Vedi SWAT dell'anno: 1973 - 1997
SWĀΤ (ν. S 1970, p. 759)
La ricerca archeologica nella valle dello S. (greco Σουαστηνή; sanscrito Uḍḍiyāna, cinese Wuchang, tibetano Orgyan) ha compiuto notevoli progressi nell'ultimo ventennio in modo particolare grazie all'attività della Missione Archeologica Italiana dell'Istituto Italiano per il Medio ed Estremo Oriente (IsMEO), che iniziò i lavori nel 1956.
Un contributo di rilievo alla ricerca sul campo viene dallo studio delle fonti epigrafiche e letterarie disponibili. Tra le prime, oltre a tre brevi frammenti di iscrizioni greche su ceramica, ricordiamo le iscrizioni dedicatorie buddhistiche dei dinasti locali di Apraca (Bajaur) e di Oḍi (Uḍḍiyāna), rispettivamente vassalli dei re śaka e kuṣāna, e due iscrizioni del periodo hindu-śāhi da Bīr-koṭ-ghwaṇḍai; le fonti letterarie sono al contrario più numerose e comprendono storiografi e geografi greci e romani, testi storici cinesi, alcuni testi buddhistici in cinese e in sanscrito e i resoconti dei numerosi pellegrini cinesi e tibetani che visitarono questa «terra santa» del buddhismo dal V sec. d.C. fino all'epoca in cui l'Islam si era già diffuso (XV sec.).
Lo studio delle culture protostoriche prese l'avvio nel 1961, con lo scavo di alcune necropoli (Butkara II, Kātelai, Loebanṛ I) definite allora «pre-buddhistiche» e collocate nell'arco di tempo compreso tra il XIV e il IV sec. a.C.; a esse si aggiunsero negli anni 1964-1966 le necropoli portate alla luce nel Dir dalla missione dell'Università di Peshawar, appartenenti allo stesso orizzonte cronologico e culturale, definita con il termine improprio di Gandhāra Grave Culture. Lo scavo ai piedi del riparo nella roccia di Ghālegay (1967-1968) ha alzato all'inizio del III millennio a.C. le prime testimonianze di una frequentazione umana della regione, anche se le particolari caratteristiche del sito indicherebbero secondo alcuni, almeno per certi periodi, solo un luogo di transito di popolazioni allogene e non un vero e proprio insediamento indigeno. La sequenza stratigrafica non insediamentale di Ghālegay per il periodo compreso tra il 3000 e il 1400 a.C., e le tre diverse fasi della necropoli per i secoli successivi (v. s 1970) costituiscono l'ossatura della periodizzazione delle culture protostoriche della regione proposta da G. Stacul (periodi I-VII), nel cui ambito sono stati ordinati i diversi complessi culturali portati alla luce nei numerosi siti esplorati nello S. e nelle aree circostanti (Chitrāl, Buner). Di particolare importanza si sono rivelati gli scavi negli antichi abitati, e sono gli insediamenti di Bīr-koṭ-ghwaṇḍai e Loebanr 3 per i periodi più antichi e di Aligrāma per i più recenti che offrono i dati più importanti per lo studio delle culture protostoriche.
L'insediamento di Loebanṛ 3, su un'altura nella valle del fiume Jāmbīl, ha fornito una ricca documentazione relativa al periodo IV della sequenza protostorica dello S., dal 1700 al 1400 a.C. circa. Le abitazioni più antiche sono costituite da pozzi approssimativamente circolari scavati nel terreno, isolati o al più raggruppati a due, completati da strutture di alzato in materiali deperibili che hanno lasciato poche tracce. In una seconda fase queste abitazioni seminterrate sono abbandonate, sostituite da strutture in muratura di pianta quadrata. La ceramica associata alle due fasi è in prevalenza grigio-brunita, ma nella seconda fase si afferma anche una ceramica rossa lavorata al tornio e ornata a volte da una decorazione dipinta in nero.
