Tabu
Approdato a Tongatapu (isole Tonga) nel corso del suo primo viaggio nel Pacifico (1768), il capitano James Cook si era imbattuto nell'insolito costume che vietava a uomini e donne di mangiare insieme e in altre proibizioni che regolavano i pasti dei capi e della gente comune. La parola che definiva questi divieti, tabu, fu registrata durante il secondo viaggio (1772) e attraverso i resoconti della spedizione penetrò, già a partire dalla fine del XVIII secolo, nella lingua inglese e da lì in altre lingue europee (v. Steiner, 1956). All'incirca un secolo dopo, 'tabu' (variante tongana di tapu, la forma lessicale più diffusa in Polinesia), entrò a far parte del metalinguaggio dell'antropologia insieme ad altri termini di varia provenienza (clan, mana, totem) che avrebbero contribuito a connotare in senso 'primitivo' ed 'esotizzante' la nascente disciplina e il suo oggetto. Alla definitiva consacrazione del termine contribuì la pubblicazione, nel 1913, di Totem und tabu, opera per la quale Freud aveva attinto agli scritti di William Robertson Smith (v., 1889) e di James Frazer (v., 1910).
Il termine polinesiano tapu significa 'proibito', 'separato'. Nel gergo antropologico 'tabu' fu adottato come termine di carattere generale, riferibile a tutti i divieti che avessero a che fare con la natura 'speciale' di certe cose o persone: fra questi, quello di uccidere e consumare l'animale-totem al di fuori di appositi rituali, e quello di allacciare rapporti sessuali e/o matrimoniali con individui compresi in certe particolari categorie (tabu dell'incesto) assunsero subito un particolare rilievo. Già Émile Durkheim, pur facendone uso, aveva osservato quanto fosse "a sproposito trasformare così in un termine generico un'espressione strettamente locale" (v. Durkheim, 1912; tr. it., p. 306) e qualche decennio più tardi Alfred R. Radcliffe-Brown (v., 1952) avrebbe proposto di riservare 'tabu' al contesto polinesiano e di adoperare in tutti gli altri casi la forma inglese taboo. L'uso estensivo di questa nozione, dunque, sollevò ben presto problemi di definizione, analoghi, d'altronde, a quelli posti dalla maggior parte dei termini utilizzati in antropologia, i quali, tratti da una lingua e da una cultura particolari (di solito, quelle dell'antropologo), vengono applicati a fenomeni presenti in culture differenti, accomunati da un''aria di famiglia' a quello di partenza. A complicare ulteriormente le riflessioni classiche sul tabu intervennero il tentativo di ricondurre a un unico sistema concettuale questa nozione e quella di mana (v. Marett, 1909), il peso dei più o meno espliciti assunti evoluzionistici gravanti sulle speculazioni relative all'origine e all'essenza della magia e della religione e ai loro reciproci rapporti, e l'ingombro di preoccupazioni assiologiche alimentate dal "confuso dialogo" intrecciato, alla fine del XIX secolo, fra antropologia e teologia (v. Douglas, 1966; tr. it., p. 43).
Secondo Smith (v., 1889), i tabu ("restrizioni nell'uso umano delle cose, indotte dal terrore degli spiriti malefici e rafforzate dal timore di sanzioni sovrannaturali") assumevano di solito la forma di norme relative all'impurità e caratterizzavano pertanto le religioni primitive, nelle quali la distinzione fra contaminazione e indegnità morale era assente e il sovrannaturale si manifestava con il duplice volto del demoniaco e del divino. Frazer (v., 1888 e 1920) tentò a sua volta di generalizzare questa nozione, definendo il tabu "magia negativa" ("non fare X, affinché non si produca X1"). Durkheim (v., 1912), pur cogliendo le difficoltà operative di questa distinzione, raccomandava invece di tenere concettualmente distinti i 'tabu omeopatici' e i tabu veri e propri. I primi applicano la legge magica di similarità ('il simile produce il simile'), e la loro infrazione ha effetto solo sul trasgressore (per esempio, gli Eschimesi della Terra di Baffin vietano ai bambini un gioco con le cordicelle perché, da grandi, si impiglierebbero le dita nella sagola dell'arpione; v. Cazeneuve, 1971). Nel caso dei secondi, invece, è di solito assente ogni similitudine fra l'infrazione e i suoi effetti, e la violazione, producendo uno stato di 'contaminazione' che colpisce, assieme al responsabile, cose e persone che entrino in contatto con lui, suscita la pubblica riprovazione: in quanto interdetti di natura religiosa, essi costituiscono veri e propri 'imperativi categorici', mentre "gli altri sono massime utilitarie, forma primordiale dei divieti igienici e sanitari" (v. Durkheim, 1912; tr. it., p. 307).
Nella trattazione di Durkheim, la distinzione fra tabu omeopatici e tabu propriamente detti si sovrapponeva dunque a quella fra magia e religione. L'ambito del sacro è per definizione 'separato', e "un complesso di riti ha per obiettivo [...] di impedire mistioni e accostamenti indebiti" con le cose profane (ibid., p. 305). D'altra parte, osserva Durkheim, anche all'interno della sfera del sacro operano interdizioni che hanno lo scopo di separare tra di loro entità sacre di diversa natura (sacro puro, fasto, e sacro impuro, nefasto). Già l'inglese Robert Marett (v., 1909), individuando nel mana l'aspetto positivo (forza, potenza) e nel tabu l'aspetto negativo (separazione, interdizione) del 'sovrannaturale', aveva postulato la sostanziale ambiguità di questa dimensione. Su questa ambiguità riflette anche Robert Hertz (v., 1909), il quale muove dall'assunto che il mondo spirituale delle società primitive sia ordinato dall'opposizione sacro/profano, e che questa opposizione si sovrapponga a quella puro/impuro. Hertz riconosce la natura problematica di questa sovrapposizione (il sacro rischia sempre di contaminarsi al contatto col profano, e inoltre include, già di per sé, una quota di impurità), ma, in definitiva, postula un'"affinità di natura e quasi un'equivalenza tra il profano e l'impuro", che, in opposizione al dominio del sacro, "costituiscono insieme il polo negativo del mondo spirituale" (v. Hertz, 1909; tr. it., pp. 134-135).
