i vecchi campi abbandonati come veri e propri reservoirs da cui prelevare varietà coltivabili, incrementano essi stessi la biodiversità con la creazione di radure nelle foreste in cui far crescere altre specie alimentari. L'incremento della biodiversità è anche affidato all'impianto di specie vegetali che attraggono la selvaggina, ovvero alla diffusione e allo scambio di specie su vasti territori.
La raccolta controllata e regolata di specie legnose viventi in foreste naturali viene valutata come una delle strategie più interessanti per la gestione delle foreste di origine naturale in quanto capace di rallentare la deforestazione nelle aree tropicali. È stato dimostrato che gli interventi più promettenti sono quelli in cui vi è un coinvolgimento delle comunità locali nella gestione della risorsa. Infatti, in questi casi, la gestione di foreste naturali, pur basandosi in parte su pratiche silvicolturali tipiche degli impianti commerciali, può avvantaggiarsi dell'impiego dei metodi delle comunità locali. Questi da una parte sono capaci di ottenere una più elevata integrazione tra raccolta dei prodotti non legnosi e l'impiego o commercializzazione di specie arboree meno note, dall'altra permettono di praticare una gestione ecocompatibile imponendo vincoli sulle aree o sulle stagioni di raccolta per proteggere le biocenosi naturali, i suoli, la qualità delle acque.
Si può concludere che, a differenza delle operazioni commerciali effettuate su grande scala, la gestione delle foreste naturali su piccola scala da parte delle comunità locali fornisce un modello con buone caratteristiche di sostenibilità. Da qui l'incoraggiamento di iniziative di questo tipo, anche supportate dal finanziamento internazionale di progetti. Tuttavia l'adozione su vasta scala di questo modello di gestione incontra molti ostacoli: non tutte le comunità potenzialmente interessate sono attrezzate politicamente, finanziariamente e tecnicamente per gestire vaste aree forestali; può esserci una eccessiva lontananza delle aree forestali dai mercati e dai servizi; sono scarsissimi gli investimenti a lungo termine capaci di sostenere il necessario sviluppo delle capacità locali; infine, molti investitori in realtà preferiscono gli interventi più tecnici e alimentati da capitale intensivo che assicurano un ritorno economico rapido.
Nel caso della silvicoltura commerciale, attualmente praticata a tutte le latitudini, la sua sostenibilità dipende principalmente dalle misure adottate per il mantenimento della varietà genetica capace di fronteggiare i cambiamenti climatici e quelli biocenotici. Attualmente sono disponibili una serie di dispositivi che la possono rendere ecocompatibile: misure ulteriori, secondarie, vengono prese anche per minimizzare gli impatti degli impianti sulla biodiversità e sui processi ecologici.
Dagli studi di settore risulta che nel mondo circa 500 specie di essenze arboree corrono pericolo di estinzione in porzioni rilevanti dei loro areali. Questo stato di cose fa sì che la produttività stessa di queste foreste dipenda dalla gestione e dall'uso delle risorse genetiche. Tuttavia, a tutt'oggi gli esperti concordano nel ritenere che non vi sia un'unica strategia globale adeguata a una sistematica strategia per identificare, campionare, saggiare e far riprodurre specie arboree potenzialmente utili. È accertato che la validità della conservazione genetica ex situ è limitata da vari fattori quali gli elevati livelli naturali di diversità genetica, la predominanza di esogamia, i lunghi tempi di generazione, la frequente bassa vitalità dei propaguli conservati, l'eterogeneità spaziale e la variabilità temporale dell'ambiente. La conservazione in situ sembra essere una strategia più efficace; essa si basa sulla conservazione di zone di foresta ampie abbastanza da consentirne l'automantenimento attraverso i naturali processi di rigenerazione degli ecosistemi, capaci di superare sia eventuali disturbi naturali, sia i normali processi ecologici e le interazioni evolutive.
In ogni caso, la riduzione al minimo dell'impatto sulla biodiversità include misure multiple ed eterogenee: conservazione di aree che ospitano campioni rappresentativi dei diversi tipi di foreste (incluse quelle con elevati tassi di endemismo) e dei differenti stadi successionali; raccolta meno intensiva nelle aree più sensibili al disturbo ambientale; riduzione dei disturbi che non imitano quelli naturali; aumento dei tempi di rotazione delle coltivazioni; impiego di squadre di esperti differenti per competenze disciplinari (come botanici, forestali, economisti, ecologi, zoologi, conservazionisti ecc.); coinvolgimento delle popolazioni locali.
bibliografia
V.H. Heywood, R.T. Watson, D. Pimentel Conserving biological diversity in agricultural/forestry systems, in BioScience, 1992, pp. 354-62.
R.K. Turner, D.W. Pearce, I. Bateman, Environmental economics. An elementary introduction, Baltimore 1994 (trad. it. Bologna 1996).
Global biodiversity assessment, ed. V.H. Heywood, R.T. Watson, Cambridge 1995.