Vedi Taiwan dell'anno: 2012 - 2013 - 2014 - 2015 - 2016
La Repubblica di Cina (Rdc), comunemente nota come Taiwan, è uno stato sovrano il cui territorio è composto da un gruppo di isole al largo delle coste cinesi, tra cui la principale è quella di Taiwan (conosciuta anche con il nome di Formosa), che si trova a circa 150 chilometri dalla Cina continentale tra il Mar Cinese Meridionale e quello Orientale. Terminata l’occupazione e la dominazione giapponese, durate fino alla sconfitta nipponica nella Seconda guerra mondiale, l’isola di Taiwan tornò sotto il governo della Repubblica di Cina, che era nelle mani del Guomindang (Gmd), il partito nazionalista retto da Chiang Kai-shek. Quando tuttavia il Gmd fu sconfitto nel 1949 nel corso della guerra civile cinese che lo vedeva opposto al Partito comunista di Mao, la scelta del suo leader fu quella di ritirarsi proprio sull’isola, con quanto rimaneva dell’esercito e delle riserve auree della Repubblica. Fu così che prese vita l’odierno stato di Taiwan.
Da allora, tanto Taipei quanto Pechino hanno sempre rivendicato di essere l’unico legittimo governo della Cina, ingaggiando così un braccio di ferro basato su un aut-aut diplomatico. Secondo gli assunti della ‘one China policy’, in base ai quali esiste una sola Cina, ma due governi distinti che ne reclamano la sovranità, qualunque paese che avesse riconosciuto ufficialmente uno dei due governi non avrebbe più potuto avere relazioni diplomatiche ufficiali con l’altro. Una situazione che, se ha favorito Taiwan nei primi vent’anni post 1949, quando la Cina comunista si attestava come un paese escluso dal blocco occidentale e isolato da quello sovietico, è invece virata in favore di Pechino dall’inizio degli anni Settanta, contestualmente all’apertura diplomatica che il presidente statunitense Richard Nixon decise di accordare al Partito comunista cinese. La scelta della coppia Nixon-Kissinger di riabilitare le relazioni tra Stati Uniti e Cina, infatti, diede il via a uno scongelamento politico rilevante tra Pechino e il resto del mondo, specie quello occidentale: numerosi furono così i paesi (tra cui Usa, Giappone, Canada, Australia, Italia e Germania dell’Ovest) che in quel decennio scelsero di riconoscere la legittimità della Repubblica Popolare Cinese (Rpc), spostando così le proprie rappresentanze diplomatiche dall’isola alla terraferma. Anche nei forum multilaterali, d’altra parte, gli anni Settanta coincisero con una svolta decisiva in favore di Pechino: nell’ottobre del 1971, infatti, l’Assemblea generale delle Nazioni Unite (Un) decise di espellere la rappresentanza del Guomindang e assegnare il seggio in Consiglio di sicurezza previsto per la Cina, oltre che tutte le delegazioni negli altri organi del sistema Un, alla Rpc.
Per Taiwan, dunque, le relazioni con il suo vicino sono da sempre la priorità assoluta e catalizzano la quasi totalità dell’attenzione dell’agenda politica nazionale. La partita si è giocata negli anni prevalentemente dal punto di vista politico e militare, con Pechino che, continuando a ritenere Taiwan una sua provincia ribelle, si è sempre opposta alla sua indipendenza de jure (come ratificato nella legge antisecessione del 2005), dichiarandosi disposta a un’invasione dell’isola in caso Taipei scegliesse di mutare lo status quo in questa direzione. Per questo motivo, nella regione della terraferma antistante l’isola, la Cina tiene schierati più di 1000 missili balistici a corto raggio, oltre che centinaia di migliaia di soldati pronti a intervenire in caso di guerra.