L'abitato protostorico di Bīr-koṭ-ghwaṇḍai, posto nell'area inferiore del pianoro ai piedi del colle omonimo, è caratterizzato da una lunga sequenza che, dal 1700 a.C. circa, prosegue con poche interruzioni fino al momento della conquista macedone nel 327 a.C. Testimonianze relative ai periodi V (c.a 1300-800 a.C.) e VII (IV sec. a.C.) sono rappresentate dai numerosi resti di strutture e materiali portati alla luce nelle diverse trincee scavate. Gli studi si sono tuttavia incentrati sull'abitato del periodo IV (c.a 1700-1400 a.C.), caratterizzato come a Loebanṛ 3 da abitazioni seminterrate seguite da strutture in muratura con ambienti di pianta approssimativamente quadrata. Degna di nota in questo Sito, e indicativa della sua ricchezza e importanza rispetto agli altri insediamenti, è la produzione di un artigianato di lusso (pietre dure, bronzo, conchiglie e corallo importati, ecc.) e insieme la notevole qualità e quantità di ceramica rossa dipinta in nero con motivi geometrici e naturalistici, animali e fitomorfi: essa richiama la tradizione figurativa della valle dell'Indo, ma non è priva di rapporti con la cultura del Cimitero H di Harappā in ciò che concerne le forme ceramiche.
Le attività di scavo dalla fine degli anni '80 si sono incentrate, per il periodo in questione, sul sito di Kalako Ḍerai, nella valle del fiume Jāmbīl, che ha restituito un'importante documentazione su un insediamento del periodo IV in cui prevalevano le attività agricole, con un'abbondante e varia industria litica in cui sono caratteristiche le falci rettangolari in pietra, forate, estranee alla tradizione del subcontinente.
Aligrāma, sulla sponda occidentale del fiume S., rappresenta l'insediamento protostorico a noi meglio noto grazie alle numerose trincee scavate nel 1966 e poi dal 1972 al 1983, che hanno fornito evidenza di occupazione dal XVIII sec. a.C. fino al periodo kuṣāna. Le testimonianze di maggior estensione sono relative al periodo compreso tra l'VIII e il IV sec. a.C., e permettono una ricostruzione esauriente della cultura dell'abitato dell'epoca: tra gli altri edifici spicca un grande ambiente isolato, di pianta rettangolare, con ingresso su uno dei lati lunghi e un grande focolare all'interno, interpretato come probabile edificio di culto. Ai secoli XI-X a.C. risale invece la testimonianza di un paleosuolo con tracce di aratura, di estrema importanza in quanto rara fonte di informazioni sulle tecniche agricole protostoriche.
L'invasione da parte di Alessandro Magno nel 327 a.C. costituisce il primo evento storico di cui abbiamo notizia certa, poiché la presenza achemenide dal VI al IV sec. a.C. è solo postulabile sulla base delle iscrizioni reali achemenidi e della menzione da parte di Erodoto (III, 91) dei Δαδίκαι, cioè Dardi, quali una delle genti che popolavano la VII satrapia dell'impero persiano: e i Darada della tradizione indiana abitarono le regioni nordoccidentali del subcontinente sino alla graduale penetrazione delle genti iraniche (Pashtun) iniziata nell'XI sec. d.C. L'identificazione di due delle città conquistate dal Macedone, Ora e Bazira, rispettivamente con i siti di Uḍegrām e Bīr-koṭ-ghwaṇḍai, sembra verisimile anche se non ha finora trovato un riscontro nelle testimonianze archeologiche, che attestano una presenza ellenistica solo a partire dal periodo indo-greco (v. oltre). L'identificazione di Massaga, la capitale degli Assakenoi che popolavano la regione secondo le fonti classiche, resta invece dubbia.
Per tutto il lungo arco di tempo convenzionalmente denominato «età storica preislamica», compreso tra l'invasione macedone e un'altra invasione da Ovest, quella di Maḥmud di Ghazna nell'XI sec. d.C., manca una periodizzazione di riferimento su base archeologica, in qualche modo supplita da fatti a noi noti da fonti letterarie, epigrafiche e, soprattutto, numismatiche.
