sviluppo
Teorie, concetti e indicatori
In economia il concetto di sviluppo viene spesso contrapposto a quello di crescita economica. Se la crescita (➔) si riferisce all’aumento del Prodotto Interno Lordo di un Paese (PIL), lo sviluppo ha a che vedere con il miglioramento delle condizioni di vita degli individui che popolano un Paese, e che sono legate, non solo alla crescita del reddito pro capite, ma anche, per es., a una maggiore inclusione sociale, alla possibilità di usufruire di infrastrutture sia educative sia sanitarie e così via. Secondo A.K. Sen (➔), premio Nobel per l’economia nel 1998, il processo di sviluppo economico deve riguardare «quello che le persone possono o non possono fare, per esempio, se possono vivere a lungo […] essere ben nutrite, essere in grado di leggere, scrivere e comunicare e di partecipare ai processi di avanzamento letterario e scientifico» (Resources, values and development, 1983).
Lo studio dello sviluppo economico ha assunto rilievo scientifico soprattutto dopo la Seconda guerra mondiale. In precedenza il tema era affrontato in maniera non sistematica, facendo riferimento, in modo più o meno diretto, ai classici e a K. Marx. La crescente consapevolezza dell’esistenza di Paesi più sviluppati di altri pose infatti la necessità di analizzare le economie sottosviluppate o in via di sviluppo, partendo dal presupposto che queste avessero comportamenti diversi da quelli delle economie sviluppate. Ha così preso forma un corpo teorico consistente, all’interno del quale è possibile individuare tre filoni principali. La teoria della modernizzazione sostiene che un Paese, per svilupparsi, debba svolgere lo stesso percorso dei Paesi sviluppati, sicché questi ultimi costituiscono il modello di economia e società moderna a cui devono tendere i primi, all’interno di un percorso lineare in gran parte predefinito. Questo implica, più in particolare, il passaggio da una società di tipo tradizionale, basata su un’economia di sussistenza, a una società moderna, basata sulla produzione e sul consumo di massa. I lavori di W.W. Rostow sul decollo (➔) sono i più rappresentativi di questa tendenza. Secondo la teoria della dipendenza, di derivazione neomarxista, esiste invece una distinzione netta tra i Paesi avanzati del ‘centro’, che hanno accesso a capitale e conoscenza, e i Paesi arretrati della ‘periferia’, che vengono sistematicamente sfruttati dai primi. Tra i padri della teoria della dipendenza va ricordato l’economista argentino R. Prebisch (➔), il quale rimproverò alla teoria della modernizzazione di trascurare il ruolo giocato dal colonialismo nel definire le inique relazioni di scambio esistenti tra i Paesi del centro e quelli periferici. Nel 1950, mentre dirigeva la Commissione Economica delle Nazioni Unite per l’America Latina e il Caribe (CEPAL), Prebisch formulò la tesi che porta il suo nome (e quello dell’economista H. Singer, che nello stesso anno la teorizzò in maniera indipendente: la Prebisch-Singer thesis), secondo la quale l’entrata dei Paesi sottosviluppati nel commercio mondiale avrebbe portato al deterioramento delle ragioni internazionali di scambio a tutto vantaggio dei Paesi del centro. Un’evoluzione di tale tendenza è la teoria dei sistemi del mondo, formulata da I. Wallerstein (World-systems analysis, 2004), che distingue i Paesi in tre condizioni: quelli che appartengono al centro, alla semiperiferia e alla periferia. In questo sistema, la semiperiferia si trova fra il nucleo e la periferia, è sfruttata dal nucleo e sfrutta a sua volta la periferia. In particolare, il centro si avvantaggia della semiperiferia, e la semiperiferia della periferia, attraverso relazioni commerciali inique, poiché le periferie sono relegate all’esportazione di materie prime e prodotti a basso valore aggiunto, rimanendo dipendenti, per i prodotti a più alto valore aggiunto e maggiori prezzi, dalle economie del centro. Infine, nella teoria dei sistemi del mondo i Paesi che occupano posizioni centrali, semiperiferiche o periferiche mutano la loro posizione relativa nel corso del tempo; ciò che consentirebbe di spiegare, per es. il crescente potere di economie emergenti come quelle di Cina, India, Brasile e Russia (➔ anche catching-up).
Mentre la gran parte delle analisi si concentrava sulle dimensioni economiche e politiche di questo processo, nel 1987 il Rapporto Brundtland, rilasciato dalla Commissione mondiale sull’ambiente e lo sviluppo (WCED), avanzava la tesi che lo sviluppo non sia possibile senza un’adeguata cura dell’ambiente. Il rapporto definiva per la prima volta il concetto di sviluppo sostenibile (➔), come un processo di cambiamento tale per cui lo sfruttamento delle risorse, la direzione degli investimenti, l’orientamento del progresso tecnologico e i cambiamenti istituzionali vengano resi coerenti con i bisogni futuri e quindi non conducano a un esaurimento delle risorse naturali e mirino alla preservazione dell’ambiente.
La misurazione dei processi di sviluppo è una procedura complessa. Non si basa solo su indicatori prettamente economici come il prodotto interno lordo, ma richiede anche l’osservazione di altri fenomeni, come i tassi di alfabetismo e il livello di istruzione, i tassi di mortalità media e infantile. L’indice di sviluppo umano (Human Development Index, HDI) ha il merito di riunire queste dimensioni in un unico indicatore. L’HDI viene misurato come media geometrica di tre indici, che si riferiscono, rispettivamente, all’aspettativa di vita alla nascita, agli anni medi e agli anni previsti di istruzione, e infine al reddito nazionale lordo pro capite (in termini di dollari USA a parità di potere d’acquisto).