Tacito
Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Cornelio Tacito è il più grande storico latino di tutti i tempi. Nelle sue opere sceglie di raccontare i primi decenni del regime imperiale, dalla morte di Augusto a quella di Domiziano: ne emerge un quadro amaro, disincantato, che Tacito indaga con eccezionale acume, esplorando gli angoli più riposti della psiche dei suoi protagonisti e mostrandosi altresì capace di grandi affreschi storici, in uno sguardo che tiene conto in pari misura del vasto orizzonte imperiale e dell’asfittico mondo della corte. Ma Tacito è autore anche di un importante trattato etnografico, l’unico sopravvissuto dal mondo antico, la Germania: un manuale essenziale in vista di una possibile campagna di conquista, ma anche l’occasione per contrapporre polemicamente la purezza dei “barbari” alla decadenza della Roma contemporanea.
Di Cornelio Tacito sono ignoti il prenome, il luogo e l’anno di nascita, da collocarsi intorno alla metà del I secolo. Sposa la figlia di Giulio Agricola, funzionario integerrimo e generale di spicco, morto sotto Domiziano, cui Tacito dedica la sua prima opera, una biografia che celebra le virtù pubbliche e private del suocero. La carriera di Tacito inizia sotto Vespasiano e Tito e prosegue durante la tirannide di Domiziano; nel 97 raggiunge il consolato; tre anni dopo difende i provinciali africani nel processo contro il governatore romano; nel 112-113 circa è alla testa della provincia d’Asia; la morte si colloca verosimilmente intorno al 120. Tacito arriva tardi alla scrittura: ha almeno quarant’anni quando pubblica la biografia di Agricola e la monografia sulla Germania, almeno cinquanta quando mette mano alle opere storiche maggiori, Annales e Historiae. Non si tratta solo della circostanza – comune a tutta la storiografia senatoria – per cui all’attività intellettuale ci si consacra dopo il ritiro dagli affari pubblici: Tacito denuncia il grave clima di intimidazione contro i letterati che ha segnato il quindicennio domizianeo e del quale egli stesso si dichiara complice involontario: quando poi con Nerva e Traiano si realizza per la prima volta la “congiunzione di due elementi prima incompatibili, principato e libertà”, la scelta della storiografia nasce anzitutto da un bisogno di espressione a lungo mortificato e dall’esigenza di fare i conti con l’immediato passato.
L’Agricola (propriamente De vita et moribus Iulii Agricolae) è pubblicato nel 97. Dopo un importante proemio che ricorda la persecuzione di Domiziano contro il dissenso intellettuale, il cuore della biografia coincide con il racconto delle campagne condotte dal generale in Britannia, aperto da un nitido excursus sulla cultura dei Britanni.
Di grande rilievo anche il discorso attribuito a Calgaco, leader dei ribelli Calèdoni (stanziati nella Scozia attuale), una denuncia senza appello dell’avidità di conquista dei Romani, che “quando hanno creato il deserto, lo chiamano pace”. Nella chiusa dell’opera Tacito riporta, pur dichiarandola non pienamente accertata, la tesi che vuole il suocero avvelenato da Domiziano; l’Agricola si affianca così a quelle biografie di vittime dello strapotere imperiale che costituiscono una delle forme in cui si esprime sotto il primo principato l’opposizione senatoria al nuovo regime.
L’Agricola tocca indirettamente la storia dell’età flavia; le Historiae, avviate intorno al 105, offrono invece un grande affresco storico del trentennio compreso fra la caduta di Nerone (68) e la morte di Domiziano (96). Dell’opera sono giunti integri i primi quattro libri e l’inizio del quinto, che si interrompe con il racconto della campagna condotta dal futuro imperatore Tito contro Gerusalemme. Nel proemio Tacito promette al lettore di far seguire in futuro un resoconto della felice età di Traiano; invece gli Annales, cui lo storico mette mano a partire dal 110 circa, tornano indietro nel tempo, ricostruendo le vicende della dinastia giulio-claudia dalla morte di Augusto a Nerone. Forse il giudizio di Tacito su Traiano si è modificato, o forse lo storico ha sentito il bisogno di ricercare nelle tormentate vicende dei successori di Augusto l’origine delle tare che segnano l’epoca del principato. Anche gli Annales sono monchi: abbiamo i primi sei libri, che trattano di Tiberio (imperatore dal 14 al 37), e i libri dall’11 al 16, con gli ultimi anni di Claudio (imperatore dal 41 al 54) e il principato di Nerone fino al 66.
Per Tacito l’avvento del principato risponde ad una necessità storica: “era nell’interesse della pace che tutto il potere fosse affidato ad una sola persona”. Ma per quel regime lo storico ha poca simpatia: violenza del potere, servilismo delle élite, passività o indifferenza delle masse ne sono i tratti caratterizzanti. Non per questo Tacito apprezza quanti hanno seguito, pagandola con l’esilio o con la morte, una linea di opposizione intransigente al regime, che lo storico giudica perdente e sterile; i suoi eroi sono semmai uomini come Agricola, che senza cedere a umilianti compromessi hanno accettato di servire lo stato, dimostrando che “si può essere grandi uomini anche sotto cattivi imperatori”.
