tabu linguistico
Tabu è una parola polinesiana («sacro, proibito»), spesso, ma impropriamente, pronunciata tabù, che designava originariamente una proibizione rituale riguardante oggetti o persone rivestiti di sacralità; il termine ha acquisito in seguito un significato più esteso, riferendosi, anche nell’uso comune, alle diverse sfere dell’esperienza umana colpite da interdizioni, cioè dalla proibizione di uso.
Un tabu linguistico, in particolare, consiste nella proibizione di pronunciare parole relative a referenti colpiti da tabu (cioè tabuizzati). Avviene infatti che persone, animali, piante, oggetti, comportamenti, azioni e anche idee vengano, presso un certo gruppo e in un certo momento storico, caricati a tal punto di connotazioni culturali ed emotive da trasferire la loro sacralità, pericolosità, sgradevolezza sulle rispettive designazioni: queste dovranno dunque essere evitate nel discorso o sostituite da altre meno esplicite. Il fenomeno è osservabile in tutte le società, dove si presenta in forme sensibilmente diverse dall’una all’altra; inoltre, esso varia in ciascuna società nel tempo e attraverso le trasformazioni delle norme morali, culturali e sociali.
Le sfere semantiche più comunemente colpite da interdizione linguistica sono quelle magico-religiose, della malattia e della morte, della sessualità e delle funzioni corporali, della persona (aspetti fisici e morali); ma anche quelle che riguardano latamente le società (classi e posizioni sociali, mestieri, burocrazia, politica, guerra; delle dimensioni del fenomeno dà bene conto, ad es., Zelenin 1988-1989).
Per superare l’interdizione, il parlante può tacere il nome dell’oggetto interdetto, alludendovi magari con una pausa o un gesto, oppure si può avvalere di diverse strategie lessicali che operano sul significato o il significante (Cardona 1976: 148), sostituendo il termine che designa in maniera diretta la nozione tabuizzata con traslati o altre espressioni che vi si riferiscono in maniera indiretta.
La più diffusa di tali strategie lessicali consiste nell’utilizzare parole o perifrasi di connotazione positiva o neutra, ai fini di attenuare la carica espressiva negativa che il termine interdetto, in quanto percepito come offensivo, osceno, crudo o comunque sgradevole, reca con sé. Il parlante ricorre in questo caso a eufemismi (dal verbo greco euphemí «parlar bene, dir bene»), ottenuti, ad es., attraverso strumenti retorici quali, tra i più frequenti, la ➔ metafora (uccello «organo sessuale maschile», lucciola «prostituta», ultimo viaggio «morte») e la perifrasi (casa di appuntamenti, male incurabile, amicizia particolare). Oppure potrà utilizzare pronomi e termini generali (fare cose, darla, una di quelle, roba); ricorrere a tecnicismi e a parole dotte (peripatetica, deiezione, necroforo, etilista), a parole appartenenti ad altre lingue (coitus interruptus, toilette, demi-vierge, call-girl, hot-line), a varietà infantili (pipì, popò).
Ma non tutte le sostituzioni sono eufemistiche. Il nome di Dio, ad es., che in molte religioni è proibito menzionare (da qui il comandamento dei cristiani: «Non nominare il nome di Dio invano»), è sostituito da nomi vari, diversi anche secondo la regione e la tradizione dialettale: padreterno, altissimo, signore, quello là che sta nei cieli, ecc. (Beccaria 20012). Particolarmente soggetti a sostituzioni lessicali di vario genere, pur non potendo essere definiti in sé come negativi o sgradevoli, sono i campi semantici relativi a stati fisiologici quali la gravidanza o il parto, a cui si allude con perifrasi ed espressioni come essere in stato interessante, aspettare un bambino, o anche aspettare la cicogna (col corrispondente è arrivata la cicogna «ha partorito»: Galli de’ Paratesi 1964: 102). Per «(essere) gravida, incinta» abbondano nei dialetti italiani termini come piena (diffuso in tutta la penisola), impregnata (dialetti meridionali), limpida (Emilia occidentale), gonfia(ta) (Lombardia orientale e varie aree venete), ecc.; e per «partorire»: comprare/accattare un bambino (a l’a kumprà ’n cit, a l’a katà ’n cit, «ha avuto un bambino», lett. «ha comprato», Piemonte; a kkattàtu, Puglia settentrionale, Salento; akkattà/akkattàu, Sicilia centrale), fare (Lombardia, Liguria, anche nel pisano), avere un figliolo (Lombardia, Veneto, Liguria), sgravarsi (Centro-Sud), liberarsi, ecc. (ALI 2008; carte n. 654 e 657). Un’altra strategia di sostituzione consiste nell’agire sul significante al fine di camuffare le parole interdette, ad es., con alterazioni (zio per Dio, putrella per puttana, caiser per cazzo), troncamenti (fa’ per faus «falso» nell’imprecazione piemontese diofà), ➔ sigle (TBC, HIV, WC).
