CACCIACONTI, Tacco
Figlio di Ugolino signore di Torrita e della Fratta, e, con ogni probabilità, di una Tolomei di cui le fonti non tramandano il nome, il C. nacque intorno alla metà del sec. XIII. Ci sono ignoti il luogo e l'anno esatto della nascita. Egli apparteneva al ramo dei conti di Guardavalle della potente famiglia feudale senese, che aveva dominato sino ai primi anni di quel secolo su di un ampio complesso di territori compresi tra la Val di Chiana, la Valle dell'Ombrone ed Asciano (Sciano), località dalla quale fu appunto derivato il cognome di Scialenghi con cui i Cacciaconti sono anche conosciuti in certa letteratura storica.
Dopo il definitivo tramonto del ghibellinismo senese, consacrato dalla disfatta di Colle di Val d'Elsa (giugno 1269), Guido di Montfort, vicario di Carlo d'Angiò, aveva instaurato in Siena un governo guelfo che, con proscrizioni e devastazioni, iniziò quella serie di guerre tra le consorterie cittadine che avrebbero finito con l'essere la rovina della repubblica. La maggior parte degli esponenti delle grandi famiglie feudali, ghibelline per tradizione, esclusi dalla vita pubblica ed espulsi dalla città, iniziarono una guerriglia nel territorio del contado, nel tentativo di opporsi alla fazione avversaria e di difendere, nei loro feudi, i resti della loro antica autonomia: soprattutto Montefollonico, Torrita, Fratta e Sinalunga furono teatro di tumulti, di occupazioni, di attentati provocati dai fuorusciti ghibellini. Nella speranza di sedare questi continui disordini, il governo di Siena accordò ai diversi feudatari di rimanere nei loro antichi possessi, purché si fossero fatti di popolo e avessero accettato podestà inviati da Siena. Il provvedimento sortì il risultato contrario: la rivolta si fece aperta e generale, tanto che i magistrati senesi dichiararono decadute ben centodiciotto signorie, perché detenute da personalità o famiglie di parte ghibellina: tra di esse sono ricordate Fratta e Sinalunga, mentre i Cacciaconti di Sinalunga, dichiarati ribelli, erano messi al bando, e veniva ordinata la distruzione delle mura del loro castello.
Succeduto, insieme con il fratello minore Ghino, al padre morto tra il 1257 ed il 1270 nella titolarità del feudo della Fratta, il C. dovette mantenere - almeno inizialmente - rapporti amichevoli con il governo guelfo di Siena. Ciò è provato sia dalla levità della pena inflittagli, nel gennaio-giugno 1271, dalle magistrature comunali per aver tentato di impadronirsi con la forza dell'altro feudo di famiglia, Torrita, che, già appartenuto a suo padre, alla morte di questo era stato invece attribuito, ignoriamo su quali basi, ad un suo parente, Iacomino di Iacomo Cacciaconti di Guardavalle; sia dall'importante incarico svolto, sempre in quel torno di tempo e per conto del Comune di Siena, da suo fratello Ghino, inviato ad Orvieto come latore di dispacci "pro securitate nostrorum ambasciatorum, qui erant apud curiam domini Regis" (Arch. di Stato di Siena, Biccherna, 47, c. 6). E quando, vittoriosa a Montefollonico la congiura contro i guelfi, espulso da Trequanda il podestà, invase e devastate le proprietà dei Senesi a Bettolle, insediatisi gli sbanditi alla Ripa, la rivolta dei feudatari, divenuta generale, si estese e sembrò vittoriosa nell'intera Val di Chiana, il C. non solo non volle unirsi agli insorgenti, ma si schierò in difesa dei cittadini senesi coinvolti nei gravi disordini scoppiati anche a Torrita, rimanendo ferito nel corso degli scontri (fine 1272-inizi 1273).