L'attività archeologica riguarda due settori distinti, ma allo stesso tempo legati, della vita dell'uomo: da un lato gli abitati con la loro architettura civile e gli oggetti di uso quotidiano, dall'altro le aree di culto con la loro arte sacra.
Nonostante la forte presenza di culti di natura magica legati alla tradizione dardica e i legami con il mondo iranico, lo S. ha rappresentato nell'antichità una delle principali aree di diffusione della cultura buddhistica, testimoniata non solo dai numerosi riferimenti letterari ma anche e soprattutto dalle centinaia di monasteri sparsi su tutto il territorio e ancora oggi in gran parte riconoscibili nelle rovine affioranti dal terreno. Lo studio dell'architettura e dell'arte buddhistica ha rappresentato sin dagli inizi dell'attività archeologica nella regione il tema di maggior interesse. I complessi sacri buddhistici nello S., come in tutta la regione gandharica, sono costituiti da monumenti di diverso tipo, stūpa, vihāra (cappelle) e colonne votive, quasi sempre costruiti attorno a uno stūpa di dimensioni maggiori; frequentemente annessi alle aree sacre sono le strutture abitative dei monaci (saṃghārāma), costruite o come celle isolate o accorpate in piccoli edifici, o, più spesso, come veri e propri monasteri con celle disposte attorno a una corte aperta, quadrata o rettangolare. La tecnica edilizia impiega diversi tipi di opera muraria, sempre in pietra, da quella a blocchi parallelepipedi (noti in inglese come ashlar) di schisto o spesso talco, a quella a lastre di schisto di dimensioni diverse allettate con cura ma senza particolari disposizioni (ingl. diaper), o alla meno comune opera che alterna corsi di lastre e corsi di blocchi in tessitura di lastrine (ingl. semi-ashlar).
La Missione Archeologica Italiana oltre al grande complesso di Butkara I (v. butkara) ha portato alla luce le due aree sacre di Saidu Sharīf I e Pāṇr, di grande interesse non solo per i resti architettonici, ma anche per le notevoli sculture di arte gandharica rinvenute in gran numero e conservate presso il Museo dello S. di Saidu Sharīf e in parte anche presso il Museo Nazionale d'Arte Orientale di Roma. Il Dipartimento di Archeologia del Governo del Pakistan ha inoltre scavato l'area sacra di Nimogram, e il Dipartimento di Archeologia dell'Università di Peshawar quella di Butkara III (ν. butkara).
Nell'ultimo quinquennio, in risposta alla devastante attività di scavatori clandestini alla ricerca di reliquiarî e soprattutto di sculture gandhariche, i Dipartimenti di Archeologia del Governo del Pakistan e dell'Università di Peshawar hanno promosso una serie di scavi in diverse aree sacre buddistiche (Gumbatuna, Baligram, Šneša, Nawagai), che purtroppo non sempre hanno tenuto in debito conto le esigenze di una corretta metodologia di scavo nei confronti della pur necessaria opera di salvataggio delle sculture, e pertanto non hanno portato contributi significativi alla conoscenza dell'architettura sacra buddhistica. Un particolare interesse suscita tuttavia la scoperta, in una conca a breve distanza dalla vetta di Malam Jabba (3034 m s.l.m.), di un complesso architettonico (monastero?) con uno stūpa in muratura di tipo «diaper» in lastre e lastrine di schisto nero che, per la mancanza del corpo quadrato di base, si distingue dagli altri stūpa della regione; il monumento, ancora in corso di studio, per la sua posizione nascosta in un'area di quota elevata e per l'analogia con l'ultima fase del Grande Stūpa di Butkara I (GSt 5), potrebbe riferirsi al momento successivo alla conquista islamica e alla prima invasione pashtun dell'XI sec., quando le genti dar- diche di religione buddhistica e brahmanica si ritirarono gradualmente nelle valli di alta montagna dello S. settentrionale.