La riflessione sul tabu, dunque, sollevava una serie di problemi: la coesistenza, in seno a questa nozione, di una connotazione negativa legata all'interdizione e di una positiva connessa al sacro; l'ambiguità della stessa dimensione sacrale; la questione del rapporto fra interdizioni e sfera morale e, più in generale, dell'attribuzione di valenze etiche alle religioni 'primitive'; gli interrogativi concernenti le relazioni (associazioni, opposizioni, sovrapposizioni) fra i termini ('magia', 'religione', 'sacro', 'profano', 'puro', 'impuro') utilizzati nella discussione. Alle questioni teoriche si accompagnavano problemi di ordine semantico derivanti dall'uso di parole tratte dai lessici dell'Occidente (già dense di connotazioni e associazioni), dalla scarsa comprensione dei termini locali, e da 'proiezioni' etnocentriche che rischiavano di dare luogo a veri e propri fraintendimenti, come quando si tradusse con 'Libro Sacro' un'espressione, Buka tabu, che nelle lingue della Melanesia occidentale designa la Bibbia, ma il cui senso è 'libro che può essere letto solo da alcune persone' (v. Leenhardt, 1922).
L'equivoco, d'altronde, era nato nel momento stesso in cui si era tradotta la coppia oppositiva tapu/noa con sacro/profano. Come osserva Marshall Sahlins (v., 1981), in Polinesia è tapu tutto ciò che, essendo ritualmente caratterizzato, deve essere preservato dal contatto con ciò che è haumia (contaminante) e con ciò che è noa (ritualmente non caratterizzato, grado-zero del sistema); ma è tapu anche ciò che, essendo haumia, è pericoloso sia per le cose ritualmente caratterizzate che per quelle noa: è tapu il capo, fonte di pericolo per i comuni mortali, ma anche un ruscello temporaneamente contaminato dagli escrementi di un neonato o dalle abluzioni dei partecipanti a un funerale (v. Hocart, 1933, p. 189). Proprio per sfuggire alle conseguenze derivanti dall'uso di termini problematici come 'sacro' e 'profano', gli studiosi contemporanei preferiscono tradurre l'opposizione tapu/noa con "ritualmente caratterizzato / ritualmente non caratterizzato" (v. Sahlins, 1981), o con "marcato / non marcato" (v. Maranda e Maranda, 1970). Anche i termini 'puro' e 'impuro' si prestano a distorsioni e forzature. Già nel Sofista platonico (226 b-e) la nozione di kàtharsis viene inizialmente utilizzata nel suo significato corporeo ('purga') e successivamente estesa a definire la purificazione della mente e dell'anima. Anche nelle lingue dell'Occidente contemporaneo, 'puro' e 'impuro' si riferiscono a realtà sia fisiche che morali, legate fra di loro da un rapporto che, per comodità, definiamo 'metaforico', e termini come 'impuro' e 'contaminante' evocano qualcosa di fisicamente o moralmente sporco e ripugnante. Su questi problemi torneremo più avanti. È però il caso di chiarire subito che, in culture differenti (e all'interno di una stessa cultura), sono tabu cose e persone la cui tipologia è alquanto diversificata (capi polinesiani e intoccabili indiani, guerrieri e donne mestruanti, animali ed escrezioni corporee), e che la contaminazione non implica necessariamente condanna morale o repulsione: per gli Gnau della Nuova Guinea, il sangue mestruale non è cattivo in sé, ma pericoloso per gli uomini (v. Lewis, 1980, p. 174); il divieto, presente fra i Semang della Malesia, di raccogliere l'acqua con un recipiente che abbia subito l'azione del fuoco, non esprime ripugnanza per l'uno o l'altro elemento, ma l'esigenza di tenerli distinti (v. Caillois, 1939, p. 27).
In definitiva, l'uso di questi termini, rischiosi ma pressoché inevitabili, è legittimo solo nella misura in cui chi vi fa ricorso si impegna, al contempo, nell'impresa di comprendere i significati e le logiche simboliche altrui.Il quadro teorico dell'antropologia contemporanea presenta comunque profonde trasformazioni rispetto a quello che caratterizzava l'antropologia classica: due nozioni originariamente connesse a quella di tabu (mana e totem) hanno subito radicali processi di decostruzione teorica (v. Guidieri, 1980; v. Keesing, 1984; v. Lévi-Strauss, Le totémisme..., 1962); magia e religione vengono frequentemente associate nelle riflessioni sulla razionalità e sui processi di conferimento di senso; termini come 'puro' e 'impuro' rivestono un ruolo cruciale nella più influente riflessione contemporanea sul tema della contaminazione, Purity and danger di Mary Douglas, dove però non hanno più un rapporto imprescindibile con il sovrannaturale, ma rimandano a questioni di natura categoriale e, in ogni caso, vengono calati all'interno di sistemi simbolici e scenari sociologici specifici; la stessa nozione di tabu è frequentemente sostituita da quella meno impegnativa di evitamento (un caso particolarmente familiare agli antropologi è l'evitamento della suocera da parte del genero, presente, in forme variabili, presso numerose società); infine, è ormai acquisito che i tabu non costituiscono l'esclusiva di società tradizionali e sistemi 'primitivi' di pensiero, ma che, con modalità diverse, operano in tutte le società, comprese quelle dell'Occidente contemporaneo (v. Leach, 1964; v. Douglas, 1966).
Historical metaphors and mythical realities di Marshall Sahlins analizza le trasformazioni intervenute nel sistema hawaiano dei tabu già a partire dai primi contatti, alla fine del XVIII secolo, fra nativi e navigatori inglesi.
Nella società hawaiana il sistema dei tabu pervadeva la vita quotidiana e interveniva direttamente nella caratterizzazione di cose, persone e gruppi sociali. In questa società gerarchicamente organizzata in ranghi i tabu concernevano innanzitutto i capi, sotto forma di rigide proibizioni relative a tutto ciò che entrava nel loro raggio d'azione (cibo, oggetti, persone) e di severe norme che regolavano il comportamento della gente comune, la quale doveva sottrarsi anche ai contatti visivi con questi personaggi, distogliendo lo sguardo e prostrandosi al loro passaggio. La qualità 'divina' (akua) dei capi toccava l'apice nel caso in cui questi fossero nati dall'incesto dinastico tra un fratello e una sorella: particolarmente 'potenti' e, di conseguenza, fonte di grande pericolo per i comuni mortali, essi uscivano solitamente di notte per evitare danni e inconvenienti a questi ultimi.