Tuttavia, negli anni seguenti il C. mutò radicalmente il suo atteggiamento nei confronti del Comune di Siena: condannato a pagare l'enorme somma di 3.000 libbre di denari per aver ucciso - ignoriamo i motivi e le circostanze di questo assassinio - un certo Montanello di Buonaventura, egli si buttò decisamente dalla parte degli insorti ghibellini che correvano il contado, e, raggruppati con i propri seguaci gli esuli e gli scontenti in regolari formazioni di cavalleria, condusse per circa un decennio una decisa e feroce guerriglia contro i funzionari e gli emissari del governo guelfo di Siena in Val di Chiana, irrompendo negli abitati spesso con l'appoggio dei borghigiani, giungendo a predare e a saccheggiare sino in Maremma e nella Valle dell'Ombrone. Accanto a lui in ogni episodio di questa disperata guerra per bande fu, come sempre per il passato, il fratello Ghino. Nel 1277 i due fratelli compivano il primo loro audace colpo di mano, destinato a richiamare su di loro l'attenzione delle autorità senesi: alla testa di un piccolo esercito di ribelli attaccarono Torrita, cercando di impadronirsene e di darne alle fiamme la fortezza. Nello scontro morì, tra gli altri, lo stesso castellano della rocca, Iacopo Del Balzo, ucciso da Guccio di Guido di Giusto de Serris. Condannati perciò nuovamente - questa volta come sediziosi e ribelli - dal tribunale del podestà al pagamento di una multa esorbitante (4.000 libbre di denari ciascuno) e messi al bando dal Comune, il C. e suo fratello Ghino proseguirono nella loro battaglia: nel seguente anno 1278 uccisero - non sappiamo se in un'imboscata o se nel corso di un combattimento regolare - un certo Andrea di maestro Iacopo ed un Rinaldello di Buonagiunta, i quali erano, con ogni probabilità (come pensa il Cecchini e come è del resto provato dall'immediata, decisa reazione dei competenti organi di quel Comune), due funzionari senesi nella Val di Chiana.
La grave minaccia per la sicurezza e per l'autorità del governo guelfo di Siena su quelle regioni, rappresentata dallo spadroneggiare delle bande armate del C. culminato nel colpo di mano su Torrita, e l'appoggio dato agli insorgenti dagli abitanti stessi della zona, i quali seguivano con evidente simpatia i progressi del movimento ghibellino di resistenza, indussero il podestà, i capitani di parte guelfa ed il Consiglio dei trentasei ad inviare a Torrita "unum ex comestabiliis masnate Comunis Senensis" con un forte contingente di soldati. Ad essi fu affidato un duplice compito: quello pregiudiziale di presidiare la fortezza, ristabilendo nel contempo l'ordine pubblico nel piccolo centro; e l'altro di reprimere la rivolta nel contado e di catturare - "si poterint capere" - e di consegnare - "si inveniant" - alle autorità comunali, perché fossero puniti in modo esemplare, "exbannitas, qui intendunt equitare ad ipsum castrum" (7 ag. 1278). Nella stessa riunione il podestà, i capitani, i Trentasei vietarono perentoriamente al Comune di Rigomagno "et aliis comunitatibus contrate" di accordare asilo od aiuto al C. od a qualsiasi altro degli sbanditi. Queste misure, che costituiscono tra l'altro un'evidente testimonianza della popolarità goduta nella zona dal movimento di resistenza capeggiato dal C., non dovettero tuttavia sortire gli effetti desiderati se nei primi mesi del 1279 egli poteva investire con grande spiegamento di forze l'abitato di Torrita, e, uccisi molti Senesi e devastate le loro proprietà, poteva stringere praticamente d'assedio nella rocca - grazie anche al valido appoggio della popolazione locale - i funzionari e la stessa guarnigione senese, distribuendo con oculatezza posti di blocco e presidi "circa castrum de Torrita" e tagliando in tal modo le comunicazioni con Siena.
La situazione, all'inizio dell'estate, si era fatta a Torrita così critica, che il 12 luglio il Consiglio si vide costretto a intervenire d'urgenza e con decisione, inviando in tutta fretta sul luogo Gualtieri di Rinaldino (forse un altro dei conestabili del Comune, definito "dominus" nella relativa delibera del Consiglio conservata all'Arch. di Stato di Siena, Consiglio generale, 23, c. 8, edita dal Cecchini) al comando di un reparto di mercenari francesi col compito di sbloccare Torrita e di difenderne il territorio "contra Taccum et Ghinum, et sui sequaces". Intanto il C., rinforzatosi nelle sue posizioni e riordinato il suo piccolo esercito, aveva attaccato con violenza e secondo tutte le regole dell'arte militare la rocca di Torrita: le bande degli insorgenti ghibellini, infatti, alla testa delle quali figuravano personalità come il senese Cecco di Giacomo soprannominato Cecco "Grasso" Guidarello di Alessandro da Orvieto ed Orlando Crispolti, secondo quanto riferiscono le fonti, "iverunt hostiliter et banderia levata ad castrum de Torrita". Per quanto ben diretto e condotto con abilità e irruenza, l'attacco venne respinto dai Senesi, sia pure con gravi perdite, probabilmente proprio grazie al tempestivo intervento del reparto di mercenari francesi condotti da Gualtieri di Rinaldino. Nel corso del combattimento cadde tra gli altri, ucciso da Ghino Cacciaconti, lo stesso signore di Torrita, Busgiadro.