A Saidu Sharīf I, non lontano dal capoluogo amministrativo dello S., l'area sacra si compone di due terrazze contigue, poste sul pendio dei monti che separano la valle del fiume Saidu da qúella del fiume Jāmbīl. La terrazza inferiore è dominata dallo Stūpa Principale, di pianta quasi quadrata (21 X 20 m), con scalinata sul lato N; sui quattro angoli della sommità del basamento si ergevano in antico, attorno ai corpi cilindrici e alla cupola, quattro colonne in muratura, con capitello persepolitano, tre delle quali si sono conservate crollate sul pavimento della terrazza. Ai fianchi dello Stūpa Principale e su tutta l'area compresa tra il lato Ν di questo e il limite Ν della terrazza, tagliato nel fianco schistoso del monte, si dispongono in diverse file numerosi monumenti minori, stūpa, vihāra, colonne votive, appartenenti a tre principali fasi costruttive, la più antica delle quali è contemporanea all'edificazione dello Stūpa Principale. Lo studio dei materiali di decorazione figurata e architettonica, in schisto verde e talco, rilevati nel crollo ai piedi dello Stūpa Principale, rende possibile una ricostruzione grafica del ricco apparato decorativo e del fregio figurato di arte gandharica che ornavano il monumento: quest'ultimo, in particolare, costituisce una delle più interessanti testimonianze di scultura della regione, attribuita da D. Faccenna a un unico artista, il «Maestro di Saidu». Sulla seconda terrazza, a quota più alta della prima di c. a 3 m, è il monastero, collegato alla terrazza degli stūpa da un'imponente scalinata composta da due rampe parallele al muro di sostruzione O del monastero, opposte e convergenti al centro. Anche qui tre sono le principali fasi costruttive. Nella prima il monastero è limitato da un muro perimetrale di pianta rettangolare 38 x 32 m (asse maggiore E-O) con celle di pianta quadrata sui soli lati E e O (dieci per lato) e portico coperto con pilastri lignei su tutti e quattro i lati, attorno alla corte centrale aperta; una porta aperta nel lato E del muro perimetrale, in una delle celle, conduceva ad altri ambienti isolati costruiti sul pendio del monte. Nella seconda fase un gruppo di dieci ambienti di pianta e dimensioni differenti, costituenti i diversi ambienti di servizio del monastero quali la sala di assemblea, il refettorio, i magazzini, ecc. sono costruiti contro il lato S del muro perimetrale, in cui vengono aperte diverse porte. Nell'ultima fase tali porte, assieme a quella a E, vengono richiuse in conseguenza dell'abbandono degli ambienti a S, probabilmente per il crollo delle strutture costruite su un forte pendio. Di particolare interesse, in quanto tratto originale rispetto ad analoghi monumenti della pianura gandharica, è il raffinato sistema delle sostruzioni sul lato O, costituito da concamerazioni coperte da pseudovolte su cui si impostano i pavimenti degli ambienti. Il periodo di vita dell'area sacra, nelle sue diverse fasi scandite dai successivi pavimenti rialzati, è compreso nell'arco di tempo tra la fine del I e il V sec. d.C.
Anteriore al complesso sacro è una necropoli con tombe orientate in direzione E-O, scavate nella terra e prive di strutture in muratura, secondo ima tipologia profondamente diversa da quella delle ben note necropoli protostoriche dello Swāt. Prive di corredo funerario e di materiali ceramici associati, le tombe trovano un unico confronto nel cimitero antico di Sarai Khola, presso Taxila, che recenti analisi di laboratorio al C14 datano attorno al 300 a.C.
