Vedi Taiwan dell'anno: 2012 - 2013 - 2014 - 2015 - 2016
La Repubblica di Cina (Rdc), nota con il nome della sua maggiore isola, Taiwan (Formosa), sorge nel Mar Cinese Orientale, al largo delle coste continentali. Comprende anche i gruppi insulari di Pescadores, Quemoy e Matsu. La Rdc si è costituita nel 1912 dalle ceneri del millenario impero cinese, sotto la guida di Sun Yat-sen, fondatore del partito guida del Guomindang (Gmd). Il nuovo stato dimostrò dapprima un’alta instabilità politica, conosciuta come il periodo dei ‘Signori della guerra’. Riuscì a stabilizzarsi soltanto con l’avvento di Chiang Kai-shek alla leadership del Gmd. La Rdc assunse però la sua attuale forma statuale-territoriale nel 1949. Con la sconfitta di Chiang da parte del Partito comunista cinese di Mao, il Gmd si ritirò sull’isola di Taiwan, posta a circa 150 chilometri dal continente. Potè insediarvisi stabilmente grazie al sostegno economico e militare degli Stati Uniti, che nell’ambito della Guerra fredda si opposero all’avanzata dei regimi comunisti nel Sud-Est asiatico. Per questo, la Costituzione della Rdc rivendica la sovranità sull’intera Repubblica popolare cinese (Rpc) e anche sulla Mongolia, riconosciuta indipedente da Chiang Kai-shek nel 1945 e spinta nelle braccia della Russia stalinista in un momento di necessità geopolitica.
Dal periodo della netta contrapposizione, le relazioni fra Taiwan e RPC sono migliorate. L’odierno presidente, Ma Ying-jeou, esponente del Gmd eletto nel 2008 e rieletto nel 2012, si professa disponibile a una riunificazione, seppur non incondizionata. Una tappa importante nel processo di pacificazione si è avuta con il cosidetto ‘1992 Consensus’. Si tratta del frutto di una serie di incontri culminati con l’accordo informale sulla ‘One China Policy’, secondo cui esiste una sola Cina in termini culturali e storici. Il giudizio sulla legittima sovranità è stato però sospeso per permettere i contatti bilaterali fra i due paesi. Data la natura dell’intesa, secondo alcune fonti soltanto verbale, si è spesso sospettato che l’accordo non sia mai stato raggiunto. Il presidente Ma ha spesso fatto leva sul 1992 Consensus per ribarire la liceità di una ripresa diplomatica fra le due Cine. Nel 2010 si è arrivati alla conclusione di uno storico ‘accordo per un framework di cooperazione economica’, con cui i due paesi hanno abbassato o eliminato del tutto i dazi doganali su centinaia di prodotti e liberalizzato alcuni settori delle rispettive economie. L’accordo, fortemente voluto dall’ex presidente cinese Hu Jintao, è stato tuttavia contestato a Taiwan e accolto con scetticismo da una significativa parte dell’opinione pubblica, la quale vede nell’intensificarsi dei rapporti economici tra i due paesi un preludio a una unificazione politica.
Anche se conflittuali, le relazioni di Taiwan con la Rpc sono da sempre la priorità assoluta e catalizzano la quasi totalità dell’agenda politica nazionale. La partita si è giocata negli anni prevalentemente dal punto di vista politico e militare, con Pechino che ha continuato a ritenere Taiwan una sua provincia ribelle, si è sempre opposta alla sua indipendenza de jure (come ratificato nella legge antisecessione del 2005) e si è dichiarata pronta a un’invasione dell’isola nel caso Taipei scegliesse di mutare lo status quo.
Contestuali sono state negli anni le relazioni con gli Stati Uniti, l’unico attore capace di influenzare in maniera decisiva le relazioni fra Pechino e Taipei. Il riavvicinamento fra Rpc e Usa, attraverso uffici di collegamento voluti da Richard Nixon e Henry Kissinger (1972), e il riconoscimento del governo comunista come l’unico legittimo (1979) avvenivano parallelamente a un ammorbidimento del regime autoritario del Gmd, all’epoca guidata da Chiang Ching-kuo, figlio ed erede politico di Chiang Kai-shek. In questa situazione contraddistinta da una minore rigidità rispetto al passato, la Rpc propose alla Rdc una ripresa dei rapporti e una diplomazia basata su ‘tre legami’. Chiang, però, si oppose fermamente e ribadì i suoi ‘tre no’ (‘nessun compromesso, nessun contatto, nessuna negoziazione’). In questa situazione di stallo, il rapporto con gli Usa fu regolato dal Taiwan Relations Act: con la sua approvazione nel 1979, contestuale alla ripresa ufficiale dei rapporti di Washington con la Rpc, il Congresso sanciva la volontà statunitense di mantenere legami culturali e commerciali con Taiwan (formalmente: con il popolo di Taiwan, e non con lo stato della Repubblica di Cina). Il documento conferiva poteri speciali, equivalenti di fatto a quelli di un’ambasciata, all’American Institute di Taiwan ed esplicitava inoltre chiaramente che gliUsa avrebbero considerato qualsiasi tentativo non pacifico di risolvere lo status di Taiwan come una minaccia alla pace e alla sicurezza dell’area del Pacifico occidentale. Venivano così autorizzate la vendita e la fornitura di armi a Taipei. Meno chiari restavano invece i termini dell’impegno di Washington rispetto alla difesa di Taiwan: sul punto, gli Stati Uniti hanno preferirono l’adozione di una politica di cosiddetta ambiguità strategica, che non è stata mai confermata. Allo stesso tempo non è mai stata smentita l’eventualità di un intervento militare in caso di attacco cinese.