La eventualità che alla base dei successi militari del C. vi potessero essere o l'appoggio occulto di influenti personalità del mondo politico senese o subdoli maneggi di consorterie cittadine e di alleati malfidi aveva anche indotto in un primo tempo (la delibera relativa è del 12 luglio) il Consiglio generale ad inviare presso i Comuni di Firenze, di Arezzo e di Lucignano, di Gargonza e di Monte San Savino (nell'Aretino) ambasciatori che raccomandassero alle competenti autorità di non dare ricetto agli sbanditi, senesi; a nominare quindi, il 1º agosto, una commissione d'inchiesta, che facesse luce sulle circostanze in cui era potuto avvenire il recente attacco a Torrita ed accertasse le eventuali responsabilità.
L'ipotesi del tradimento traspare chiaramente dalle minuziose istruzioni che furono impartite alla commissione d'inchiesta e che sono accuratamente registrate nel verbale della seduta del 1º agosto. In particolare, i signori del Consiglio generale di Siena intendevano accertare quale feudatario o quale centro abitato della zona avesse concesso asilo al C. e a Ghino, "filii quondam Ugolini de Fracta", e alle loro bande armate, prima del colpo di mano su Torrita. Volevano inoltre sapere da dove provenissero i ribelli "quando insidias posuerunt et miserunt circa castrum de Torrita, et post ipsas insidas insultum fecerunt versus dictum castrum de Torrita". Si doveva inoltre appurare perché "illi de Torrita" non avevano cercato di contrastare i movimenti e l'attività dei ribelli; e far luce sui motivi che li avevano anzi indotti ad ostacolare in tutti i modi i disegni di quanti tra loro, essendo "inimici dicti Tacchi et Ghini", avrebbero voluto scendere in campo contro gli insorti. Alla base delle misure prese tra il luglio e l'agosto del 1279 dal Consiglio generale vi era dunque senza dubbio anche il proposito evidente di riaffermare l'autorità senese sul Comune di Torrita che, appoggiando il moto capeggiato dal C., aveva dimostrato chiaramente sentimenti ostili al governo guelfo di Siena. Ce lo attesta, fra l'altro, il fatto che il contingente di mercenari francesi, inviato sotto il comando di Gualtieri di Rinaldino a presidiare la cittadina, dovette essere mantenuto - per espressa volontà del Consiglio generale - a spese di quella Comunità, "expensis Comunis et hominum de Torrita", come è detto nella delibera del 12 luglio.
Lo scacco patito sotto le mura di Torrita non bastò a convincere il C. e gli altri capi della resistenza ghibellina a rinunziare all'offensiva; nella seconda metà dell'anno essi compirono anzi uno sforzo supremo per assicurare definitivamente la vittoria al loro movimento. Tra la fine d'agosto e sino a tutto il mese di novembre il C. controllava ancora, col suo piccolo esercito, la regione, e si sentiva tanto sicuro da iniziare segreti maneggi per impossessarsi col tradimento di Torrita; mentre i fuorusciti ghibellini di Rigomagno, aiutati dagli abitanti di Lucignano, rientravano da padroni nella loro città e vi si fortificavano. Il 22 agosto, infatti, il governo senese decretava il preallarme per alcuni reparti di truppa da inviarsi immediatamente come presidio a Sinalunga, a Torrita e a Ripa, dietro semplice richiesta delle autorità o, anche, degli esponenti delle fazioni filosenesi di quei Comuni. Il 19 settembre, poi, nominava una seconda commissione d'inchiesta, che facesse luce sulla vociferata congiura per consegnare Torrita al C., e provvedeva contemporaneamente a rafforzare il presidio senese della cittadina, inviandovi un nuovo contingente di truppa agli ordini di Gualtieri di Rinaldino, il cui mantenimento era addossato ancora una volta agli abitanti del luogo. Con successive delibere dell'11 ottobre e del 21 novembre venivano date a Gualtieri di Rinaldino le necessarie direttive politiche e militari, mentre il 25 i capitani di parte guelfa ed i Sei buonomini ordinavano perentoriamente "domino Gualtherino, potestati et Consilio et Comuni castri de Torrita" di non nominare alcun magistrato od ufficiale di stato senza il consenso dei podestà di Siena.
