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La Repubblica di Cina (Rdc), comunemente nota come Taiwan, è uno stato sovrano il cui territorio è composto da un gruppo di isole al largo delle coste cinesi, tra cui la principale è quella di Taiwan (conosciuta anche con il nome di Formosa), che si trova a circa 150 chilometri dalla Cina continentale tra il Mar Cinese Meridionale e quello Orientale. Terminata l’occupazione e la dominazione giapponese, durate fino alla sconfitta nipponica nella Seconda guerra mondiale, l’isola di Taiwan tornò sotto il governo della Repubblica di Cina, che era nelle mani del Guomindang (Gmd), il partito nazionalista retto da Chiang Kai-shek. Quando tuttavia il Gmd fu sconfitto nel 1949 nel corso della guerra civile cinese che lo vedeva opposto al Partito comunista di Mao, la scelta del suo leader fu quella di ritirarsi proprio sull’isola, con quanto rimaneva dell’esercito e delle riserve auree della Repubblica. Fu così che prese vita l’odierno stato di Taiwan.
Da allora, tanto Taipei quanto Pechino hanno sempre rivendicato di essere l’unico legittimo governo della Cina, ingaggiando così un braccio di ferro basato su un aut-aut diplomatico. Secondo gli assunti della ‘one China policy’, infatti, in base ai quali esiste una sola Cina, ma due governi distinti che ne reclamano la sovranità, qualunque paese che avesse riconosciuto ufficialmente uno dei due governi non avrebbe più potuto avere relazioni diplomatiche ufficiali con l’altro. Una situazione che, se ha favorito Taiwan nei primi vent’anni post 1949, quando la Cina comunista si attestava come un paese escluso da blocco occidentale e isolato da quello sovietico, è invece virata in favore di Pechino dall’inizio degli anni Settanta, contestualmente all’apertura diplomatica che il presidente statunitense Richard Nixon decise di accordare al Partito comunista cinese. La scelta della coppia Nixon-Kissinger di riabilitare le relazioni tra Stati Uniti e Cina, infatti, diede il via a uno scongelamento politico rilevante tra Pechino e il resto del mondo, specie quello occidentale: numerosi furono così i paesi (tra cui Usa, Giappone, Canada, Australia, Italia e Germania dell’Ovest) che in quel decennio scelsero di riconoscere la legittimità della Repubblica Popolare Cinese, spostando così le proprie rappresentanze diplomatiche dall’isola alla terraferma. Anche nei forum multilaterali, d’altra parte, gli anni Settanta coincisero con una svolta decisiva in favore di Pechino: nell’ottobre del 1971, infatti, l’Assemblea generale delle Nazioni Unite (Un) decise di espellere la rappresentanza del Guomindang e assegnare il seggio in Consiglio di sicurezza previsto per la Cina, oltre che tutte le delegazioni negli altri organi del sistema Un, alla Repubblica Popolare Cinese.
Per Taiwan, dunque, le relazioni con il suo vicino sono da sempre la priorità assoluta e catalizzano la quasi totalità dell’attenzione dell’agenda politica nazionale. La partita si è giocata negli anni prevalentemente dal punto di vista politico e militare, con Pechino che, continuando a ritenere Taiwan una sua provincia ribelle, si è sempre opposta alla sua indipendenza de jure (come ratificato nella legge antisecessione del 2005), dichiarandosi disposta a un’invasione dell’isola in caso Taipei scegliesse di mutare lo status quo in questa direzione. Per questo motivo, dalla regione della terraferma antistante l’isola la Cina tiene schierati più di 1000 missili balistici a corto raggio, oltre che centinaia di migliaia di soldati pronti a intervenire in caso di guerra.
La posizione, ufficialmente condivisa dai due paesi e che considera Taiwan e la Repubblica Popolare Cinese come parti di un medesimo stato, non è accettata da tutte le principali forze partitiche taiwanesi ed è fonte di tensioni politiche per il paese, tanto interne quanto esterne. Così, nel corso degli ultimi vent’anni, e in coincidenza con l’avvicendarsi al governo di Taipei del Gmd (sostenitore della ‘one China policy’) e del Partito progressista democratico (Dpp, fautore invece dell’indipendenza di Taiwan e quindi della sua separazione dalla Cina continentale), il rapporto con Pechino, pur rimanendo sempre teso, ha vissuto fasi altalenanti.