Essi stessi tabu, i capi avevano il potere di imporre o sospendere i divieti, come per esempio quelli relativi alla sfera economica: termine che, peraltro, non rende il senso delle concezioni hawaiane, dato che anche le cosiddette interdizioni economiche avevano una valenza religiosa ed erano organizzate secondo una logica sacrificale. D'altra parte, i tabu economici implicavano la tutela della proprietà, dunque "un aspetto che può diventare dominante nelle strutture pragmatiche del commercio" (v. Sahlins, 1981; tr. it., p. 63). È appunto quel che avvenne in seguito all'intensificarsi degli scambi commerciali con gli Europei, quando i capi hawaiani sfruttarono i loro poteri rituali per manipolare a loro vantaggio le interdizioni relative a beni e oggetti di scambio e conferire a esse una rilevanza inedita. Il commercio con gli Europei divenne così un fondamentale ambito di 'riordinamento' del campo semantico del tabu, e, come osserva Sahlins, attualmente alle Hawaii un cartello con su impressa la forma locale kapu significa 'divieto di accesso' ed evoca sanzioni tutt'altro che divine.
La connessione dei tabu con la sfera giuridica e la difesa della proprietà è stata oggetto di discussione fin dalle prime analisi antropologiche (v. Webster, 1942). Paul Huvelin (v., 1905-1906) sottolineava il carattere magico-religioso dei rapporti giuridici 'primitivi' e il ruolo dei tabu nel garantire la proprietà individuale e collettiva; Frazer (cit. in Cazeneuve, 1971) considerava i tabu relativi alla proprietà altrettanti strumenti di difesa dell'ordine vigente; a proposito delle isole Figi, Arthur M. Hocart osservava che "poiché il rituale è il solo sistema efficace di tutela della proprietà, laddove non ci sia un sistema di polizia organizzato la difesa dei 'sacri' diritti della proprietà si concentra nelle mani del potere centrale nella misura in cui vi si concentrano i poteri rituali" (v. Hocart, 1933, p. 268, e 1970). In ogni caso, è indubbio che, nella misura in cui sono dispositivi preposti a evitare contatti e passaggi incontrollati fra cose, persone e sfere di appartenenza, i tabu hanno a che vedere anche con l'ambito della proprietà e, pertanto, possono essere sfruttati ad hoc per difendere gli interessi materiali di certi individui o gruppi.
Nella società hawaiana i tabu intervenivano direttamente anche nella costituzione delle categorie di 'uomo' e 'donna' e i divieti alimentari (pasti assunti separatamente, alimenti vietati alle donne) svolgevano un ruolo fondamentale nel marcare questa distinzione. In quanto 'sacrificatori' del quotidiano culto domestico, gli uomini erano tabu per le donne, e queste ultime, di norma noa ('ritualmente non caratterizzate'), divenivano 'contaminanti' (haumia) per gli uomini in certe particolari circostanze (parto, mestruazioni). In definitiva, gli uomini erano per le donne quello che i capi erano per il popolo, secondo lo schema analogico: capo: popolo=uomo: donna=tapu: noa.
I rapporti fra marinai inglesi e hawaiane (che a bordo consumavano i pasti in compagnia maschile e mangiavano cibi a esse interdetti) comportarono, come gli scambi commerciali dei capi, radicali cambiamenti nel sistema dei tabu e la ridefinizione sia delle donne hawaiane che degli stranieri. Considerati akua ('divini') al momento del loro arrivo, i marinai inglesi non furono più tali dopo aver subito contatti contaminanti con le donne, ma non per questo persero il loro mana, dato che sfidare un tabu e sopravvivere era il segno di un mana straordinario. In generale, secondo la concezione polinesiana, essere akua comportava automaticamente essere tabu e possedere un mana potente, ma la relazione non funzionava in senso inverso; inoltre, chi viveva al di fuori dell'ordine costituito, senza tabu, era in uno stato ambiguo: secondo i Maori, per esempio, il girovago senza legge era spregevole come un cane randagio, ma al contempo era sottratto, come gli dei, al potere della società (v. Sahlins, 1981; tr. it., p. 76).
Quanto abbiamo appena detto mette in luce lo stretto rapporto che, in Polinesia, connetteva ordine costituito e operare dei tabu (che, infatti, venivano sospesi durante il periodo di vuoto istituzionale che seguiva la morte di un capo) e, attraverso la condizione ambigua dei marinai inglesi e dei girovaghi maori, evoca quei processi di inversione logica e rituale che, mettendo in atto forme 'controllate' di trasgressione, sfruttano la potenza del disordine (v. Cazeneuve, 1971). Il rovesciamento di segno rispetto al sistema dei tabu opera nella manipolazione magica di sostanze 'impure' (sangue, escrementi); processi di inversione si verificano nel corso di rituali che prevedono azioni e presenze 'contaminanti': rapporti sessuali tra persone tra le quali essi sono di norma severamente vietati, o la partecipazione di una donna mestruante ai riti preparatori di una spedizione di caccia. Come osserva Douglas, infatti, "nel disordine non vi è un modello, ma un infinito potere di crearne. [...] Riconosciamo che è distruttivo per i modelli esistenti, ma anche che ha delle potenzialità. Esso simboleggia sia il pericolo che il potere" (v. Douglas, 1966; tr. it., p. 149).
Nel cap. 5 di Homo hierarchicus Louis Dumont (v., 1966) descrive il processo di 'segmentazione' che, attraverso le svariate declinazioni dell'opposizione puro/impuro, ordina la società indiana in una struttura gerarchica (caste) i cui vertici sono occupati da individui caratterizzati dal massimo grado di purezza rituale, i brahmani, e i livelli più bassi da specialisti il cui lavoro implica il contatto con sostanze contaminanti (becchini, conciatori, barbieri, lavandai, ecc.). La contaminazione è un pericolo costante, e la purezza, compromessa dal contatto con cibi, sostanze e persone contaminanti, deve essere ripristinata per mezzo di rituali di purificazione che scandiscono la giornata e il complesso dell'esistenza individuale. L'opposizione puro/impuro, inserita nel quadro di credenze relative alla trasmigrazione delle anime e all'assunzione di una condizione più o meno elevata alla reincarnazione successiva, struttura sia la divisione dei sessi (in generale, a pari condizioni sociali le donne sono più impure degli uomini), sia la divisione del lavoro, instaurando rapporti inevitabilmente asimmetrici e governati, come dice Dumont, da una logica 'paradossale', dato che l'impurità di certe persone è il presupposto della purezza di altre.