La posizione, ufficialmente condivisa dai due paesi e che considera Taiwan e la Rpc come parti di un medesimo stato, non è accettata da tutte le principali forze partitiche taiwanesi ed è fonte di tensioni politiche per il paese, tanto interne quanto esterne. Così, nel corso degli ultimi vent’anni, e in coincidenza con l’avvicendarsi al governo di Taipei del Gmd (sostenitore della ‘one China policy’) e del Partito progressista democratico (Dpp, fautore invece dell’indipendenza di Taiwan e quindi della sua separazione dalla Cina continentale), il rapporto con Pechino, pur rimanendo sempre teso, ha vissuto fasi altalenanti.
Il ritorno del Gmd al governo di Taipei (nel 2008) ha coinciso con la ripresa del dialogo tra le due sponde dello Stretto di Taiwan e ha portato nel 2010 alla conclusione di uno storico accordo commerciale (Economic Cooperation Framework Agreement, Ecfa), con cui i due paesi hanno abbassato o eliminato del tutto i dazi doganali su centinaia di prodotti e liberalizzato alcuni settori delle rispettive economie. L’accordo, fortemente voluto dall’ex presidente cinese Hu Jintao, è stato tuttavia contestato a Taiwan e accolto con scetticismo da una significativa parte dell’opinione pubblica che vede nell’intensificarsi dei rapporti economici tra i due paesi un possibile preludio di una loro unificazione politica. La linea di dialogo e di distensione verso la Cina, d’altro canto, è stata premiata, nella doppia tornata elettorale del gennaio 2012 (presidenziali e legislative), dalla riconferma del presidente Ma Ying-jeou (Gmd) alla guida del paese e dalla riconquista della maggioranza parlamentare da parte del suo partito.
L’unico attore esterno in grado di influenzare le dinamiche, altrimenti tutte duali, tra Pechino e Taipei sono gli Stati Uniti. Il rapporto con gli Usa è regolato dal Taiwan Relations Act: con la sua approvazione nel 1979, contestuale alla ripresa ufficiale dei rapporti di Washington con la Rpc, il Congresso sanciva la volontà statunitense di mantenere legami culturali e commerciali con Taiwan (formalmente: con il popolo di Taiwan, e non con lo stato della Repubblica di Cina). Tale documento, che conferiva poteri speciali, equivalenti di fatto a quelli di un’ambasciata, all’American Institute di Taiwan, esplicitava inoltre chiaramente che gli Usa avrebbero considerato qualsiasi tentativo non pacifico di risolvere lo status di Taiwan come una minaccia alla pace e alla sicurezza dell’area del Pacifico occidentale, autorizzando così la vendita e la fornitura di armi di tipo difensivo a Taipei. Meno chiari restavano invece, e restano tutt’oggi, i termini dell’impegno di Washington rispetto alla difesa di Taiwan: sul punto, infatti, gli Stati Uniti hanno preferito l’adozione di una politica di cosiddetta ambiguità strategica, che non ha mai confermato, ma allo stesso tempo mai smentito, l’eventualità di un loro intervento militare automatico in caso di attacco cinese all’isola.
Sono solo 23 i paesi che attualmente riconoscono in via ufficiale lo stato di Taiwan, tutti gli altri mantengono invece relazioni informali: tra i primi figurano principalmente diversi piccoli stati dell’area oceanica e dell’America centrale e Latina, accanto a quattro stati africani e allo stato del Vaticano, unico in tutt’Europa.
A causa della contrarietà di Pechino, Taiwan è membro solo di pochissime organizzazioni internazionali, come l’Apec e l’Organizzazione mondiale del commercio, dove tuttavia è ufficialmente riconosciuto con il nome di Cina Taipei o Taipei cinese.