Il ritorno del Gmd al governo di Taipei (nel 2008) ha coinciso con la ripresa del dialogo tra le due sponde dello Stretto e ha portato nel 2010 alla conclusione di uno storico accordo commerciale, con cui i due paesi hanno abbassato o eliminato del tutto i dazi doganali su centinaia di prodotti e manufatti e hanno liberalizzato alcuni settori delle rispettive economie.
L’accordo, fortemente voluto dal presidente cinese Hu Jintao, è tuttavia stato fonte di proteste a Taiwan e accolto con scetticismo da una parte dell’opinione pubblica del paese: in molti, infatti, temono che l’intensificarsi dei rapporti economici tra i due paesi possa essere un preludio di una loro unificazione politica.
Anche le varie formule con cui negli anni ci si è riferiti alle relazioni tra i due paesi hanno rispecchiato questa altalena di posizioni e la grande attenzione, con cui le rispettive leadership politiche guardano all’utilizzo di una denominazione piuttosto che di un’altra, restituisce immediatamente la complessità e la centralità della controversia. Dalle ‘special state-to-state relations’ dell’ex presidente Lee Tung-hui (1988-2000, del Gmd), si è passati infatti al presidente Chen Shui-bian (2000-08, del Dpp), che preferiva sottolineare la chiara esistenza ai due lati dello Stretto di due stati separati, fino ad arrivare all’attuale capo di stato taiwanese, Ma Ying-jeou (Gmd), che ha riutilizzato la formula dell’eccezionalità della relazione, ma tra due ‘aree’ distinte all’interno di un unico stato. Ma Ying-jeou, fautore di una linea più distensiva nei confronti di Pechino, è oggi sostenitore della cosiddetta ‘politica dei tre no’: no all’unificazione, no all’indipendenza e no all’uso della forza. La formula che invece si conferma più condivisa, oltre che maggiormente in uso, specie presso il mondo diplomatico, è quella più generica delle ‘relazioni attraverso lo Stretto’ (Cross-Strait Relations).
Quanto la forma si mischi alla sostanza politica si evince infine anche dal piano amministrativo: i due paesi, infatti, non trattano le reciproche relazioni come afferenti ai dipartimenti degli esteri, ma i due governi si relazionano tramite degli organi formalmente privati, seppur sotto il loro controllo – per quanto riguarda la Rpc, tramite l’Association for Relations Across the Taiwan Straits, per Taipei invece tramite la Straits Exchange Foundation.
L’unico attore esterno in grado di influenzare la relazione, altrimenti tutta duale, tra Pechino e Taipei sono invece gli Stati Uniti. Il rapporto con gli Usa è regolato dal Taiwan Relations Act, un documento del 1979 del Congresso americano, approvato contestualmente alla ripresa ufficiale dei rapporti di Washington con la Repubblica Popolare Cinese, in cui venne ribadita la volontà statunitense di mantenere legami culturali e commerciali con Taiwan (formalmente con il popolo di Taiwan e non con lo stato della Repubblica di Cina) il documento ha inoltre istituito il conferimento di poteri speciali, equivalenti di fatto a quelli di un’ambasciata, all’American Institute di Taiwan. Lo stesso atto, inoltre, esplicitava chiaramente che gli Usa avrebbero considerato qualsiasi tentativo non pacifico di risolvere lo status di Taiwan (quindi anche tramite boicottaggi o embarghi) come una minaccia alla pace e alla sicurezza dell’area del Pacifico occidentale, e autorizzava gli Usa alla vendita e alla fornitura di armi di tipo difensivo a Taipei. Meno chiaro restava invece, e resta tutt’ora, l’impegno di Washington rispetto alla difesa di Taiwan: sul punto, infatti, gli Stati Uniti hanno preferito l’adozione di una politica cosiddetta di ambiguità strategica, che non ha mai confermato, ma allo stesso tempo mai smentito, l’eventualità di un loro intervento militare automatico in caso di attacco cinese all’isola.
Sono solo 23 i paesi che attualmente riconoscono in via ufficiale lo stato di Taiwan, tutti gli altri mantengono invece relazioni informali con Taipei: tra i primi figurano principalmente diversi piccoli stati dell’area oceanica e dell’America centrale e latina, oltre quattro stati africani e lo stato del Vaticano, unico in tutt’Europa.
A causa delle pressioni diplomatiche e politiche di Pechino, Taiwan è membro solo di pochissime organizzazioni internazionali, come l’Apec e l’Organizzazione mondiale del commercio, dove tuttavia è ufficialmente riconosciuto con il nome di Cina Taipei o Taipei cinese.