Purezza e impurità sono dunque proprietà relative di cui gli individui sono portatori in un grado che varia con il sesso, con la casta e con fattori contingenti; per converso, il potere contaminante si esercita in misura differente su persone che occupano posizioni diverse all'interno del sistema: quel che è impuro per un brahmano (particolarmente puro e, pertanto, esposto più di ogni altro alla contaminazione) non lo è - o non lo è nell'identico grado - per chiunque. Il quadro che abbiamo rapidamente delineato è tipicamente indiano e, come osserva Dumont, sarebbe errato 'esportarlo' altrove. A questo proposito Dumont sottolinea l'andamento radicalmente diverso assunto dalla 'freccia della contaminazione' in relazione alle figure che occupano i vertici del sistema sociale in India e nelle isole Figi (v. Hocart, 1936): i brahmani, particolarmente vulnerabili, si proteggono dai contatti col mondo esterno per mezzo dei tabu, mentre i capi polinesiani sono essi stessi fonte di pericolo per i comuni mortali, e i tabu che li concernono mirano soprattutto a preservare l'incolumità di questi ultimi.
Nelle rappresentazioni indiane relative alla contaminazione, l'impurità permanente degli intoccabili è assimilata a quella temporanea derivante dal contatto con sostanze e persone impure. In entrambi i casi, osserva Dumont, la fonte della contaminazione risiede negli aspetti organici della vita, e le impurità fondamentali hanno a che vedere con le secrezioni corporee, le mestruazioni, la nascita e la morte, la mano sinistra (riservata ai contatti con le sostanze contaminanti). Più avanti torneremo sulla questione dell'impurità organica e del suo radicamento in un atteggiamento 'naturale' di repulsione, ma già adesso possiamo fare alcune rapide osservazioni. Per esempio, seguendo le riflessioni di Hertz (v., 1909) sull'opposizione destra/sinistra, possiamo chiederci se la svalutazione della mano sinistra, in India come altrove, non rappresenti, piuttosto che il mero riflesso di un'asimmetria organica, la manifestazione particolare di una più generale 'disposizione' a enfatizzare e manipolare simbolicamente scarti, differenze e asimmetrie. Quanto agli escrementi, gli Indiani li considerano impuri ma, come ricorda Dumont, questo giudizio non si estende a quelli di vacca che, al contrario, possiedono un potere purificatore. Douglas osserva a sua volta che l'atteggiamento degli Indiani di casta elevata nei confronti di escrementi, rifiuti e impurità di varia natura sembra essere, piuttosto che di disgusto e repulsione, di "sciatta indifferenza", indice del fatto che ciò che opera è "un sistema simbolico basato sull'immagine del corpo", il cui "fine principale è l'ordine di una gerarchia sociale": piuttosto che costituire l'origine della sanzione sociale, l'impurità, suggerisce Douglas, è in effetti fondata da quest'ultima (v. Douglas, 1966; tr. it., p. 191; sul rapporto fra elaborazioni simboliche della corporeità e diversificazioni sociali, v. anche Douglas, 1970).
Uno scenario alquanto diverso da quelli considerati finora ci viene offerto dalla ricerca condotta da Gilbert Lewis fra gli Gnau della Nuova Guinea, società non gerarchizzata e priva di 'specialisti dell'ideologia', nella quale l'apprendimento (compreso quello concernente le interdizioni) "è più una questione di pratica e di esperienza, di osservazioni causali che spiegano o interpretano, di punti di vista individuali, che d'insegnamento coerente e intenzionale di un corpus di idee e dottrine" (v. Lewis, 1980; tr. it., p. 135).
Fra le interdizioni vigenti in questa società, quelle relative all'alimentazione occupano un largo spazio, ma nonostante che per gli Gnau siano pochissimi i cibi neutri (vale a dire, cibi che vadano bene per tutti e in tutti i momenti della vita), le valenze degli alimenti sono il prodotto di associazioni così varie e di valutazioni così elastiche da rendere pressoché impossibile l'enucleazione di uno schema stabile e rigidamente definito. Le restrizioni, articolate lungo un continuo che va dal 'si deve' al 'si dovrebbe', non si limitano infatti a segnalare e riflettere i rapporti sociali, ma, attraverso le modalità duttili e spesso soggettive della loro applicazione, finiscono con il plasmare e modificare questi rapporti. Un'altra caratteristica delle interdizioni gnau (tale da mettere in questione la distinzione durkheimiana fra tabu omeopatici e tabu propriamente detti) è il loro carattere strettamente 'personale': ogni adulto risponde di se stesso, dato che, in definitiva, a essere in gioco sono la sua salute e il suo successo. I commenti degli Gnau sui tabu alimentari e sulle conseguenze derivanti dall'infrazione, osserva Lewis, insistono soprattutto sul successo bellico e venatorio in relazione agli uomini, e soprattutto sul matrimonio, la procreazione e la vita familiare in relazione alle donne, ma non si tratta di una regola rigida, dato che questioni di ordine familiare possono essere invocate anche nel caso degli uomini. L'unica cosa certa è l'esistenza di un rapporto fra restrizioni alimentari e sviluppo delle potenzialità umane; ma la stessa connessione di causa-effetto fra i due ambiti "non è fissata in modo coerente, e spesso può muoversi in un senso o nell'altro" (ibid., p. 212). Lewis osserva anche che le regole concernenti l'alimentazione animale e gli effetti dell'infrazione sembrano avere a che fare soprattutto con la realizzazione 'attiva' di cose e imprese, mentre quelle attinenti all'alimentazione vegetale sembrano maggiormente connesse ai processi di crescita dell'organismo umano, dunque a eventi sui quali è più difficile intervenire.
Queste osservazioni rappresentano il massimo di speculazione che Lewis (studioso estremamente cauto nell'attribuire ai suoi interlocutori indigeni interpretazioni che essi non abbiano espresso in modo esplicito, e assai severo nello stigmatizzare la tendenza degli antropologi a ricercare a ogni costo coerenza e 'sistema') può concedere ai suoi lettori. Esse ci fanno riflettere, oltre che sul diverso grado di sistematicità ed elaborazione esplicita assunto dal sistema dei tabu nelle diverse società, sul ruolo svolto dall'antropologo nella 'costituzione' del sistema stesso. Uno studioso strutturalista, meno preoccupato di aderire a interpretazioni native e significati coscienti, avrebbe probabilmente 'forzato' i dati gnau, organizzandoli in una struttura articolata attorno alle opposizioni maschile/femminile, produzione/riproduzione, animale/vegetale, attivo/passivo.