A Pānṛ, isolata in un recesso della valle del Jāmbīl, l'area sacra occupa due terrazze scavate nel fianco argilloso di un colle e collegate da scale; resti di strutture appartenenti a un monastero si riconoscono al limite E. Sulla terrazza inferiore sono i resti di un Grande Stūpa con scalinata a E, fiancheggiato da altri stūpa appartenenti a fasi diverse, tutti molto danneggiati. Al centro della terrazza superiore è un altro Grande Stūpa con scalinata a S, fiancheggiato da due stūpa minori di simile orientamento, mentre sulle diagonali erano in origine quattro colonne votive; una delle due rimaste conserva parte del fusto in muratura a blocchetti di talco con base modanata su plinto a pianta quadrata. Altri stūpa minori vennero costruiti in tempi successivi, a volte contro i monumenti più antichi. È proprio la tecnica muraria a blocchi di talco, in cui sono costruiti tutti i principali monumenti del complesso, che costituisce la base per una loro datazione al I sec. d.C., mediante il confronto con le strutture appartenenti alla III fase dell'area sacra di Butkara I. Di grande interesse sono i frammenti di sculture rinvenuti negli strati di crollo e nei riempimenti dei monumenti, tutti di notevole livello artistico.
L'area sacra di Nimogram sorge nel territorio Šamozai, l'area sud-occidentale dello S., meno nota agli archeologi ma senz'altro anche meno ricca di rovine della riva orientale. Sulla cima di un colle gli scavi del Dipartimento di Archeologia del Governo del Pakistan (1968) hanno portato alla luce un'area sacra costituita da tre monumenti principali allineati da Ν a S, uno stūpa al centro tra due vihāra, tutti con scalinata rivolta a O; attorno a questi sono cinquantasei monumenti minori, stūpa e vihāra, e, all'estremità occidentale della terrazza, un monastero, parzialmente esposto. Il complesso, che ha restituito materiale scultoreo di notevole originalità nell'ambito delle scuole gandhariche, è stato datato al II-III sec. d.C. sulla base dei ritrovamenti numismatici.
Nell'ambito della produzione di arte sacra dello S. un capitolo importante è costituito dai rilievi su roccia o stele dell'età post-gandharica, databili tra il VI e l'VIII sec. dC. Sui grandi massi di roccia granitica che caratterizzano il paesaggio della regione, soprattutto nel tratto centrale della valle dello S. e nelle valli che la collegano all'Indo, sono scolpite grandi immagini, spesso di grandezza superiore al naturale, in cui prevalgono i soggetti buddistici mahayanici, in modo particolare il Bodhisattva Avalokiteśvara seduto con un bocciolo di loto in mano (Padmapāṇi); frequenti anche le scene con un Buddha al centro tra due Bodhisattva. A differenza dei graffiti dell'alta valle dell'Indo (v. Pakistan), con cui sono tuttavia evidenti affinità stilistiche oltre che iconografiche, i rilievi rupestri dello S. sono opera di scultori che lavoravano per una committenza che al momento ci sfugge, così come ci sfugge la motivazione della diffusione di tali immagini sacre al di fuori di un contesto templare.
L'altro tema centrale nella ricerca archeologica è costituito dallo studio degli abitati e dell'architettura civile, ripreso recentemente (1984) dopo la sospensione dei lavori a Uḍegrām. Qui, negli anni 1956-1961, erano state portate alla luce, nella zona pianeggiante, due estese aree dell'abitato di età storica, denominate «Bazār» e «Gogdara», e su uno sperone roccioso della montagna detta Raja Gira, un complesso palaziale denominato «Castello», costruito tra il VII e il X sec. inglobando strutture antecedenti di età kuṣāṇa e sasanide e frequentato anche dopo la conquista ghaznavide dell'XI sec., quando su una terrazza sottostante il palazzo venne costruita una moschea recentemente scoperta e ancora in corso di scavo. Oltre alle testimonianze di Uḍegram e allo scavo di un settore dell'abitato adiacente all'area sacra di Butkara I, altre strutture urbane erano state portate alla luce a Bārāma, su un'altura prospiciente Butkara I, dove l'insediamento antico, vissuto lungo l'arco di cinque periodi strutturali corrispondenti a quelli evidenziati a Butkara I (III sec. a.C.-VIII sec. d.C.), era circondato da uno spesso muro di cinta con bastioni angolari semicircolari.