Dopo i primi vent’anni di governo autoritario, instaurato dal Guomindang all’indomani del suo sbarco sull’isola, il sistema politico taiwanese è andato progressivamente liberalizzandosi. Il pugno duro tenuto da Chiang Kai-shek fu progressivamente ammorbidito dalla direzione di suo figlio ed erede politico Chiang Ching-kuo (presidente dal 1978). Sull’isola restò in vigore la legge marziale dal 1949 al 1987, e durante tutto questo quarantennio le elezioni politiche furono libere e competitive solo a livello locale. Nel 1989, dopo due anni dal ritiro della legge marziale, il paese si è avviato sui binari di una democratizzazione compiuta, con la prima elezione dal 1949 dell’Assemblea legislativa nazionale (detta Yuan). Nel 1996 fu invece introdotta l’elezione diretta del presidente della Repubblica. La scena politica interna è sempre stata dominata dal Guomindang, fin dal suo arrivo sull’isola nel 1949. Solo nell’intervallo di tempo dal 2000 al 2008 il partito è passato all’opposizione, in virtù della vittoria della cosiddetta Coalizione pan-verde (dominata dal Dpp), salvo poi recuperare la maggioranza parlamentare e la presidenza nelle elezioni del 2008.
Poteri e prerogative istituzionali hanno subito un processo di evoluzione negli anni, con la costituzione che è stata emendata e riformata più volte dal 1949 ad oggi: il cuore del potere politico rimane ad ogni modo principalmente nelle mani del presidente, laddove il Parlamento, che ha visto circa dimezzati i suoi membri da una riforma del 2004, ha come prerogativa principale quella di approvare le proposte di legge d’iniziativa presidenziale.
La popolazione taiwanese è di circa 23 milioni di persone: considerando le dimensioni ridotte dell’isola, che copre il 99% del territorio nazionale, i tassi di densità demografica si attestano tra i più alti del mondo. Con 636 persone per chilometro quadrato, infatti, Taiwan è secondo solo al Bangladesh in questa speciale classifica, se si escludono i paesi con superficie minore di 2000 chilometri quadrati.
Se si escludono i circa due milioni di taiwanesi, riparati sull’isola durante gli anni della guerra civile cinese, la gran parte della popolazione restante discende da immigrati cinesi che raggiunsero Taiwan a partire dal 17° secolo, l’85% dei quali originario della provincia di Fu Jian e il 15% rimanente di etnia Hakka, proveniente della provincia di Guangdong. La popolazione indigena invece, che è stimata essere di poco inferiore alle 500.000 persone, conta circa il 2% del totale demografico. Il tasso di crescita della popolazione è oggi arrivato allo zero, in diminuzione costante e progressiva dagli anni Sessanta, quando era pari a circa il 3,5%. Da qualche anno, inoltre, Taiwan assiste all’emigrazione di decina di migliaia di suoi abitanti, che decidono di trasferirsi nella Cina continentale, attratte dalle maggiori opportunità lavorative da questa offerta: stime non ufficiali descrivono che il fenomeno avrebbe interessato fino ad ora circa 400.000 taiwanesi.
A lungo governata in maniera autoritaria dal Guomindang, Taiwan vive dagli anni Novanta un progressivo processo di democratizzazione e liberalizzazione: oggi il paese si attesta come una democrazia libera tanto per ciò che riguarda i diritti politici e civili dei suoi cittadini, quanto per la libertà della stampa e del sistema dei media più in generale. Il tasso di scolarizzazione e quello di alfabetizzazione sono molto vicini al 100% e la percentuali di studenti che raggiungono le università è in progressiva e rilevante crescita dagli anni Ottanta. Il governo taiwanese, d’altra parte, accorda all’istruzione un’importanza decisiva, come testimoniato dalle alte percentuali di budget governativo destinate negli anni a questo capitolo di spesa, intorno, quando non superiore, al 15% della spesa pubblica.
All’arrivo sull’isola del Guomindang nel 1949, Taiwan aveva un’economia sostanzialmente agraria, basata sulla coltivazione dello zucchero e del riso. Gli anni Cinquanta coincisero invece con un importante processo di industrializzazione costruito intorno all’esportazione di prodotti a bassa fattura. Nei due decenni successivi, l’economia taiwanese ha così potuto percorrere un processo di crescita esponenziale, grazie allo sviluppo di industrie che riuscivano a esportare i propri manufatti a prezzi competitivi sui mercati internazionali, beneficiando di spese di lavorazione molto ridotte, dovute all’elevata disponibilità di manodopera e alle sovvenzioni ai costi di produzione erogate grazie agli aiuti finanziari statunitensi. Dagli anni Ottanta in avanti, invece, il settore secondario taiwanese ha subito una rilevante evoluzione, puntando progressivamente sempre più sull’industria ad alta tecnologia ed elevata specializzazione: l’isola divenne allora uno dei maggiori produttori mondiali di beni e prodotti legati al settore dei computer, oltre che specializzata nel settore elettronico e chimico.