È dunque evidente che l’interdizione – fenomeno di per sé extralinguistico e prelinguistico, innescato da motivazioni religiose, morali, psicologiche o sociali – ha ricadute notevoli sulle lingue, e che le sue diverse manifestazioni e le molteplici strategie per aggirarla sono state un potente agente di rimodellamento del ➔ lessico. La necessità di evitare certe parole infatti provoca da un lato la loro emarginazione nel vocabolario, d’altro lato favorisce l’ingresso di nuove parole e/o l’ampliarsi delle valenze semantiche di altre; queste potranno in seguito risultare a loro volta troppo esplicite ed essere dunque evitate, in quanto potenzialmente imbarazzanti (cfr., ad es., i casi di massaggiatrice o di membro). I confini del dicibile (cfr. Canobbio 2009) appaiono in effetti come il frutto di una continua verifica di quanto condiviso dai parlanti di una comunità, oltre che di una mediazione tra la loro libertà e le norme vigenti, sancite talvolta con la forza di una vera e propria censura.
Un inquadramento delle problematiche dell’interdizione linguistica e delle strategie per superarla è fornito da Galli de’ Paratesi (1964) che, presentando dati ricavati dalla lingua e dai dialetti dell’Italia ‘pre-Sessantotto’, permette di misurare attraverso questo filtro interpretativo le dimensioni del cambiamento culturale nel nostro paese nel quarantennio intercorso (Galli de’ Paratesi 2009: 139). I cambiamenti vanno analizzati su tre assi: «uno è quello delle aree semantiche colpite, un altro è quello dell’evoluzione dei sostituti linguistici […] e infine il terzo è quello della forza repressiva dell’interdizione».
Le trasformazioni più vistose sembrano avere interessato in questi ultimi decenni la sfera sessuale e quella scatologica, le cui parole anche più esplicite appaiono oggi decisamente risalite nell’accettabilità sociale grazie all’affermarsi di un costume comunicativo fortemente disfemico, non solo ‘sdoganato’ ma addirittura promosso dai media (televisione, pubblicità), che di fatto ha diminuito la forza coercitiva dell’interdizione nella coscienza dei parlanti (➔ insulti; ➔ parole oscene). Ben salda sembra invece rimanere l’interdizione linguistica sulla morte, con tutto il suo ricco corollario di parole eufemistiche (di cui offriva un ampio inventario ottocentesco Morandi 1883).
Ma interessante è soprattutto notare come si sia ampliata nel frattempo la sfera di interdizione del sociale. Essa è stata infatti investita, in modo più diretto di altre, dagli scrupoli del cosiddetto ➔ politically correct, spesso destinati a coprire realtà scomode e per questo socialmente interdette (immediatamente disponibile al lavoro per disoccupato, piani di alleggerimento per licenziamenti, pressione corporale per tortura, effetti collaterali per uccisione di civili).
Nuove interdizioni che caratterizzano la nostra come le altre società occidentali contemporanee sono, ad es., quelle che riguardano la vecchiaia e il peso corporeo, con una ricca fioritura di sostituti (terza età, capelli d’argento, evergreen, taglie generose, punti critici, extra-size).
Per quanto riguarda l’evoluzione dei moduli di sostituzione si può segnalare il sempre più deciso affermarsi dell’inglese come lingua eufemizzatrice per eccellenza; lo dimostrano i molti termini usati ormai correntemente dai media, senza glosse esplicative, in riferimento a referenti imbarazzanti (escort, embedded, contractor, rendition, ecc.).