Il luogo scelto per la ripresa dell'indagine è l'abitato presso il colle di Bīr-koṭ-ghwaṇḍai, che si alza isolato nel tratto centrale della valle dello S., non lontano dal moderno villaggio di Barīkot. Identificato da A. Stein e poi da G. Tucci con la città di Bazira, conquistata da Alessandro Magno nel 327 a.C, e, secondo Arriano, subito fortificata, l'insediamento di Bīr-koṭ-ghwaṇḍai godeva di grande importanza strategica, per la posizione al punto d'incontro delle tre vie provenienti dal Gandhāra, dal Buner e dallo S. settentrionale. Strutture di carattere difensivo circondano la cima del colle, su cui affiorano resti di due stūpa, uno dei quali posto su una terrazza sorretta da un'imponente sostruzione a scarpa sul lato E. Le strutture ora visibili sono di epoca post- kuṣāṇa, ma il materiale rinvenuto tra le rovine degli stūpa spinse Stein e poi Tucci, che dedicarono al colle grande attenzione, a ritenere che già in età kuṣāṇa e forse indo-greca qui fosse la cittadella. Il pendio terrazzato a S, invece, e tutto il pianoro racchiuso dalla mezzaluna del colle erano in antico occupati dall'abitato, limitato lungo i lati S e O da un possente muro di cinta con bastioni rettangolari, alcuni tratti del quale sono stati portati alla luce. La frequentazione del sito, come già indicato, inizia già nella prima metà del II millennio a.C., interessando l'area più bassa del pianoro. La costruzione del muro di cinta, che sembra risalire al periodo indo-greco (II sec. a.C.), rappresenta un episodio di particolare interesse.
Il muro, spesso 2,70 m e con un alzato massimo conservato di c.a 5 m, è una struttura massiccia, con nucleo di pietre, ciottoli e argilla e un paramento di spesse lastre, lastrine e ciottoli allettati in argilla in tessitura accurata. Bastioni o torri rettangolari, pieni, aggettano dal muro a intervalli regolari di c.a 29 m: di questi sono stati individuati e in parte portati alla luce tre sul lato S e uno sul lato O, oltre alla torre all'angolo SO della cinta, di pianta pentagonale. Un ripido pendio che corre parallelo al lato S del muro, a c.a 5 m da esso, tagliando gli strati dell'area esterna, rappresenta verisímilmente il versante Ν di un ampio fossato il cui versante opposto dovrebbe trovarsi al di fuori dei limiti delle trincee scavate. Il muro, che venne costruito innalzando successivamente brevi tratti e non edificando simultaneamente tutta la lunghezza delle cortine tra le torri, per le sue caratteristiche topografiche, planimetriche e costruttive sembra rientrare a pieno titolo nell'architettura dell'ellenismo orientale e risalire verisimilmente al periodo indo-greco (II sec. a.C.), come confermano i dati numismatici.
Nell'area dell'abitato racchiuso dalle fortificazioni, che con la graduale crescita dei piani di calpestio interni intorno al II sec. d.C. finiscono per diventare una possente sostruzione, sono state scavate finora quattro trincee, di cui solo quella nell'angolo SO della città di estensione tale da permettere l'avvio di uno studio architettonico e urbanistico. Qui (trincea 4-5), oltre alla ricca sequenza stratigrafica articolata in nove periodi strutturali, due dei quali anteriori alla costruzione del muro di cinta, gli elementi salienti dello sviluppo planimetrico indicano per il periodo coevo alla costruzione delle fortificazioni (II sec. a.C.) un'ampia fascia libera da strutture a ridosso del muro di cinta, che nei due periodi successivi viene gradualmente colmata; la tecnica muraria a lastre di scisto e ciottoli è sin dalle strutture più antiche accurata. La presenza di una piccola area culturale buddhistica, con uno stūpa al centro di una corte e tre vihāra (cappelle) costruiti in tempi successivi sul lato Ν di questa, rappresenta una testimonianza di particolare interesse per il periodo dalla metà del II al IV-V sec. d.C.; infine risalgono al IV-V sec. d.C. due unità abitative separate da una strada, entrambe caratterizzate dalla presenza di una corte scoperta e dotata di canalizzazioni per le acque di scarico.