Come abbiamo già detto, la riflessione attuale sul tabu e la contaminazione si confronta con significati 'locali' e scenari socioculturali particolari. Mary Douglas (v., 1966) concilia questa esigenza di contestualizzazione con l'enucleazione di una costante concettuale interpretando le interdizioni e le rappresentazioni relative all'impurità come il prodotto inevitabile dei sistemi di classificazione, i quali, di per sé, generano reazioni di rifiuto nei confronti dei fenomeni che mettono in questione (in pericolo) la classificazione stessa. Già Arnold Van Gennep (v., 1909) aveva messo in luce il carattere inquietante dei 'margini' (soglie, confini, stati di transizione) e aveva descritto i dispositivi rituali (riti di passaggio) mediante i quali si viene simbolicamente a patti con essi. Douglas sostiene a sua volta che fonte primaria di rischio e contaminazione sono ovunque entità che, in qualche modo, mettono a repentaglio l'integrità e la coerenza di un sistema: le fasi di passaggio (durante le quali qualcosa non è più e non è ancora: pubertà, gravidanza, nascita, morte), gli orifizi corporei ('confini' fra l'interno e l'esterno del corpo) e le sostanze che essi emettono (escrementi, sangue mestruale, escrezioni di varia natura), le parti del corpo tagliate o separate (unghie, capelli), specie animali che "sono membri imperfetti della loro classe, o la cui classe stessa rende ambiguo il disegno generale del mondo" (v. Douglas, 1966; tr. it., p. 92). Nel Levitico e nel Deuteronomio sono 'abominevoli' (e oggetto di divieto alimentare) tutti gli esseri che brulicano o strisciano sul ventre, gli animali, come il cammello, che ruminano ma non presentano (come i veri ruminanti) lo zoccolo fesso, il maiale, che ha lo zoccolo fesso ma non rumina, gli animali che vivono nell'acqua ma non possiedono pinne e squame. Tra i Lele del Kasai (ex Zaire), "gran parte della loro cosmologia e del loro ordine sociale si riflette nelle loro categorie animali; certi animali e certe parti di essi sono un cibo adatto solo agli uomini, altri solo alle donne, altri solo ai bambini e altri ancora solo alle donne gravide. In un modo o in un altro gli animali che essi rifiutano perché non sono adatti per essere consumati da uomini o da donne si rivelano ambigui secondo il loro schema di classificazione", come per esempio gli scoiattoli volanti, che non sono uccelli ma volano (ibid., p. 250). Ma sono hama ('contaminanti') e non commestibili anche gli animali domestici, i quali non vivono fuori del villaggio (dove tutti gli animali dovrebbero stare) ma all'interno dei suoi confini.
Per Douglas, dunque, il dispositivo simbolico della contaminazione scatta di fronte alla vulnerabilità delle linee di confine tracciate fra le cose, e l'impurità, lungi dal costituire un evento isolato e dal riflettere proprietà intrinseche all'agente contaminante, sussiste solo in relazione a un sistema: "le idee di contaminazione hanno senso soltanto se sono riferite a una struttura globale di pensiero la cui chiave di volta, i cui confini, margini esterni e linee interne siano mantenuti in relazione da rituali di separazione" (p. 75). Il carattere strutturale, piuttosto che sostanziale, del puro e dell'impuro, e la varietà delle direzioni lungo le quali, in società differenti, distinzioni e interdizioni marcano e separano cose, fenomeni e persone, esigono l'adozione di una prospettiva contestualizzante e l'enucleazione delle relazioni che, di volta in volta, connettono i termini di un certo particolare sistema. Affermare che dietro la contaminazione c'è sempre una reazione di rifiuto di fronte a ogni oggetto o idea che possa contraddire le classificazioni cui siamo legati implica che al binomio tabu/contaminazione non è intrinseco un giudizio morale, e che esso non comporta necessariamente speculazioni sul sacro e il profano e radicali differenze fra 'primitivi' e 'moderni'.
Le nostre idee dello sporco e dell'impuro, osserva Douglas, sono dominate, a partire dallo sviluppo della batteriologia nel XIX secolo, dalla consapevolezza dell'esistenza di agenti patogeni. Ma questo non significa che le nostre rappresentazioni relative alla sporcizia e all'impurità siano sempre 'razionali'. Le giustificazioni igieniche che noi diamo delle nostre astensioni (per esempio, non lavare insieme certe cose, non utilizzare determinati oggetti per un certo scopo) sono spesso del tutto infondate, a conferma del fatto che lo 'sporco' è il sottoprodotto di un'ordinamento culturale e di una classificazione sistematica delle cose. Dobbiamo dunque aspettarci che dovunque ci sia lo sporco ci sia il sistema, e ammettere che anche i nostri comportamenti relativi alla sporcizia e all'impurità implicano rappresentazioni di natura squisitamente simbolica. Semmai, la differenza fra noi e loro (fra 'moderni' e 'primitivi') risiede "nel fatto che noi non trasferiamo lo stesso ordine di simboli [...] da un contesto all'altro [...]. I nostri rituali creano una quantità di sottomondi, senza relazione tra loro, mentre i loro creano un unico universo, coerente dal punto di vista simbolico" (pp. 111-112). Inoltre, per noi la contaminazione è una questione di estetica, di igiene o di galateo, e il controllo sulle infrazioni si esercita per mezzo di sanzioni sociali (critiche, pettegolezzi), mentre in molte altre società umane la contaminazione può costituire un'offesa religiosa.
Come il 'sovrannaturale', anche il giudizio morale non è, per Douglas, intrinseco alle nozioni di tabu e contaminazione, ma questo assunto non si traduce in un'adesione al pregiudizio, diffuso all'inizio del secolo, che le rappresentazioni primitive relative alla contaminazione non avessero niente a che fare con la morale. Semmai, alcuni comportamenti possono venir giudicati moralmente riprovevoli e però non dare origine a credenze sulla contaminazione, mentre altri, nonostante non siano considerati particolarmente deprecabili, vengono ritenuti contaminanti e, dunque, pericolosi. La mappa delle credenze nella contaminazione "in questo o quel punto tocca i confini della moralità, ma [...] in nessun modo è coerente con essa" (p. 203); i punti di contatto variano con le diverse società e, di conseguenza, la loro identificazione esige la comprensione di scenari socioculturali particolari.
In generale, i dati discussi da Douglas sembrano suggerire che l'idea della contaminazione serva, ancora una volta, a 'mettere ordine' e 'fare chiarezza' in presenza di principî morali incerti o contraddittori, e che essa, aggravando l'entità della trasgressione, possa contribuire a rafforzare la disapprovazione morale. La contaminazione è pure chiamata in causa ogniqualvolta una violazione rischia di restare impunita; al contrario, è improbabile che ci si appelli a essa quando la trasgressione è seguita infallibilmente da una sanzione sociale o è ammesso il ricorso 'privato' alla violenza e alla coercizione fisica: per esempio, tra i Walbiri dell'Australia centrale le donne sono totalmente sottomesse agli uomini e, non a caso, sono assenti credenze nella contaminazione sessuale, come per esempio quelle relative al sangue mestruale.