Dopo i primi vent’anni di governo autoritario, instaurato dal Guomindang all’indomani del suo sbarco sull’isola, il sistema politico taiwanese è andato progressivamente liberalizzandosi. Il pugno duro tenuto da Chiang Kai-shek fu progressivamente ammorbidito dalla direzione di suo figlio ed erede politico Chiang Ching-kuo (presidente dal 1978). Sull’isola restò in vigore la legge marziale dal 1949 al 1987, e durante tutto questo quarantennio le elezioni politiche furono libere e competitive solo a livello locale. Nel 1989, dopo due anni dal ritiro della legge marziale, il paese si è avviato sui binari di una democratizzazione compiuta, con la prima elezione dal 1949 dell’Assemblea legislativa nazionale (detta Yuan). Nel 1996 fu invece introdotta l’elezione diretta del presidente della repubblica. La scena politica interna è sempre stata dominata dal Gmd, fin dal suo arrivo sull’isola. Solo nell’intervallo di tempo dal 2000 al 2008 il partito è passato all’opposizione, in virtù della vittoria della cosiddetta Coalizione pan-verde (dominata dal Dpp), salvo poi recuperare la maggioranza parlamentare e la presidenza nelle tornate elettorali del 2008 e ancora del 2012.
Poteri e prerogative istituzionali hanno subito un processo di evoluzione negli anni, con la costituzione che è stata emendata e riformata più volte dal 1949 ad oggi: il cuore del potere politico rimane ad ogni modo principalmente nelle mani del presidente, laddove il parlamento, che ha visto ridurre il numero dei suoi membri di quasi la metà da una riforma del 2004, ha come prerogativa principale quella di approvare le proposte di legge d’iniziativa presidenziale.
La popolazione taiwanese è di circa 23 milioni di persone: considerando le dimensioni ridotte dell’isola, che copre il 99% del territorio nazionale, i tassi di densità demografica si attestano tra i più alti del mondo. Con 643 persone per chilometro quadrato, infatti, Taiwan è secondo solo al Bangladesh in questa speciale classifica, se si escludono città-stato e piccoli stati insulari.
Tolti i circa due milioni di taiwanesi, riparati sull’isola durante gli anni della guerra civile cinese, la gran parte della popolazione restante discende da immigrati cinesi che raggiunsero Taiwan a partire dal 17° secolo, l’85% dei quali originario della provincia di Fu Jian e il 15% rimanente di etnia Hakka, proveniente della provincia di Guangdong. La popolazione indigena invece, che è stimata essere di poco inferiore alle 500.000 persone, conta circa il 2% del totale demografico. Il tasso di crescita della popolazione è oggi arrivato allo zero, in diminuzione costante e progressiva dagli anni Sessanta, quando era pari a circa il 3,5%. Da qualche anno, inoltre, Taiwan assiste all’emigrazione di decine di migliaia di suoi abitanti, che decidono di trasferirsi nella Cina continentale, attratte dalle maggiori opportunità lavorative offerte da questa: stime non ufficiali descrivono che il fenomeno avrebbe interessato fino ad ora circa 400.000 taiwanesi.
A lungo governata in maniera autoritaria dal Gmd, Taiwan vive dagli anni Novanta un progressivo processo di democratizzazione e liberalizzazione: oggi il paese si attesta come una democrazia libera tanto per ciò che riguarda i diritti politici e civili dei suoi cittadini, quanto per la libertà della stampa e del sistema dei media più in generale. Il tasso di scolarizzazione e quello di alfabetizzazione sono vicini al 100% e la percentuale di studenti che raggiungono le università è in progressiva e rilevante crescita dagli anni Ottanta. Il governo taiwanese, d’altra parte, accorda all’istruzione un’importanza decisiva, come testimoniato dalle alte percentuali di budget governativo destinate negli anni a questo capitolo di spesa – pari, quando non superiore, al 15% della spesa pubblica.