A ridosso del tratto centro-occidentale del lato S del muro di cinta (trincea 3), che anche qui ha visto una lunga serie di restauri e modifiche, sono state portate alla luce strutture che, per l'ottima qualità della muratura e soprattutto per le dimensioni degli ambienti, sembrano appartenere a un palazzo, con due principali fasi strutturali: la prima intorno al I-II sec. d.C., la seconda intorno al III-IV sec. d.C. Le altre due trincee, scavate una al centro del pianoro, l'altra lungo il pendio del colle, hanno avuto come obiettivo principale l'individuazione delle sequenze stratigrafiche e culturali delle due rispettive aree. Nel pianoro (trincea 1) l'occupazione inizia attorno al II sec. d.C. e prosegue con una densa successione di periodi strutturali fino al III-IV sec. d.C., momento che segna l'abbandono dell'area come abitato e l'inizio di una sporadica frequentazione artigianale, sino all'età medio-islamica (c.a XIV-XV sec.?), quando un nuovo abitato con rozze strutture in pietre e mattoni crudi occupa l'area. Sul pendio (trincea 2), al contrario, l'occupazione inizia attorno al I sec. d.C. e prosegue, pressoché ininterrotta, fino all'XI- XII sec. d.C., favorita dalla posizione meglio difendibile in secoli di insicurezza politica.
In quest'area, fortemente danneggiata da recenti lavori di terrazzamento, è stato portato alla luce un monumento che spicca per originalità e qualità delle strutture: si tratta di una sala quadrata, costruita su un alto basamento addossato al pendio con contrafforti circolari ai due angoli meridionali, con quattro colonne in muratura disposte simmetricamente e un focolare al centro. L'edificio, privo di materiali e di altri dati cronologici, datato inizialmente al IV sec. d.C. sulla base dell'analogia con tecniche murarie di altri monumenti della regione, è stato poi attribuito all'VIII-IX sec. d.C. sulla base delle relazioni stratigrafiche con le strutture addossate a esso a E, portate alla luce di recente e datate intorno al X sec. d.C. (periodo hindu-śāhi). La sua caratteristica pianta, priva di confronti nell'area gandharica e più vicina a modelli centroasiatici e iranici, e la presenza di un focolare centrale, per il quale non è da escludere una funzione rituale, attestata nella regione nell'ambito di diverse credenze, hanno suggerito un'interpretazione cultuale per l'edificio, che potrebbe trovare conferma nella presenza in un ambiente del complesso adiacente a E di una piccola ara intonacata e dipinta e associata a un bacino lustrale.