Negli ultimi vent’anni molte compagnie taiwanesi hanno scelto di delocalizzare i propri processi produttivi, a causa dell’aumento del tenore di vita sull’isola e conseguentemente anche dei salari. Se all’inizio la nuova manodopera veniva ricercata in altri stati del sud-est asiatico, con l’eliminazione delle restrizioni sul traffico commerciale nello Stretto di Taiwan è proprio la Cina continentale a essersi progressivamente affermata come la principale meta di destinazione degli investimenti industriali taiwanesi. Taiwan è inoltre diventata uno dei maggiori investitori della Thailandia, dell’Indonesia, della Malaysia, delle Filippine, del Vietnam, oltre che della stessa Cina.
Alla conseguente diminuzione dell’importanza sul pil del settore industriale, è corrisposto un aumento esponenziale di quella del settore dei servizi, arrivato a generare oltre il 70% del pil nazionale.
La crescita dell’economia di Taiwan si è dimostrata costante, tanto lungo tutti i cinque decenni del secondo dopoguerra, quanto trasversalmente alle trasformazioni che hanno interessato la struttura della sua economia: i tassi medi annui intorno al 9% degli anni Sessanta, Settanta e Ottanta si sono confermati anche negli ultimi quindici anni, che hanno infatti visto raddoppiare il pil nazionale.
Il segreto del successo economico del paese, che ha fatto inserire Taiwan nel quartetto delle cosiddette ‘tigri asiatiche’ (insieme a Singapore, Corea del Sud e Hong Kong) e ha spinto diversi osservatori a parlare di miracolo taiwanese, rimane saldamente legato alla propria industria manifatturiera, come testimoniato dal fatto che le esportazioni del paese consistono praticamente nella loro totalità (99%) di manufatti industriali.
I dati relativi al pil pro capite sono forse i più emblematici per rappresentare la cifra di questo successo: dai 170 dollari di inizio anni Sessanta si è infatti passati ai più di 35.000 del 2009.
In un paese che vive fin dalla nascita una controversia legata alla sua stessa esistenza e che negli anni si è dimostrata sempre sul punto di potersi accendere e degenerare in conflitto armato, il comparto difensivo è naturalmente cruciale. La costante minaccia di un’invasione per mano della Repubblica Popolare Cinese ha infatti portato i governi taiwanesi a mantenere delle forze armate molto numerose, oltre che ben equipaggiate: Taiwan è infatti il quindicesimo paese al mondo per numero di militari attivi ogni 1000 abitanti (12,6), nono se si conteggiano anche i riservisti (85).
L’imperativo strategico prioritario – difendere l’isola in caso di attacco missilistico o sbarco da parte cinese – ha spinto Taipei a dotarsi di hangar corazzati contro missili balistici, di sistemi di difesa aerei con capacità antimissilistica e di avvistamento rapido, oltre che di truppe militari specializzate prima di tutto in attività di contrattacco verso assalti anfibi. Il governo taiwanese spende diversi miliardi di dollari ogni anno per equipaggiare le sue basi e le sue forze armate delle migliori attrezzature e sistemi d’arma attualmente in circolazione: la spesa percentuale destinata al budget militare è conseguentemente alta, intorno al 4,5% annuo del pil.
Gli Stati Uniti, che hanno un impegno formale con Taipei per la fornitura di armamenti di difesa, si sono affermati come primo indiscusso partner militare del paese: Taipei importa da Washington quasi la totalità dei propri armamenti ed è impegnata con la difesa statunitense in programmi di cooperazione militare e di intelligence. Gli Stati Uniti, inoltre, al di là della linea ufficiale di ‘ambiguità strategica’, hanno dimostrato la loro volontà di garantire la sicurezza di Taiwan nel 1996, contestualmente alla cosiddetta Terza crisi dello Stretto tra Cina e Taiwan, seguita a quelle del 1955 e del 1958. In quell’occasione, infatti, Washington decise di muovere nello Stretto di Taiwan e nei mari limitrofi una parte rilevante della propria flotta, fino a raggiungere il dispiegamento militare più ingente in Asia dai tempi della guerra del Vietnam.