I ritratti dei principi, laddove possiamo ricostruirli, sono invariabilmente impietosi: Tiberio è un mostro di dissimulazione e di crudeltà, Claudio un inetto nelle mani di mogli e liberti, Nerone un criminale perso in un folle delirio di potere. Ma neppure Galba, l’aristocratico di antica schiatta succeduto per pochi mesi a Nerone, è esente da critiche: la sua ruvida intransigenza è inadatta ai tempi nuovi; a reggere un grande impero servono virtù e capacità che non si identificano necessariamente con quelle della morale tradizionale, ma anzi a volte si pongono agli antipodi di quella morale. Quello di Tacito è dunque un quadro dove le tinte fosche prevalgono nettamente sulle luci. All’analisi dei fatti storici contribuisce potentemente anche la lingua: uno stile austero e insieme agile, che si modella su ogni piega dell’animo umano, imprevedibile e contorto come la realtà che è chiamato a raccontare.
La riflessione etnografica nasce nella cultura greca del V secolo a.C., alimentata dal lungo scontro con la Persia. Poco a poco il modello interpretativo che si impone, e passa poi nel mondo romano, è quello del cosiddetto “determinismo geo-climatico”, che postula uno stretto rapporto fra i tratti fisici e psicologici di una popolazione e il contesto ambientale in cui essa vive, dal clima alle caratteristiche del suolo. Applicato su scala globale, il modello distingue tra popoli del nord, stanziati in climi freddi e umidi, ricchi di sangue ma dotati di un coraggio impulsivo e irrazionale, e popoli del sud, che vivono al contrario in climi caldi e secchi, scarseggiano di sangue e sono intelligenti ma vili. I popoli della fascia temperata, invece, identificati ora con i Romani, manifestano un perfetto equilibrio fra intelligenza e coraggio e grazie alla loro posizione privilegiata hanno imposto la propria egemonia su tutte le terre conosciute.
Interessi etnografici sono presenti nella storiografia latina sin dalle origini, pur se rigidamente subordinati all’ottica prevalentemente politico-militare della narrazione. Excursus pieni di acume sui popoli affrontati in guerra si leggono nel De bello Gallico di Cesare; Seneca compone un’operetta (perduta) sui costumi dell’Egitto; una digressione etnografica sulla Britannia apre, nell’Agricola di Tacito, il resoconto delle campagne condotte in quell’area dalle truppe di occupazione romane, e analogamente accade nelle Historiae, dove il quadro dell’origine e dei costumi degli Ebrei introduce il racconto della guerra combattuta contro quella popolazione all’epoca di Vespasiano. Anche la Germania (designazione abbreviata del titolo completo De origine et situ Germanorum) nasce forse come introduzione a una delle campagne militari condotte in quello scacchiere nel I secolo; l’ampliarsi del materiale probabilmente induce Tacito a farne un’opera a sé, pubblicata nel 98 e giunta sino a noi come l’unico trattato etnografico completo proveniente dal mondo romano.
I 46 capitoli della Germania sono divisi in due metà di lunghezza pressappoco equivalente: la prima contiene informazioni generali sull’etnia germanica, dalle origini al clima alla posizione geografica, dalla struttura sociale e familiare alla religione, dal ruolo della donna alla condizione degli schiavi e così via. La seconda parte passa invece in rassegna le singole tribù, mettendone in luce i tratti peculiari; lo sguardo procede da ovest verso est, dai popoli che abitano ai confini con la Gallia, più vicini e dunque meglio conosciuti, a quelli persi nel remoto confine orientale, per i quali le notizie attendibili si fondono con quelle leggendarie o senz’altro fantastiche.
Quale scopo si ripromettesse Tacito dalla sua ricerca etnografica è materia di discussione. La conquista della Germania era stato il grande progetto fallito di Augusto: le ripetute campagne condotte nella regione avevano ottenuto successi effimeri e si erano in ultimo risolte in un disastro di gravissime proporzioni, quando nel 9 le legioni al comando di Varo erano state massacrate sino all’ultimo uomo dai Germani. Da allora i progetti di conquista erano stati accantonati, ma i Romani avvertivano con disagio l’idea di un popolo numeroso e potente che incombeva sul confine del Reno, ad un passo dal cuore dell’impero. L’interesse di Tacito è forse quello di fornire notizie su questo avversario potenziale che rischia in qualsiasi momento di trasformarsi in un nemico reale: di fatto, il suo resoconto è ricco di informazioni su tecniche e strategie di guerra dei singoli popoli: la Germania poteva diventare un utile prontuario se Traiano avesse deciso una ripresa dell’iniziativa romana nella regione.
Il tratto più interessante nella descrizione dei Germani è però l’ammirazione che Tacito mostra per quella cultura, specie laddove passa in rassegna le istituzioni familiari e la posizione della donna. Qui la naturale virtù dei “barbari” è espressamente contrapposta alla decadenza morale di Roma: tra i Germani l’adulterio è un fenomeno rarissimo, il matrimonio un istituto solido e onorato; “laggiù, sedurre ed essere sedotti non è un gioco galante”, come evidentemente accadeva fra le spregiudicate matrone dell’aristocrazia romana; insomma, “hanno più forza laggiù i buoni costumi di quanta ne abbiano altrove le buone leggi”, con implicito riferimento alla minuziosa ma inefficace legislazione augustea contro l’adulterio. Nasce così il mito del “buon selvaggio”, l’idea che i popoli “primitivi”, lontani dalle tentazioni e dalle raffinatezze della civiltà, conservino proprio per questo una più solida fibra morale, uno spirito genuino e incontaminato. I Germani sono oggi quello che i Romani sono stati in un remoto passato: e, al pari di questi ultimi, sono potenzialmente in grado di conquistare il mondo. Di fronte ad una simile prospettiva non si può abbassare la guardia: questo sembra essere, in ultima istanza, il senso dell’opera tacitiana.