TALIANI DE MARCHIO, Francesco Maria
– Nacque a Montegallo (Ascoli Piceno) il 22 ottobre 1887 da Domenico e da Geltrude Sili.
Il padre era discendente di un’antica famiglia marchigiana, mentre la madre, di origini laziali, era sorella del deputato e poi senatore Cesare Sili.
Dopo aver conseguito la laurea in giurisprudenza (11 luglio 1910), classificatosi terzo nella graduatoria di merito nel 1911, fu nominato addetto di legazione (Ministero degli Affari esteri, Archivio storico diplomatico, Personale, Serie I, pos. B 18, b. 68, f. 100, di San Giuliano a Taliani, 17 gennaio 1912).
Tutta la fase iniziale della sua carriera si svolse in sedi di inner circle: nel gennaio del 1912 fu destinato a Berlino, dove trovò Alberto Pansa come capo missione. Nel luglio del 1913 fu destinato a Costantinopoli dove, già segretario di legazione di 3ª classe, fece le sue prime esperienze professionali.
Incaricato della protezione dei sudditi e degli interessi italiani in Turchia durante la guerra, segnalò la capacità del governo ottomano di manipolare la stampa per far credere «disperata» la situazione degli alleati (Ministero degli Affari esteri, Documenti diplomatici italiani, Serie quinta (1914-1918), vol. V, p. 28, lettera di Taliani del 31 ottobre 1915), cosa che in effetti ebbe delle conseguenze destabilizzanti nelle colonie africane delle potenze dell’Intesa. La «sicurezza della vittoria» spingeva la Sublime Porta a calpestare leggi e diritti e a esagerare in spirito nazionalista e xenofobo, e qui Taliani segnalava con toni drammatici la «ripresa della feroce persecuzione contro gli armeni», i pozzi pieni di cadaveri, le donne giovani e belle divise tra i notabili turchi e le altre seviziate, i fanciulli che morivano di fame e di freddo.
Rimase a Costantinopoli sino al dicembre del 1915, quando in conseguenza dell’intervento dell’Italia in guerra fu espulso dal Paese; rientrò a Roma dopo un viaggio lungo e avventuroso, trattenuto per due settimane dal valì di Smirne assieme ad alcuni funzionari belgi e poi costretto ad aspettare per giorni una nave al Pireo: fu la prima delle ripetute traversie che contraddistinsero l’intera carriera di Taliani.
In attesa di nuova destinazione, lo zio senatore Sili si rivolse per il tramite del ministro Augusto Ciuffelli a Sidney Sonnino per una sede prestigiosa come Londra o Pietrogrado, richiesta esaudita dal ministro, che destinò Taliani in Russia (Archivio storico diplomatico, Personale, Serie I, pos. B 18, b. 68, f. 100, Ciuffelli a Sonnino, 24 febbraio 1916).
Giunto a Pietrogrado nel maggio del 1916 e promosso segretario di legazione di 2ª classe, vi trovò come capomissione Andrea Carlotti di Riparbella, con il quale era in ottimi rapporti. Qui fu spettatore degli eventi che portarono alla dissoluzione dell’impero zarista e che culminarono nella rivoluzione di ottobre. Dopo essere miracolosamente scampato a un assalto da parte delle truppe ribelli all’hotel Astoria, luogo dove risiedevano le rappresentanze diplomatiche occidentali e dove nell’occasione si adoperò per mettere in salvo donne e bambini, seguì da vicino l’instaurazione del governo Kerenski, coltivando qualche speranza che l’offensiva contro le truppe austro-ungariche decisa dal governo provvisorio potesse portare vantaggi all’Intesa, sebbene non nascondesse lo stato disastroso in cui si trovava l’esercito russo (lettera di Taliani al Ministero degli Affari esteri, 19 giugno 1916). Fu poi osservatore del fallimentare tentativo reazionario di Lavr G. Kornilov e della presa di potere da parte dei bolscevichi.