Bibl.: La prima indagine archeologica dello S. è costituita dalla ricognizione condotta da Sir Aurel Stein nel 1926: A. Stein, On Alexander's Track to the Indus, Londra-New York 1929 e id., An Archaeological Tour in Upper Swat and Adjacent Hill Tracts (MASI, 42), Calcutta 1930. Seguì nel 1938 una campagna di ricognizione nell'area di Barīkoṭ da parte dell'Archaeological Survey of India: E. Barger, Ph. Wright, Excavations in Swāt and Explorations in the Oxus Territories of Afghanistan. A Detailed Report of the 1938 Expedition (MASI, 64), Delhi-Calcutta 1941. Fu però la ricognizione effettuata da Giuseppe Tucci nel 1955 a gettare le basi dell'indagine di scavo, condotta dalla Missione Archeologica Italiana dell'IsMEO a partire dal 1956 sino a oggi. Sono due i fondamentali lavori di G. Tucci, in cui è fornito anche un panorama completo delle fonti greco-romane, indiane, cinesi e tibetane: G. Tucci, Preliminary Report on an Archaeological Survey in Swat (Pakistan), in East- West, IX, 1958, 4, pp. 279-328 e id., On Swāt. The Dards and Connected Problems, ibid., XXVII, 1977, pp. 9-103. Per i più recenti contributi epigrafici, vedi: H. W. Bailey, Two Kharoṣṭhi Casket Inscriptions from Avaca, in JRAS, 1978, I, pp. 3-13; id., A Kharoṣṭi Inscription of Seṇavarma, King of Oḍi, ibid., 1980, I, pp. 21-29; G. Fussman, Nouvelles inscriptions śaka; ère d'Eucratide, ère d'Azès, ère Vikrama, ère de Kaniṣka, in BEFEO, LXVII, 1980, pp. 1-43; H. W. Bailey, Two Kharoṣṭhī Inscriptions, in JRAS, 1982, 2, pp. 149-155; G. Fussman, Nouvelles inscriptions śaka (II), in BEFEO, LXXIII, 1984, pp. 31-46; P. Callieri, A Potsherd with a Greek Inscription from Bir-kot (Swat), in JCA, VII, 1984, 1, pp. 49-53.
Una bibliografia completa sulla attività archeologica nello S., aggiornata al 1981, è contenuta in F. Noci, Bibliography, in Italian Archaeological Mission (IsMEO), Pakistan, Swāt, 1956-1981. Documentary Exhibition-Peshawar 1982 (cat.), Roma 1982, pp. 57-62. Nel catalogo è fornita una breve descrizione di tutti i siti esplorati dalla Missione Italiana.
Diamo qui di seguito l'aggiornamento successivo al 1981, assieme all'indicazione di alcune tra le principali opere antecedenti. Per il periodo protostorico: C. Silvi Antonini, G. Stacul, The Proto-historic Graveyards of Swāt (Pakistan) (IsmeoRepMem, VII), 2 voll., Roma 1972; S. Salvatori, Analysis of the Association of Types in the Protohistoric Graveyards of the Swāt Valley, in EastWest, XXV, 1975, p. 333 ss.; G. Stacul, S. Tusa, Report on the Excavations at Aligrāma (Swāt, Pakistan) 1974, ibid., XXVII, 1977, p. 151 ss.; G. Stacul, Culture protostoriche della valle dello Swāt alla luce degli scavi della Missione archeologica italiana nel Pakistan (IsMEO), in Un decennio di ricerche archeologiche (Quaderni de «La ricerca scientifica», CNR, 100), I, Roma 1978, p. 549 ss.; id., On Periods and Cultures in the Swat Valley and beyond, in Purātattva, X, 1978-79, p. 89 ss.; L. I. Khlopina, Die Herkunft der Swat-Kultur (Nord-West Pakistan), in Orientalia Lovaniensia Periodica, X, 1979, p. 195 ss.; A. Coppa, R. Macchiarelli, G. Biondi, L'omogeneità biologica degli inumati delle necropoli protostoriche di Katelai e Loebanr (Swat, Pakistan). Lo studio di varianti morfologiche discontinue del cranio, in Antropologia Contemporanea, III, 1980, p. 405 ss.; C. Silvi-Antonini, Pratiche funerarie nelle regioni del nord-ovest dell'India. Le necropoli del Pakistan settentrionale, in G. Gnoli, J.-P. Vernant (ed.), La mort, les morts dans les sociétés anciennes, Cambridge- Parigi 1982, p. 467 ss.; H. Miiller-Karpe, Jungbronzezeitlich-früheisenzeitliche Gräberfelder der Swat-Kultur in Nord-Pakistan (AVA-Materialien, 20), Monaco 1983; S. Tusa, in EastWest, XXXIII, 1983, pp. 323-324; G. Stacul, Painted «Horses» from the Swāt Valley (Middle of 2nd mill. B.C.), in P. Snoy (ed.), Ethnologie und Geschichte. 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Per Butkara I e III, v. butkara.
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