Attualmente, sono solo 22 i paesi che riconoscono ufficialmente lo stato di Taiwan: Belize, Burkina Faso, El Salvador, Guatemala, Haiti, Honduras, Isole Marshall, Isole Salomone, Kiribati, Nauru, Nicaragua, Panama, Palau, Paraguay, Saint Kitts and Nevis, Saint Vincent and the Grenadines, Santa Lucia, São Tomé and Príncipe, Swaziland, Tuvalu e il Vaticano. Gli altri stati che mantengono invece relazioni informali, lo fanno attraverso uffici di collegamento o istituti. L’Istituto Americano i Taiwan si occupa di funzioni come il rilascio dei visti e di quelle basilari delle legazioni diplomatiche.
A causa della contrarietà di Pechino, Taiwan è membro solo di pochissime organizzazioni internazionali, come l’Apec e l’Organizzazione mondiale del commercio, dove tuttavia è ufficialmente riconosciuto con il nome di ‘Cina Taipei’ o ‘Taipei cinese’.
Dopo i primi vent’anni di governo autoritario, instaurato dal Guomindang all’indomani del suo sbarco sull’isola, il sistema politico taiwanese è andato progressivamente liberalizzandosi. Sull’isola è rimasta in vigore la legge marziale dal 1949 al 1987, e durante questo quarantennio le elezioni politiche sono state libere e competitive soltanto a livello locale. Nel 1989, dopo due anni dal ritiro della legge marziale, il paese si è avviato sui binari di una democratizzazione compiuta, con la prima elezione dal 1949 dell’assemblea legislativa nazionale, loYuan. Nel 1996 fu invece introdotta l’elezione diretta del presidente della repubblica. La scena politica interna è sempre stata dominata dal Gmd. Solo nell’intervallo di tempo dal 2000 al 2008 il partito è passato all’opposizione, in virtù della vittoria della cosiddetta coalizione panverde (dominata dal Dpp), salvo poi recuperare la maggioranza parlamentare e la presidenza nelle tornate elettorali del 2008 e ancora del 2012.
Poteri e prerogative istituzionali hanno subito un processo di evoluzione negli anni, con la Costituzione che è stata emendata e riformata più volte dal 1949 a oggi: il cuore del potere politico rimane nelle mani del presidente, laddove il parlamento, che ha visto ridurre il numero dei suoi membri di quasi la metà da una riforma del 2004, ha come prerogativa principale quella di approvare le proposte di legge d’iniziativa presidenziale.
La popolazione taiwanese è di circa 23 milioni di persone: considerando le dimensioni ridotte dell’isola, che copre il 99% del territorio nazionale, i tassi di densità demografica si attestano tra i più alti del mondo. Con 643 persone per chilometro quadrato, Taiwan è secondo solo al Bangladesh, se si escludono città stato e piccoli stati insulari.
Tolti i circa due milioni di abitanti, arrivati durante gli anni della guerra civile cinese, la gran parte della popolazione discende da immigrati cinesi che raggiunsero Taiwan a partire dal 17° secolo. L’85% di loro è originario della provincia di Fujian e il 15% rimanente è di etnia Hakka e proveniene dalla provincia di Guangdong, che fa comunque parte della più grande famiglia degli Han, quella propriamente detta cinese. La popolazione indigena, di poco inferiore alle 500.000 persone, conta circa il 2% del totale demografico. Il tasso di crescita della popolazione è oggi sceso a zero, in diminuzione costante e progressiva dagli anni Sessanta, quando era pari a circa il 3,5%. Da qualche anno, inoltre, Taiwan assiste all’emigrazione di decine di migliaia di abitanti, che decidono di trasferirsi della Cina continentale, attratte dalle maggiori opportunità lavorative: stime non ufficiali indicano una cifra di circa 400.000 taiwanesi.