Come osserva Giorgio Cardona (v., 1976, p. 143) "la più forte dimostrazione del rapporto fra lingua e cultura è il fenomeno dell'interdizione linguistica". I tabu linguistici (divieti perenni o temporanei di pronunciare certe parole) costituiscono presumibilmente un fenomeno universale, ma la loro occorrenza è governata da un elevato numero di variabili: età, sesso, status, epoca dell'anno, occasione (guerra, caccia, sacrificio). Anche l'elenco di ciò che può essere colpito da divieto è vario e vasto: cose che hanno attinenza con la sfera religiosa, fenomeni naturali, parti del corpo, funzioni sessuali ed escretorie, nomi personali, morte, malattia e difetti fisici, nomi di animali, ecc. Le motivazioni, pertanto, andranno cercate caso per caso, nei sistemi di credenze delle varie culture.
In Anthropological aspects of language: animal categories and verbal abuse di Edmund Leach, i tabu linguistici relativi al mondo animale sono posti in relazione con altri fenomeni di natura linguistica e culturale. L'approccio di Leach risente indubbiamente dell'influenza di Mary Douglas, ma è caratterizzato dall'importanza data ai meccanismi inconsci (inibizione, repressione, rimozione) che strutturano il rapporto fra mondo umano e animalità, considerato sia nei suoi aspetti linguistici (tabu, eufemismi, metafore, animal abuse, cioè espressioni offensive che equiparano un essere umano a un animale e che rimandano invariabilmente alla sfera sessuale), sia in quelli non linguistici (tabu alimentari). L'analisi dei comportamenti linguistici svela l'interdipendenza fra la classificazione linguistica che, denominando, distingue e separa le cose, e il processo di tabuizzazione che, invece, "inibisce il riconoscimento di quelle parti del continuum che stanno tra le cose" (v. Leach, 1964, p. 35); mentre la riflessione sui tabu alimentari mostra che, accanto ai tabu espliciti, operano meccanismi inconsci di rimozione: discostandosi dal più diffuso uso antropologico (tabu come sinonimo di 'interdizione esplicita'), Leach estende pertanto questa nozione fino a includervi "tutte le classi di proibizione alimentare, esplicite e implicite, conscie e inconscie" (ibid., p. 30).
Nel caso dei tabu alimentari espliciti gli animali proibiti sono percepiti come potenzialmente edibili, tanto da poter essere eventualmente consumati in certe particolari situazioni rituali (come osserva anche Lewis - v., 1980 - questi divieti traggono infatti la loro forza dai loro contrari: la liceità e la possibilità). Nel caso dei divieti inconsci, invece, un certo animale, per esempio, nella cultura occidentale, un animale selvatico o un pet (l''animale di casa': il cane, il gatto, il canarino, ecc.), non viene percepito come possibile cibo (è 'rimosso' come tale) e, pertanto, non c'è ragione di vietarne esplicitamente il consumo. Sia i tabu espliciti che quelli inconsci sono dispositivi di natura culturale; essi, afferma Leach, non sono distribuiti a caso, ma organizzati in un sistema coerente e culturalmente motivato.
Leach individua nella 'distanza da Ego' (cioè, con un'espressione meno tecnica, nella 'distanza da un Sé umano') la nozione che ci permette di ricostruire il sistema e di dar conto delle relazioni fra distanza spaziale, commestibilità degli animali e proibizioni matrimoniali (per inciso, già Lévi-Strauss aveva postulato un'associazione di carattere metaforico fra 'consumo' sessuale e 'consumo' alimentare). Questa prospettiva, secondo Leach, si rivela fruttuosa sia nel caso di una società tradizionale, come quella kachin della Birmania, sia se la applichiamo a una società occidentale contemporanea, come quella inglese. In quest'ultimo caso, per esempio, i tre insiemi possono essere così ordinati, secondo il parametro della vicinanza/distanza rispetto a un Ego di sesso maschile:
a) Sé sorella cugina vicina estranea;
b) Sé casa fattoria campagna spazio remoto;
c) Sé pet bestiame selvaggina animali selvatici.
In questa sede non è possibile dare conto di tutte le implicazioni linguistiche e comportamentali che Leach è in grado di trarre da questo schema. Ci limitiamo a osservare che i tre insiemi sono correlati fra loro da un rapporto analogico che rende possibile sia la costruzione di enunciati relativi al mondo umano (insieme a) per mezzo di termini tratti dall'insieme c, sia l'elaborazione di equivalenze simboliche fra la relazione umano-animale, da un lato, e le relazioni sessuali e matrimoniali (umano-umano) dall'altro: per esempio, fra il divieto di incesto con la sorella e la non edibilità dei pets, fra l'ambiguità (amicizia/ostilità) delle relazioni stabilite dal matrimonio e lo status ambiguo della selvaggina, fra le donne estranee, con le quali non si intrattengono relazioni sociali di alcun tipo, e gli animali selvatici, con i quali non si hanno contatti e che sono inedibili (come i pets, ma, in questo caso, per un eccesso di 'distanza').
I dispositivi linguistici, i comportamenti simbolico-rituali e i tabu che governano il rapporto con l'animalità (edibilità, modalità dell'uccisione, contatti, ecc.) non agiscono dunque isolatamente e in modo casuale, ma "sono collocati nella mappa a intervalli, in modo tale da spezzare il continuum in sezioni. Il tabu serve a separare il Sé dal mondo, e pertanto il mondo stesso è suddiviso in aree di distanza sociale" (v. Leach, 1964, p. 53). Come possiamo aspettarci, i tabu operano con maggior forza nei casi ambigui: in Inghilterra la volpe è un animale ai margini fra campagna e foresta, e, per di più, assimilabile a un pet, il cane; non è un caso quindi che la sua uccisione sia praticata nel corso di un vero e proprio rituale scandito da tabu, eufemismi e inversioni linguistiche.