All’arrivo sull’isola del Guomindang nel 1949, Taiwan aveva un’economia sostanzialmente agraria, basata sulla coltivazione dello zucchero e del riso. Gli anni Cinquanta coincisero invece con un importante processo di industrializzazione costruito intorno all’esportazione di prodotti a bassa fattura. Nei due decenni successivi, l’economia taiwanese ha così potuto percorrere un processo di crescita esponenziale, grazie allo sviluppo di industrie che riuscivano a esportare i propri manufatti a prezzi competitivi sui mercati internazionali, beneficiando di spese di lavorazione molto ridotte, dovute all’elevata disponibilità di manodopera e alle sovvenzioni ai costi di produzione erogate grazie agli aiuti finanziari statunitensi. Dagli anni Ottanta in avanti, invece, il settore secondario taiwanese ha subito una rilevante evoluzione, puntando progressivamente sempre più sull’industria ad alta tecnologia ed elevata specializzazione: l’isola divenne allora uno dei maggiori produttori mondiali di beni e prodotti legati al settore dei computer, oltre che specializzata nel settore elettronico e chimico.
Negli ultimi vent’anni molte compagnie taiwanesi hanno scelto di delocalizzare i propri processi produttivi, a causa dell’aumento del tenore di vita sull’isola e conseguentemente anche dei salari. Se all’inizio la nuova manodopera veniva ricercata in altri stati del sud-est asiatico, con l’eliminazione delle restrizioni sul traffico commerciale nello Stretto di Taiwan è proprio la Cina continentale a essersi progressivamente affermata come la principale meta di destinazione degli investimenti industriali taiwanesi. Taiwan è inoltre diventata uno dei maggiori investitori della Thailandia, dell’Indonesia, della Malaysia, delle Filippine, del Vietnam, oltre che della stessa Cina.
Alla conseguente diminuzione dell’importanza sul pil del settore industriale, è corrisposto un aumento esponenziale di quella del settore dei servizi, arrivato a generare il 70% circa del pil nazionale.
La crescita dell’economia di Taiwan si è dimostrata costante, tanto lungo tutti i cinque decenni del secondo dopoguerra, quanto trasversalmente alle trasformazioni che hanno interessato la struttura della sua economia: i tassi medi annui intorno al 9% degli anni Sessanta, Settanta e Ottanta si sono confermati anche negli ultimi quindici anni, che hanno infatti visto raddoppiare il pil nazionale.
Il segreto del successo economico del paese, che ha fatto inserire Taiwan nel quartetto delle cosiddette ‘tigri asiatiche’ (insieme a Singapore, Corea del Sud e Hong Kong) e ha spinto diversi osservatori a parlare di miracolo taiwanese, rimane saldamente legato alla propria industria manifatturiera, come testimoniato dal fatto che le esportazioni del paese consistono praticamente nella loro totalità di manufatti industriali.
I dati relativi al pil pro capite sono forse i più emblematici per rappresentare la cifra di questo successo: dai 170 dollari di inizio anni Sessanta si è infatti passati ai più di 37.000 del 2011.
In un paese che vive fin dalla nascita una controversia legata alla sua stessa esistenza e che negli anni si è dimostrata sempre sul punto di poter degenerare in conflitto armato, il comparto difensivo è naturalmente cruciale. La costante minaccia di un’invasione per mano della Rpc ha infatti portato i governi taiwanesi a mantenere delle forze armate molto numerose, oltre che ben equipaggiate: Taiwan è infatti il quindicesimo paese al mondo per numero di militari attivi ogni 1000 abitanti (12,6), settimo se si conteggiano anche i riservisti (85,5).
L’imperativo strategico prioritario – difendere l’isola in caso di attacco missilistico o sbarco da parte cinese – ha spinto Taipei a dotarsi di hangar corazzati contro missili balistici, di sistemi di difesa aerei con capacità antimissilistica e di avvistamento rapido, oltre che di truppe militari specializzate prima di tutto in attività di contrattacco verso assalti anfibi. Il governo taiwanese spende diversi miliardi di dollari ogni anno per equipaggiare le sue basi e le sue forze armate delle migliori attrezzature e sistemi d’arma attualmente in circolazione: la spesa percentuale destinata al budget militare nel 2011 si è attestata intorno al 2% annuo del pil.