Molti di coloro che contestano il processo di riavvicinamento alla Cina intrapreso negli ultimi anni, sostengono il connubio che si è ormai venuto a sviluppare fra etnie cinesi e indigeni dell’isola. L’identità taiwanese che si sarebbe così venuta a formare, costituirebbe un complesso culturale differente da quella cinese. L’utilizzo del cinese tradizionale nella scrittura, in contrasto con quello della Rpc semplificato per motivi di alfabetizzazione negli anni Cinquanta e Sessanta è solo un esempio di molte altre differenze linguistiche, sociali e, secondo il messaggio finale che si vorrebbe fare passare, politico-ideologiche.
Taiwan vive dagli anni Novanta un progressivo processo di democratizzazione e liberalizzazione: oggi il paese si attesta come una democrazia libera tanto per ciò che riguarda i diritti politici e civili dei suoi cittadini, quanto per la libertà della stampa e del sistema dei media più in generale. Il tasso di scolarizzazione e quello di alfabetizzazione sono vicini al 100% e la percentuale di studenti che raggiungono le università è in progressiva e rilevante crescita dagli anni Ottanta. Il governo taiwanese, d’altra parte, accorda all’istruzione un’importanza decisiva, come testimoniato dalle alte percentuali di budget governativo destinate negli anni a questo capitolo di spesa, pari, quando non superiore, al 15% della spesa pubblica.
All’arrivo sull’isola del Guomindang nel 1949, Taiwan aveva un’economia sostanzialmente agraria, basata sulla coltivazione dello zucchero e del riso. Gli anni Cinquanta coincisero invece con un importante processo di industrializzazione costruito intorno all’esportazione di prodotti a bassa fattura. Nei due decenni successivi, l’economia taiwanese ha così potuto percorrere un processo di crescita esponenziale, grazie allo sviluppo di industrie che riuscivano a esportare i propri manufatti a prezzi competitivi sui mercati internazionali, beneficiando di spese di lavorazione molto ridotte, dovute all’elevata disponibilità di manodopera e alle sovvenzioni ai costi di produzione erogate grazie agli aiuti finanziari statunitensi. Dagli anni Ottanta in avanti, invece, il settore secondario taiwanese ha subito una rilevante evoluzione, puntando progressivamente sull’industria ad alta tecnologia ed elevata specializzazione: l’isola è diventata allora uno dei maggiori produttori mondiali di beni e prodotti legati al settore dei computer, oltre che specializzata nel settore elettronico e chimico.
Negli ultimi vent’anni molte compagnie taiwanesi hanno scelto di delocalizzare i propri processi produttivi, a causa dell’aumento del tenore di vita sull’isola e conseguentemente anche dei salari. Se all’inizio la nuova manodopera veniva ricercata in altri stati del Sud-Est asiatico, con l’eliminazione delle restrizioni sul traffico commerciale nello Stretto di Taiwan è proprio la Cina continentale a essersi progressivamente affermata come la principale destinazione degli investimenti industriali taiwanesi. Taiwan è inoltre diventata uno dei maggiori investitori della Thailandia, dell’Indonesia, della Malaysia, delle Filippine, del Vietnam, oltre che della stessa Cina.
Alla conseguente diminuzione dell’importanza sul pil del settore industriale, è corrisposto un aumento esponenziale di quella del settore dei servizi, arrivato a generare il 65-70% circa del pil nazionale. Di un certo rilievo è il settore dell’informatica e, in particolare, quello della componentistica hardware per l’assemblaggio di computer. Due delle cinque maggiori compagnie mondiali che producono computer portatili, Acer e Asus, sono taiwanesi (2013).
La crescita dell’economia di Taiwan si è dimostrata costante, nel tempo e nei settori: i tassi medi annui intorno al 9% degli anni Sessanta, Settanta e Ottanta si sono confermati anche negli ultimi quindici anni, che hanno infatti visto raddoppiare il PIL nazionale.
Il segreto del successo economico del paese, che ha fatto inserire Taiwan nel quartetto delle cosiddette ‘tigri asiatiche’ (assieme a Singapore, Corea del Sud e Hong Kong) e ha spinto diversi osservatori a parlare di miracolo taiwanese, rimane saldamente legato alla propria industria manifatturiera, come testimoniato dal fatto che le esportazioni consistono di manufatti industriali.
I dati relativi al pil pro capite sono forse i più emblematici per rappresentare la cifra di questo successo: dai 170 dollari di inizio anni Sessanta si è passati ai più di 49.000 del 2012.
In un paese che affronta fin dalla nascita una controversia legata alla sua stessa esistenza, che negli anni si è dimostrata sempre sul punto di degenerare in conflitto armato, il comparto difensivo è cruciale. La costante minaccia di un’invasione per mano della Rpc ha portato i governi taiwanesi a mantenere delle forze armate molto numerose, oltre che ben equipaggiate. Oltre ad avere un gran numero di forze paramilitari, Taiwan è uno dei paesi al mondo con il maggior numero di militari attivi ogni mille abitanti (12,4 nel 2012), una situazione che è rimasta costante negli anni.