Severi provvedimenti giudiziari erano intanto stati presi nei confronti dei capi della resistenza ghibellina. Una lunga serie di condanne si ebbe infatti in quell'anno 1279, "tempore domini Gherardi de Palatio de Brescia... potestatis Senensis" per i fatti di Torrita: a gravissime pene pecuniarie furono condannati, tra gli altri, in contumacia Guidarello di Alessandro Crispolti e Tuccio "Gaenne comitatus Aretii", per aver partecipato all'attacco della città; a morte, oltre che a pesantissime multe (10.000 libbre di danari), il C., suo fratello Ghino ed il senese Cecco di Giacomo, riconosciuti colpevoli di tradimento, sedizione e assassinio. Una multa di 200 libbre di danari fu inflitta ad un altro feudatario della regione, forse appartenente al ramo dei Cacciaconti di Sinalunga, che aveva concesso asilo a Ghino e al C., Ranuccio "frater Zeppe de Asinalongha". Tuttavia non furono né le gravissime pene inflittegli dai tribunali - alle quali si aggiunse quella della confisca dei beni - né i progressi, riportati dalle armi senesi nella riconquista delle piazzeforti e dei castelli in Maremma e nella stessa Valle dell'Ombrone, a piegare la volontà di resistenza del C., e ad isolarlo, facendogli mancare l'appoggio e la solidarietà delle popolazioni, così essenziali per ogni movimento di resistenza. La pacificazione, promossa e raggiunta dal cardinale Latino Orsini (1280), grazie alla quale furono riammessi in Siena i ghibellini e il governo dei Trentasei fu sostituito da quello dei Quindici (dal quale erano escluse le sole famiglie dei grandi), e la buona volontà dimostrata dalla nuova direzione politica indussero numerosi e qualificati fuorusciti a fare atto di sottomissione, e ad unirsi all'esercito senese nelle operazioni di riconquista. Il 10 nov. 1281 il Consiglio generale, riunito sotto la presidenza del vicario del podestà, "domino Angelo Imperatoris iudice de Urbe", concesse l'indulto e l'amnistia a quarantuno sbanditi, come riconoscimento e ricompensa dell'aiuto da essi prestato nel corso delle operazioni che avevano portato all'assedio e all'occupazione, da parte delle milizie senesi, della fortezza di Torri in Maremma. Tra i fuorusciti, già "exbanniti et condempnati", compresi nel provvedimento di grazia, vi fu anche il terzo dei fratelli Cacciaconti, Federico: questi, che non si era mai compromesso nell'attività sovversiva promossa dai suoi fratelli (il suo nome non compare mai nelle fonti a noi note tra quelli dei ghibellini condannati per sedizione e tradimento), doveva aver ritenuto opportuno riconoscere l'autorità di Siena, venendo a patti col Comune ed assicurandosi in tal modo la titolarità della Fratta e degli altri possessi ereditari della sua famiglia, confiscati al C. nel 1279. Fu così che, quando il governo dei Quindici governatori, consolidatosi all'interno, si fu assicurato, con la forza o con i trattati, la fedeltà dei grandi feudatari (anche gli altri rami della famiglia Cacciaconti si erano acconciati a riconoscere la supremazia di Siena), il C. e suo fratello, rimasti privi dell'appoggio dei loro alleati più potenti, si trovarono completamente isolati di fronte al grande nemico, e proprio quando questo si era deciso a portare a fondo, con decisione, la lotta contro i ribelli.