Punti in comune con l'analisi di Leach sono presenti nella ricerca condotta da Stanley Tambiah in Thailandia, anche se questo studioso, prendendo le distanze da approcci che implicano "un impoverimento del contenuto semantico a favore della forma" (v. Tambiah, 1985; tr. it., p. 243), ricorda che gli animali selezionati nei diversi contesti come oggetto di tabu e di comportamenti simbolico-rituali sono efficaci personificazioni di idee ad alta intensità emotiva, oltre che concettuale.Il rapporto fra gli abitanti dei villaggi thailandesi e il mondo animale, esprimibile mediante relazioni metaforiche e metonimiche, mostra, secondo Tambiah, la coesistenza di due atteggiamenti in perenne tensione reciproca: da un lato, la consapevolezza dell'affinità fra uomo e animale, rivelata da correlazioni (fra differenziazioni relative agli animali di terra, regole sessuali e suddivisioni dello spazio domestico) che associano questi insiemi in un unico universo morale; dall'altro, l'esigenza di tracciare un confine fra mondo animale e mondo umano e, più in generale, fra natura e cultura. I tabu operano con più vigore quando questo confine appare particolarmente vulnerabile: la scimmia non ha rapporti metonimici (effettivi contatti) con il mondo umano, ma è "portatrice di una somiglianza metaforica con l'uomo e dell'immagine della sua degradazione nel selvaggio. Il tabu alimentare nei suoi confronti rispecchia tale rifiuto fisico e sociale" (ibid., p. 249).
Nella trattazione di Douglas proibizione e contaminazione sono strettamente interdipendenti, e i termini 'impurità' e 'sporcizia' praticamente intercambiabili, dato che a essere in gioco non sono mai proprietà sostanziali, intrinseche agli agenti contaminanti, ma proprietà strutturali, cioè i valori assegnati a essi all'interno di un sistema. Questi assunti sono oggetto della critica di Luc de Heusch (v., 1971), secondo il quale è indispensabile operare una distinzione fra sistema della contaminazione e sistema della proibizione. Il primo, sostiene Heusch, è radicato in reazioni istintive di rifiuto e disgusto di fronte a certi aspetti e componenti del reale (il cadavere, la mostruosità, la sporcizia) e si struttura attorno allo 'sporco' (inteso, nel suo significato primario, come una proprietà sensibile dell'esistente) e alle sue metafore; il secondo, implicando relazioni sociali e giudizi morali, fonda invece un ordine di natura squisitamente culturale. Tra i due sistemi vengono universalmente operate trasformazioni che, però, non danno sempre luogo a una completa sovrapposizione. Un caso esemplare di fusione tra i due codici è costituito dal sistema indiano delle caste, nel quale i diversi tipi di contaminazione sono concettualmente assimilati e l'opposizione puro/impuro è strettamente associata al sistema delle proibizioni, alle credenze religiose e al complesso dell'organizzazione sociale. Un altro esempio è offerto dal Levitico e dal Deuteronomio, che presentano un quadro concettuale 'compatto' e fortemente marcato in senso etico-religioso, nel quale l'infrazione dei divieti produce inevitabilmente contaminazione, e quest'ultima comporta la perdita del contatto con Dio. Altrove, invece, il rapporto fra sistema della contaminazione e sistema della proibizione non è imprescindibile, e Heusch cita, a questo proposito, proprio due casi trattati da Douglas. Tra i Nuer del Sudan, il sistema della contaminazione interseca (ma non coincide con) il sistema delle proibizioni e la sfera del giudizio morale, e l'impurità (nueer, rual) causata da certe violazioni non ha nulla a che vedere con lo 'sporco' organico. L'altro esempio è costituito dai Lele, che considerano contaminanti (hama) gli animali inedibili (oltre agli animali domestici, lo scoiattolo volante, le uova di uccello, le rane, i rospi, i serpenti, i vermi) e una serie di altre entità (le escrezioni corporee, le ferite purulente, i cadaveri, gli stregoni maligni). Gli stessi Lele tengono però concettualmente ben distinti gli animali di cui non ci si ciba perché sono considerati 'ripugnanti', ma il cui consumo non comporta sanzioni, e gli animali sui quali grava esplicitamente un divieto ma che non ispirano repulsione, come gli animali-spiriti (il babbuino, il pangolino cucciolo, ecc.) il cui consumo è interdetto solo alle donne (casi che Sahlins - v., 1976 - ricondurrebbe a un meccanismo culturale che sembra essere universalmente diffuso: la trasmissione, mediante differenziazioni alimentari, di messaggi relativi a confini e gerarchie sociali, a rapporti di inclusione/esclusione, ecc.). Le diverse entità cui si applica la nozione di hama offrono a Marc Augé (v., 1980) l'occasione di sollevare alcune questioni relative alla metaforizzazione delle realtà organiche e al fondamento 'naturale' dell'impurità. Augé osserva che, se è innegabile che "tutte le realtà chiamate hama siano percepite intellettualmente come aventi un rapporto reciproco", non lo è altrettanto che da questa qualifica si possa dedurre "il carattere ugualmente e oggettivamente 'ripugnante' di tutte le realtà che la condividono" e che esse "siano tutte in rapporto metaforico con le più organiche tra di loro" (ibid., p. 452). Lo studioso francese sottolinea la difficoltà di tracciare il confine fra letterale e metaforico, e avanza seri dubbi sul fatto che delle associazioni metaforiche possano, di per sé, dar luogo a un sistema; in ogni caso, le realtà organiche ci si mostrano già inscritte all'interno di costrutti simbolici dove esse sono definite in termini di compatibilità e incompatibilità logica con altre realtà. È il caso di osservare, a questo punto, che le relazioni di carattere metaforico e quelle di tipo analogico hanno implicazioni diverse per quanto riguarda il ruolo assegnato a proprietà sensibili e reazioni istintive nei processi di elaborazione simbolica. Le metafore pongono in relazione, sulla base di una proprietà comune, due termini isolati appartenenti a due diversi domini dell'esistente, e, nonostante siano anch'esse frutto di selezione e manipolazione culturale, lasciano potenzialmente più spazio alle qualità sensibili e a processi simbolici di carattere universale. Nel caso delle analogie, invece, si colgono affinità strutturali fra due o più domini, i quali vengono organizzati in sistema dalle relazioni stabilite fra di essi. Non è un caso che l'analogia svolga un ruolo centrale nella riflessione di uno studioso strutturalista come Leach, e che invece autori come Heusch (che si interroga sui fondamenti organici della contaminazione) o come Tambiah (che stigmatizza il privilegiamento del sistema a scapito del contenuto semantico) prestino più attenzione ai processi metaforici.
Respinta l'idea che i sistemi di contaminazione costituiscano il riflesso di proprietà sensibili e reazioni istintive, Augé si rifiuta però di ridurre la fisicità a mera espressione di ideologie e relazioni sociali e di ignorare il fatto che certe sostanze fisiche immediatamente percepibili, come il sangue, lo sperma, gli escrementi, l'acqua, e alcuni eventi fondamentali, come la nascita, la copula, la malattia, la morte (sostanze ed eventi che, oltretutto, si presentano associati nella realtà), siano oggetto ovunque di un trattamento particolare. A essere universale, ricorda Augé, non è però la ripugnanza che queste realtà organiche e fisiologiche ispirerebbero ma, piuttosto, il fatto che esse si presentano "necessariamente in tutto il genere umano come il materiale elementare e, contemporaneamente, l'oggetto principale di ogni riflessione sulla società" (ibid.).
