Svizzera
Nata con notevole ritardo rispetto a quella di altri Paesi europei, la cinematografia svizzera ha offerto i suoi più importanti risultati a partire dagli anni Sessanta, quando nel suo ambito si è affermato un folto gruppo di registi che ha realizzato film di particolare interesse e rigore, basati su un'accurata ricerca linguistica e su un'attenta analisi della realtà sociale.
Dal 1896 furono girati in S. documentari a opera di inviati francesi dei fratelli Lumière e dal 1908 furono registi svizzeri, a realizzarne, tra cui Albert Roth de Markus. Il primo film a soggetto fu Wilhelm Tell (1912) di Georg Wäckerlin, ma il primo di cui siano rimaste copie è Der Bergführer (1917) di Eduard Bienz, che segnò anche la nascita del cinema di montagna (Bergfilm), un genere sviluppatosi negli anni seguenti sia nella S. tedesca (Im kampf mit dem Berge, 1921, di Arnold Fanck; Der Rächer von Davos, 1924, di Heinrich Brandt) sia in quella francese (La croix du Cervin, 1922, di Jacques Béranger; La vocation d'André Carrel, 1925, di Jean Choux).
In seguito, e per quattro decenni, il cinema svizzero coincise sostanzialmente con quello della S. tedesca: solo in tale zona, infatti, riuscì ad andare oltre lo stadio artigianale, soprattutto grazie alla Praesens-Film di Zurigo (fondata nel 1924 e tuttora esistente), l'unica casa di produzione svizzera di dimensioni industriali. Quasi tutti i film realizzati erano tuttavia ingenuamente folcloristici nelle tematiche e tradizionali nel linguaggio.
Vi furono poche eccezioni di rilievo. Negli anni Quaranta spiccano un Bergfilm del tutto anomalo, Romeo und Julia auf dem Dorfe (1941) di Hans Trommer e Valerian Schmidely, e ancor più i drammi Die missbrauchten Liebes-briefe (1940; Lettere d'amore smarrite) e Die letzte Chance (1945; L'ultima speranza) di Leopold Lindtberg, i primi film svizzeri a ottenere riconoscimenti nei festival stranieri. Negli anni Cinquanta, mentre Lindtberg proseguiva la sua attività su un tono minore (ma il suo Die Vier im Jeep, 1951, Quattro in una jeep, ottenne l'Orso d'oro a Berlino come migliore film drammatico), due registi tentarono, anche se con successo solo parziale, di introdurre nei generi consolidati del cinema svizzero qualche elemento di novità: Kurt Früh (Polizischt Wäckerli, 1955; Oberstadtgass, 1956) e Franz Schnyder (Uli der Knecht, 1954; Uli der Pächter, 1955).
Un radicale rinnovamento avvenne dalla seconda metà degli anni Sessanta, a opera di un gruppo di giovani registi della S. francese gravitanti intorno alla televisione di Ginevra. Michel Soutter esordì nel lungometraggio a soggetto con La Lune avec les dents (1966), Yves Yersin con Valveja (1967), Jean-Louis Roy con L'inconnu de Shandigor (1967), Alain Tanner con Charles mort ou vif (1969), Claude Goretta con Le fou (1970). Fortemente influenzate dal Free Cinema inglese (al cui interno si erano formati Tanner e Goretta) ma anche dalla Nouvelle vague francese, le loro opere, molto critiche nei confronti della società elvetica, affrontarono i temi dell'emarginazione e della rivolta, del disagio e della follia, dell'alienazione e della trasgressione.
Negli anni Settanta la ricerca linguistica procedette di pari passo con un'analisi corrosiva dei rapporti sociali e una riflessione amara sull'esistenza nei film di Tanner (La salamandre, 1971, La salamandra; Le retour d'Afrique, 1973; Le milieu du monde, 1974; Jonas qui aura 25 ans en l'an 2000, 1976, Jonas che avrà vent'anni nel 2000; Messidor, 1979) e di Goretta (Le fou; L'invitation, 1973, L'invito; La dentellière, 1977, La merlettaia). Soutter diresse opere complesse, dalle trame talvolta criptiche, in cui si indagano i temi della solitudine e del disagio di vivere: James ou pas (1970), Les arpenteurs (1972), L'escapade (1974; Coppie infedeli) e Repérages (1977). Roy dopo Black-out (1970) lavorò solo in televisione, e Yersin dopo Les petites fugues (1977) solo nel documentario. Emersero nuovi autori: Claude Champion (Le pays de mon corps, 1972, diretto con Agnès Contant), Simon Edelstein (Les vilaines manières, 1975), Francis Reusser (Le grand soir, 1976), Patricia Moraz (Les Indiens sont encore loin, 1977), Jacqueline Veuve (La mort du grand-père, 1978).In quel decennio si aprì al nuovo cinema anche la S. tedesca, con opere direttamente ispirate allo Junger Deutscher Film. La figura di maggior rilievo fu Daniel Schmid (Heute Nacht oder nie, 1972, Questa notte o mai; La Paloma, 1974; Violanta, 1977), seguito da Thomas Koerfer (Der Tod des Flohzirkusdirektors oder Ottocaro Weiss reformiert seine Firma, 1973; Der Gehülfe, 1976; Alzire oder der neue Kontinent, 1978): due autori al di fuori dal circuito commerciale, impegnati in rigorose ed elitarie ricerche linguistiche. Altri registi mescolarono in modo originale fiction e documentario, come Xavier Koller (Hannibal, 1972), Peter von Gunten (Die Auslieferung, noto anche come L'extradition, 1974), Rolf Lyssy (Konfrontation, 1974), Markus Imhoof (Fluchtgefahr, 1974), Clemens Klopfenstein (Geschichte der Nacht, 1978), Fredi M. Murer (Grauzone, 1979), Beat Kuert (Schilten, 1979). Insieme a loro debuttò nella regia il celebre attore Maximilian Schell, il cui Erste Liebe (1970) fu il primo film svizzero a ottenere una nomination all'Oscar come miglior film straniero. Fecero la loro comparsa anche autori di valore provenienti dalla S. italiana, come Villi Hermann (San Gottardo, 1977).