Sull’interdizione linguistica, e sul suo mutare, suonavano già esplicite le osservazioni di Cicerone in una lettera all’amico Lucio Papirio Peto, datata tra il 44 e il 46 a.C. (Lettere ai familiari IX, xxii); vi si legge tra l’altro:
«anum» appellas alieno nomine; cur non suo potius? Si turpe est, ne alieno quidem; si non est, suo potius. Caudam antiqui «penem» vocabant […] at hodie penis est in obscenis «tu parli di ‘ano’ con nome traslato; perché non piuttosto col suo nome? Se è indecente, non dovresti usare neppure quello traslato; se non lo è meglio il suo. Gli antichi chiamavano la coda “pene” […] ma oggi pene figura tra i termini osceni»
Della continua dialettica tra eufemismo e disfemia, oggi particolarmente evidente (cfr. Allan & Burridge 1991), si hanno nei secoli infinite testimonianze letterarie. In particolare si trovano numerose le tracce della fioritura nelle lingue locali di espressioni nate per aggirare l’interdizione linguistica sugli organi sessuali, molte delle quali impiegate tuttora come strumenti espressivi e/o disfemici. Anche se la diffusa violazione di questo tabu sembra affidata oggi sempre più spesso a semplici espressioni di routine, con un progressivo impoverimento di un patrimonio lessicale accumulato nel tempo.
Significativo il seguente brano di Pietro Aretino che, nella «Prima giornata» del Ragionamento della Nanna e dell’Antonia (1534), esprime il fastidio della cortigiana Antonia per l’eccesso di eufemismi nei racconti di Nanna:
parla alla libera, e dì «cu’, ca’, po’ e fo’», che non sarai intesa […] con cotesto tuo «cordone nell’anello» […], «chiave nella serratura», «pestello nel mortaio», «rosignuolo nel nido» […], «la cotale», «il cotale», «le mele», «quel fatto», «il verbigrazia», «quella cosa», «quella faccenda» […]; ora dì sì al sì e no al no: se non, tientelo.
Tre secoli dopo, nel 1832, Giuseppe Gioachino Belli dedica allo stesso tema due sonetti, La madre de le sante e Er padre de li santi, nei quali presenta lunghe filze di sostituti eufemistici e no, del nome dell’organo sessuale femminile e maschile. Il primo (il n. 561) per es., così inizia:
Chi vvo’ cchiede la monna a Ccaterina
per ffasse intenne da la ggente dotta
je toccherebbe a ddi’ vvurva, vaccina,
[…].
Ma nnoantri fijjacci de miggnotta
dìmo scella, patacca, passerina.
ALI (2008) = Atlante linguistico italiano, diretto da M.G. Bartoli et al., Roma, Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato, 1995-, vol. 7º (La famiglia e le età dell’uomo. Carte 615-724).
Aretino, Pietro (2005), Ragionamento. Dialogo, a cura di P. Procaccioli, Milano, Garzanti.
Aretino, Pietro (1969), Sei giornate, a cura di G. Aquilecchia, Roma - Bari, Laterza (rist. 1975).
Belli, Giuseppe Gioachino (1978), Sonetti, a cura di G. Vigolo con la collaborazione di P. Gibellini, Milano, Mondadori.
Cicerone, Marco Tullio (2007), Lettere ai familiari, a cura di A. Cavarzere, Milano, Rizzoli, 2 voll.
Morandi, Luigi (1883), In quanti modi si possa morire in Italia, Torino, Paravia.
Allan, Keith & Burridge, Kate (1991), Euphemism & disphemism. Language used as shield and weapon, New York - Oxford, Oxford University Press.
Beccaria, Gian Luigi (20012), Sicuterat. Il latino di chi non lo sa. Bibbia e liturgia nell’italiano e nei dialetti, Milano, Garzanti (1a ed. 1999).
Canobbio, Sabina (2009), Confini invisibili: l’interdizione linguistica nell’Italia contemporanea, in La lingua come cultura, a cura di G. Iannàccaro & V. Matera, Torino, UTET, pp. 35-47.
Cardona, Giorgio R. (1976), Introduzione all’etnolinguistica, Bologna, il Mulino (nuova ed. Torino, UTET Università, 2006).
Galli de’ Paratesi, Nora (1964), Semantica dell’eufemismo. L’eufemismo e la repressione verbale con esempi tratti dall’italiano contemporaneo, Torino, Giappichelli (rist. con il titolo Le brutte parole. Semantica dell’eufemismo, Milano, Mondadori, 1969).
Galli de’ Paratesi, Nora (2009), Eufemismo e disfemismo nel linguaggio politico e nell’italiano di oggi, in Euphémismes et stratégies d’atténuation du dire, edité par R. Druetta & P. Paissa, «Synergies Italie» numero speciale, pp. 137-144.
Zelenin, Dimitri K. (1988-1989), Tabù linguistici nelle popolazioni dell’Europa orientale e dell’Asia settentrionale, «Quaderni di semantica» 9, pp. 187-316; 10, pp. 123-180, 183-276.