Il tema del sangue mestruale si presta a concludere questa riflessione, dato che esso è fatto oggetto di un'attenzione pressoché universale ma, d'altra parte, viene declinato variamente in società diverse. Nel suo articolo sulla contaminazione sessuale fra i Samo del Burkina Faso, Françoise Héritier (v., 1973) mostra che i valori del sangue mestruale e di quello del parto sono definiti all'interno di un sistema simbolico generato dalle relazioni fra le coppie oppositive maschile/femminile, caldo/freddo, uguale/diverso. Douglas (v., 1966) connette le variazioni sul tema del sangue mestruale e della contaminazione sessuale ad altre diversificazioni locali, e riflette in particolare sul caso della Nuova Guinea, dove il timore della contaminazione sessuale è diffuso ma assume forme variabili a seconda delle società. Per esempio, tra gli Arapesh vige un modello simmetrico: il sangue femminile (che, non più espulso all'esterno nel corso della gestazione, nutre i nascituri nel grembo materno) e quello maschile (che, mediante il salasso penico, nutre i bambini dopo la loro nascita) sono, come più in generale la femminilità e la mascolinità, ugualmente potenti e reciprocamente pericolosi; di conseguenza, una serie di tabu regola, in entrambe le direzioni, i contatti fra i due sessi. Fra i Mae Enga, invece, la relazione è asimmetrica, e le donne sono fonte di contaminazione per tutte le imprese maschili.Impresa maschile, la caccia comporta di solito una serie di tabu che gravano sulle donne e che gli antropologi (aderendo alle interpretazioni fornite dai loro informatori indigeni) tendono a spiegare con l'impurità attribuita al sangue mestruale e, più in generale, alla condizione femminile. Un'interpretazione diversa viene proposta da Maria Arioti (v., 1980). Nelle società di cacciatori-raccoglitori i tabu rivolti alle donne concernono soprattutto le armi e l'alimentazione. Durante le prime mestruazioni (e di solito anche durante le successive), nonché in occasione della gravidanza e del parto, le donne sono soggette a una serie di divieti alimentari, accomunati dal fatto che i cibi interdetti sono sempre derivati dalla caccia o simbolicamente associati all'alimentazione carnea. Le conseguenze che sono fatte derivare dalla rottura del tabu sulle armi o da quello alimentare sono le più varie, come diversissime sono le sanzioni comminate, ma le une e le altre sono giustificate dagli interessati con l'impurità femminile e il pericolo che essa comporta per gli uomini e la riuscita delle imprese venatorie. Arioti sostiene invece che a essere realmente in pericolo sono la donna e la sua prole, non il cacciatore e la sua preda, e che il sangue effettivamente impuro non è quello femminile, ma quello sparso dall'uomo con l'uccisione dell'animale. Nelle società di cacciatori-raccoglitori, sostiene l'autrice, opera costantemente questo sistema di equivalenze: armi-organi sessuali maschili, coito-uccisione, ferite dell'animale-organi sessuali femminili, figlio (prodotto dell'attività riproduttiva femminile)-animale (prodotto dell'attività produttiva maschile). Il sangue, presente nell'uccisione, nelle mestruazioni e nel parto, costituisce l'elemento comune fra caccia e riproduzione e funge da efficace strumento di manipolazione simbolica dei due ambiti. Il cacciatore è colpito negativamente dal sangue (e dalla morte) dell'animale ucciso, e tenta di negare questa 'impurità' trasferendola sul sangue mestruale e del parto, associato, invece, con la vita: il rapporto viene capovolto e il tabu agisce da convertitore della corrente emotiva. Dietro questa inversione di valori si mimetizza in effetti l'opposizione fondamentale fra l'attività produttiva della caccia (propria degli uomini) e quella riproduttiva (appannaggio delle donne) e, in definitiva, fra la morte e la vita.
Alla fine di questa esposizione una nozione, quella di separazione, emerge nella sua trasversalità e rilevanza: propria del significato originario, polinesiano, della nozione di 'tabu', presente, mediante le opposizioni sacro/profano, puro/impuro, nelle teorizzazioni antropologiche classiche, essa continua a svolgere un ruolo cruciale nella riflessione antropologica sul tabu e la contaminazione. I tabu operano innegabilmente in presenza di confini di varia natura: divisioni fra i sessi, i gruppi sociali e gli esseri viventi, distinzioni tra sfere di appartenenza, elementi naturali e ambiti dell'esistente, esigenze di differenziazione fra l'uomo e altre forme di vita nonché fra i membri di un certo gruppo umano e altre forme di umanità (come suggerisce Douglas quando connette il rigido sistema dei divieti biblici all'esigenza dell'esiguo e minoritario popolo ebraico di marcare la sua differenza dai popoli vicini). La contaminazione, a sua volta, è chiamata in causa ogniqualvolta si profila il rischio di commistione, di confusione e perfino di assimilazione etnica, come intuisce Remotti (v., 1996) quando, nella discriminazione razziale e nella 'pulizia etnica', coglie un'ulteriore, oscura manifestazione dell'ossessione della purezza e dell'angoscia dell'impurità.Se il carattere variabile e 'locale' dei sistemi ideologici nei quali la discriminazione prende forma rimanda all'aspetto relativo della cultura, l'universale diffusione dei dispositivi di separazione evoca invece il suo tratto più profondo e condiviso. Nell'operare dei tabu, infatti, si manifesta in piena luce il meccanismo che, ovunque, fonda la condizione culturale dell'uomo: quel processo di découpage (di 'ritaglio') che, differenziando e classificando le cose, le rende concettualmente e operativamente fruibili. In questa prospettiva i tabu si configurano come dispositivi metaculturali che operano su cose già 'separate' (innanzitutto nella lingua) per riorganizzarle, mediante altre distinzioni e associazioni, in configurazioni ulteriori, e la nozione di 'arbitrarietà', sinonimo di 'incomprensibilità' e 'irrazionalità' per studiosi come Frazer e Smith, assume decisamente una valenza semiologica: in questa accezione la logica del tabu e della contaminazione non è più arbitraria di quella che governa le lingue e le culture. (V. anche Cacciatori e raccoglitori, società di; Classificazioni, tipologie, tassonomie; Incesto; Natura e cultura).
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