Negli anni Ottanta il nuovo cinema svizzero è sembrato perdere in parte il suo spirito corrosivo. Accanto agli autori più importanti, come Tanner (Les années lumière, 1981, Gli anni luce; Dans la ville blanche, 1983, Nella città bianca; Une flamme dans mon coeur, 1987, Una fiamma nel mio cuore), Goretta (La provinciale, 1980; La mort de Mario Ricci, 1983, La morte di Mario Ricci; Orfeo, 1985; Si le soleil ne revenait pas, 1987, Se il sole non tornasse), Soutter (L'amour des femmes, 1981; Adam et ève, 1984; Signé Renart, 1985), Reusser (Derborence, 1985, César come miglior film francofono; La loi sauvage, 1988), Schmid (Il bacio di Tosca, 1984) e Koerfer (Die Leidenschaftlichen, 1982; Glut, 1983), hanno proseguito l'attività Kuert (Nestbruch, 1980), Imhoof (Das Boot ist voll, 1980, La barca è piena, vincitore di un Orso d'argento nel 1981 al Festival di Berlino; Die Reise, 1986), Klopfenstein (Der Ruf des Sibylla, 1984), Murer (Höhenfeuer, 1985), Hermann (Innocenza, 1987), Lyssy (Leo Sonnyboy, 1989).
Il ripiegamento verso il documentario o la televisione iniziato da Roy e Yersin si è però esteso, e ha coinvolto negli anni Ottanta la Champion, la Moraz, la Veuve, Edelstein, von Gunten e Schell, e negli anni Novanta Goretta, Kürt e Hermann. Inoltre Soutter è prematuramente scomparso, mentre l'esordiente Richard Dembo e Koller si sono stabiliti all'estero dopo che due loro opere hanno vinto altrettanti Oscar come migliori film stranieri (rispettivamente nel 1985 per la coproduzione franco-svizzera La diagonale du fou, 1984, Mosse pericolose, e nel 1991 per Reise der Hoffnung, 1990, Il viaggio della speranza). Di fronte a questi abbandoni e a queste perdite è in gran parte mancato un ricambio generazionale: sono infatti emersi ben pochi nuovi registi, tra i quali, oltre a Dembo, va citato almeno François Amiguet (La méridienne, 1988).
Anche negli anni Novanta, poi, quasi tutti i cineasti ancora in attività hanno prodotto opere meno innovative: si sono dedicati ai film storici Ruesser (Jacques & Françoise, 1991; La guerre dans le Haut Pays, 1998) e Koerfer (Der grüne Heinrich, 1993), alle commedie autobiografiche Schmid (Zwischensaison, noto anche come Hors saison, 1992; Beresina oder die letzten Tage der Schweiz, 1999), alla rivisitazione critica dei Bergfilme Imhoof (Der Berg, 1990) e Murer (Der grüne Berg, 1990). Solo Tanner ha invece continuato sulla strada del cinema più rigoroso (Le journal de Lady M., 1993; Fleurs de sang, 2002, diretto con Myriam Mézières; Paul s'en va, 2004). *
Il volo della chimera: profilo del cinema svizzero 1905-1981, a cura di G. Barblan, G.M. Rossi, Firenze 1981.
M. Schaub, Film in der Schweitz, Zürich 1997 (trad. it. Zurigo 1999).
F. Buache, Le cinéma suisse: 1898-1998, Lausanne 1998.
R. Pithon, Cinema svizzero, in Storia del cinema mondiale, a cura di G.P. Brunetta, 3° vol., L'Europa. Le cinematografie nazionali, t. 2, Torino 2000, pp. 1495-1521, a cui si rimanda per una bibliografia più completa.