Il rapporto quadriennale sulla difesa (marzo 2013), che il ministero della difesa compila nei primi dieci mesi di vita di ogni nuova amministrazione, prevede una riduzione delle forze armate a 215.000 unità per fine 2014. L’obiettivo finale è ancora più ambizioso: per il 2015 si pensa all’eliminazione della leva obbligatoria in favore di un servizio militare di quattro mesi e di un esercito di soli volontari. Del resto, si tratta di un fattore naturale dato che il basso tasso di crescita dell’isola, tendente all’1% da cinque anni, ha reso probabile che la coscrizione del 2020 dimezzerebbe comunque il numero delle reclute, rispetto al 2000. Le necessità difensive di Taiwan non sembrano però mutare dato che da parte di Pechino non sembra venire meno l’interesse a realizzare quella riappropriazione del ‘territorio nazionale’ sostenuta dalla propaganda comunista fin dagli albori della Rpc.
Gli Stati Uniti continuano a svolgere una funzione fondamentale. Oltre a essere il maggior esportatore di armi nella Rdc per circa 1,8 miliardi di dollari, Washington controlla attentamente l’area: nell’ambito dei dissidi tra Giappone e Rpc per le isole Diaoyu (Senkaku), per esempio, una coppia di aerei militari statunitensi sono entrati nella zona aerea rivendicata dalla Cina sull’arcipelago conteso senza identificarsi secondo le regole prescritte da Pechino. Fin dal 1949, del resto, gli Usa hanno dispiegato una rilevante presenza militare fornendo protezione durante le crisi del 1955, del 1958 e del 1996. Durante quest’ultima, in particolare, Washington ha messo in campo il contingente più ampio in Asia dai tempi della guerra del Vietnam. Taiwan è consapevole che, come condizione inderogabile per rimanere indipendente o per evitare un’invasione forzosa, deve essere mantenuto in equilibrio di forze nell’area del Mar Cinese Orientale. Il mantenimento del difficile equilibrio potrebbe tuttavia assumere una nuova dimensione in relazione proprio alle tensioni nel Mar Cinese Meridionale e, in generale, nelle zone potenzialmente ricche di risorse energetiche.
Il rapporto tra Taiwan e la Repubblica popolare cinese (RPC), tanto dal punto di vista politico quanto da quello economico, diplomatico e militare, è il centro attorno al quale gravita tutta la politica taiwanese. Sul tema si organizza e si posiziona la stessa offerta partitica interna: da una parte la cosiddetta coalizione pan-azzurra, guidata dal GMD e fautrice di una linea di dialogo e collaborazione con Pechino, che tradizionalmente non ha mai abbandonato l’idea di una riunificazione con il continente. Dall’altra la coalizione pan-verde, dominata dal Partito progressista democratico (DPP) e da sempre promotrice dell’identità taiwanese, differente da quella cinese continentale. Anche le varie formule con cui negli anni ci si è riferiti alle relazioni tra i due paesi hanno rispecchiato questa altalena di posizioni e la grande attenzione, con cui le rispettive leadership politiche guardano all’utilizzo di una denominazione piuttosto che di un’altra, restituisce la complessità e la centralità della controversia. Dalle ‘special state-to-state relations’ dell’ex presidente Lee Tung-hui (1988-2000, del GMD), si è passati alle tesi del presidente Chen Shuibian (2000-08, del DPP), che preferiva sottolineare l’esistenza ai lati dello Stretto di due stati separati. Si è arrivati così all’attuale capo di stato taiwanese, Ma Ying-jeou (GMD), che ha riutilizzato la formula dell’eccezionalità della relazione, ma tra due ‘aree’ distinte all’interno di un unico stato. Ma Ying-jeou, pur favorevole alla riunificazione, si è rifatto al governo innovatore di Chiang Ching-kuo formulando una sua politica dei ‘tre no’ (‘nessuna riappacificazione, nessuna indipendenza, nessun uso della forza’) per indicare il senso della sua politica condizionata di riavvicinamento alla RPC. La formula che invece si conferma più condivisa, oltre che maggiormente in uso, specie nel mondo diplomatico, è quella più generica delle ‘relazioni attraverso lo Stretto’ (Cross-Strait Relations). Quanto la forma si mischi alla sostanza politica si evince anche dal piano amministrativo. I governi dei due paesi non trattano le reciproche relazioni come afferenti ai dipartimenti degli esteri, ma si relazionano tramite organi formalmente privati, seppur sotto il loro controllo: per quanto riguarda la RPC, tramite l’Association for Relations Across the Taiwan Straits, per Taipei invece con la Straits Exchange Foundation.