Ancora attivi nella Val di Chiana, dove portarono a segno una serie di audaci colpi di mano contro i presidi e le proprietà senesi, sino al 1282, quando subirono una nuova condanna da parte delle magistrature del Comune - ma questa volta per abigeato -, i due fratelli, stretti dalle milizie municipali, dovettero abbandonare in un secondo tempo i luoghi sui quali avevano spadroneggiato per dieci anni, e si ritirarono con i resti delle loro bande nella Maremma, dove si posero forse sotto la protezione - secondo l'ipotesi del Cecchini - dei Pannocchieschi. I loro nomi non ricorrono più, infatti, nelle fonti senesi sino al 1285, anno in cui, esplosa in guerra aperta l'ostilità tra i Senesi e il vescovo di Arezzo, appoggiato dai fuorusciti ghibellini e da alcuni feudatari della zona ribellatisi all'autorità del Comune dominatore, il C. e suo fratello ricomparvero coi loro armati nella Val di Chiana per portare aiuto secondo le loro possibilità al presule e ai suoi alleati. La reazione di Siena fu violenta quanto decisa. Un corpo d'esercito condotto dallo stesso podestà Guido Guidi conte di Battifolle, entrato in territorio nemico, pose l'assedio a Poggio Santa Cecilia, piazza forte per posizione e per le opere d'ingegneria militare. Da parte sua, il giudice aretino Benincasa, ch'era rimasto in Siena nella sua qualità di vicario del podestà, dopo aver soffocato nel sangue una rivolta ghibellina scoppiata in città ed aver riconquistato i castelli di Farnetella e Gargonza caduti nelle mani degli insorgenti, inviò speciali reparti di truppa a rastrellare, sotto il comando di suoi tre legati - Paolino, Nerio, Salvuccio-, l'intera Val di Chiana, "ad capiendos exbannitos" e per pacificare una volta per tutte la regione. Braccato dai militi, il C. preferì affrontare il confronto diretto con i suoi nemici: ferito e catturato in combattimento, il guerrigliero fu condotto sotto buona scorta a Siena, dove fu sottoposto a tortura e giustiziato (1285, prima metà).
I registri della Biccherna portano, annotate con la consueta precisione, la somma delle spese sostenute da Siena per eliminare il suo irriducibile nemico: 18 soldi ai legati del Comune Piero e Giovannino per i tre giorni di rastrellamento da essi compiuti "cum familia domini potestatis" nel territorio di Torrita; 27 soldi ai legati del Comune Paolino, Nerio e Salvuccio, incaricati del rastrellamento in Val di Chiana "ad capiendum Tacchum Ugolini"; 20 soldi ciascuno ai due aguzzini "qui guastaverunt seu occiderunt Tacchum Ugolini"; 5 soldi a mastro Vive de Mannaria, per aver preparato gli strumenti con cui fu torturato il Cacciaconti. Né furono dimenticate le spese sostenute per l'olio combustibile usato dalle sentinelle durante la detenzione di Tacco, per il noleggio del cavallo e della vettura con cui il C. fu tradotto a Siena, e per l'acquisto della corda necessaria a legare il prigioniero e del chiavistello nuovo per l'occasione applicato alla porta della cucina del podestà.
Il fratello del C., Ghino di Ugolino, proseguì nella sua disperata guerra per bande contro Siena moltiplicando le aggressioni e gli attentati, e facendo divampare la rivolta non solo nella Val di Chiana, ma anche nell'alta Maremma: nell'ottobre del 1286 partecipò al colpo di mano in seguito al quale, rovesciato ed ucciso Tollo, anche i signori di Prata abbandonarono Siena per passare sotto le bandiere degli insorgenti (per questo episodio le magistrature senesi lo condannarono a morte in contumacia, e confiscarono i suoi beni). Di Ghino non si hanno, tuttavia, notizie ulteriori dopo il 1289, anno in cui viene ricordato tra i principali capi delle bande ghibelline che avevano allora conquistato la piazzaforte di Chiusure (presso Asciano).
Fonti e Bibl.: G. Cecchini, Ghino di Tacco, in Arch. stor. italiano, CXV (1957), pp. 267-277, che fornisce le indic. bibl. e che pubblica (docc. I-XXXI, pp. 281-291)tutte le fonti diplomatiche documentarie relative al C. ed a suo fratello Ghino. Per l'inquadramento della figura del C. nelle vicende di Siena e dell'Italia, si vedano le opere generali di storia senese. Vedi inoltre: G. Gigli, Diario sanese, II, Lucca 1723, pp. 312 s.; G. Mengozzi, Doc. danteschi del R. Arch. di Siena, in Dante e Siena, Siena 1921, p. 139.