Gli Stati Uniti, che hanno un impegno formale con Taipei per la fornitura di armamenti di difesa, si sono affermati come primo indiscusso partner militare del paese: Taiwan importa da Washington la quasi totalità dei propri armamenti ed è impegnata con la difesa statunitense in programmi di cooperazione militare e di intelligence. Gli Stati Uniti, inoltre, al di là della linea ufficiale di ‘ambiguità strategica’, hanno già dimostrato in passato il loro effettivo impegno nel garantire la sicurezza dell’isola. Il precedente più significativo si è registrato nel 1996, contestualmente alla cosiddetta Terza crisi dello Stretto tra Cina e Taiwan (che seguiva quelle del 1955 e del 1958), quando Washington decise di muovere nello Stretto e nei mari limitrofi una parte rilevante della propria flotta, fino a raggiungere il dispiegamento militare più ingente in Asia dai tempi della guerra del Vietnam.
La Cina del 2012, tuttavia, non è la Cina del 1996 e gli Stati Uniti sono i primi ad essere consapevoli tanto dei mutati rapporti di forza nello scacchiere asiatico quanto dei conseguenti maggiori rischi connessi ad un’escalation della tensione nello Stretto: per questo motivo Washington è il primo sostenitore della linea di prudenza e di dialogo con Pechino intrapresa negli ultimi anni dal presidente Ma Ying-jeou.
Il rapporto tra Taiwan e la Repubblica Popolare Cinese (Rpc), tanto dal punto di vista politico quanto da quello economico, diplomatico e militare, rappresenta il centro attorno al quale gravita tutta la politica taiwanese. Sul tema si organizza e si posiziona la stessa offerta partitica interna: da una parte la cosiddetta Coalizione pan-azzurra, guidata dal Gmd e fautrice di una linea di dialogo e collaborazione con Pechino, che tradizionalmente non ha mai abbandonato l’idea di una riunificazione con il continente; dall’altra la Coalizione pan-verde, dominata dal Partito progressista democratico (Dpp) e da sempre favorevole a un’identità indipendentista taiwanese.
Anche le varie formule con cui negli anni ci si è riferiti alle relazioni tra i due paesi hanno rispecchiato questa altalena di posizioni e la grande attenzione, con cui le rispettive leadership politiche guardano all’utilizzo di una denominazione piuttosto che di un’altra, restituisce immediatamente la complessità e la centralità della controversia. Dalle ‘special state-to-state relations’ dell’ex presidente Lee Tung-hui (1988-2000, del Gmd), si è passati infatti al presidente Chen Shui-bian (2000-08, del Dpp), che preferiva sottolineare la chiara esistenza ai due lati dello Stretto di due stati separati, fino ad arrivare all’attuale capo di stato taiwanese, Ma Ying-jeou (Gmd), che ha riutilizzato la formula dell’eccezionalità della relazione, ma tra due ‘aree’ distinte all’interno di un unico stato. Ma Ying-jeou, fautore di una linea più distensiva nei confronti di Pechino, è oggi sostenitore della cosiddetta ‘politica dei tre no’: no all’unificazione, no all’indipendenza e no all’uso della forza. La formula che invece si conferma più condivisa, oltre che maggiormente in uso, specie presso il mondo diplomatico, è quella più generica delle ‘relazioni attraverso lo Stretto’ (Cross-Strait Relations).
Quanto la forma si mischi alla sostanza politica si evince infine anche dal piano amministrativo. I governi dei due paesi, infatti, non trattano le reciproche relazioni come afferenti ai dipartimenti degli esteri, ma si relazionano tramite degli organi formalmente privati, seppur sotto il loro controllo: per quanto riguarda la Rpc, tramite l’Association for Relations Across the Taiwan Straits, per Taipei invece tramite la Straits Exchange Foundation.