Tali eventi furono da lui descritti in un diario-romanzo pubblicato anni dopo (Pietrogrado 1917, Milano 1935), che restituisce bene il clima rivoluzionario e la fine del ‘vecchio mondo’, a lui certamente caro. Tuttavia non si deve credere che la sua posizione fosse quella di un ‘bieco conservatore’: nominato nell’agosto del 1918 segretario della Cancelleria interalleata, dopo la pace di Brest-Litovsk del 1917 scriveva a Salvatore Contarini dell’importanza di un intervento «liberatore» delle potenze occidentali in Russia che non avrebbe dovuto avere «carattere reazionario» perché non bisognava temere «le conquiste del proletariato» e sosteneva che «la grande Russia ricostruita» avrebbe anche potuto non «avere necessariamente alla sua testa uno Czar, né un Re» (Taliani a Contarini, 16 agosto 1918).
Anche l’appendice della sua missione in Russia fu alquanto travagliata: abbandonata Pietrogrado il 3 marzo 1918, trascorse un mese nell’«esiguo scompartimento polveroso» di un treno, poi nel villaggio russo di Vologda, «dove scintillavano le cupole d’oro di 53 chiese, ma v’era un solo bagno pubblico ignobile», il tutto reso ancora più «emozionante» dalle continue minacce dei bolscevichi, dal cannoneggiamento dei piroscafi sui quali dovevano essere imbarcati e da quindici giorni vissuti in un piccolo yacht «dove si viveva gomito a gomito» e si «cifrava sulle ginocchia in una cabina» (Taliani a Contarini, 16 agosto 1918) per poi finire ad Arcangelo, la roccaforte dell’Armata bianca, «una città che i lunghissimi inverni hanno piegato a tutte le rassegnazioni», scriveva Taliani (Pietrogrado 1917, cit., p. 246).
Chiamato a prestare servizio a Roma nel gennaio del 1919, fu segretario dei ministri degli Esteri Sonnino, Tommaso Tittoni, Vittorio Scialoja e infine Carlo Sforza, di cui condivise la linea ‘democratica’ nei confronti dei nostri confini orientali che portò al trattato di Rapallo (Veli stracciati, Milano 1966, p. 329). Già segretario di legazione di 1ª classe, nel febbraio del 1921 fu destinato da Sforza a Londra, dove arrivò in una fase di deterioramento dei rapporti tra Italia e Regno Unito per divergenti interessi nel Mediterraneo orientale. In quella sede, anche a causa della temporanea assenza dell’ambasciatore Giacomo De Martino e del consigliere Gabriele Preziosi, si occupò di importanti dossier. Fu grazie alle informazioni di Taliani che Sforza condusse in porto un trattato commerciale con la delegazione afgana in visita a Roma, che prevedeva anche lo scambio di missioni diplomatiche con Kabul, fatto che non contribuì al miglioramento delle relazioni diplomatiche con il governo inglese (Micheletta, 1999, p. 355). Nominato consigliere di legazione nel giugno del 1923, nel luglio del 1924 fu destinato nuovamente a Costantinopoli, dove assistette alla nascita della Turchia kemalista, di cui era simbolo la nuova capitale, Ankara, che i diplomatici non amavano, un «villaggio miserabile sperduto in un deserto sassoso» (Veli stracciati, cit., p. 80) e nella quale fu subito inviato dal capomissione ambasciatore Giulio Cesare Montagna. Resse l’ambasciata nel periodo precedente all’arrivo di Luca Orsini Baroni e di questi fu il tramite con il ministro degli Esteri Tewfik Pascià, adoperandosi per il miglioramento delle relazioni tra l’Italia fascista e il nuovo regime di Mustafà Kemal. Nel 1932 fu a L’Aja come inviato straordinario e ministro plenipotenziario di 2ª classe e da quella sede poté assistere all’affermazione del potere nazista. Nel novembre del 1933 segnalava a Benito Mussolini come la Germania fosse riuscita «a inimicarsi tutte le classi olandesi, dai socialisti ai conservatori, senza contare l’elemento israelita» (Documenti diplomatici italiani, Serie settima (1922-1935), vol. XIV, p. 412, 16 novembre 1933), ciò che avrebbe spinto gli olandesi verso l’Inghilterra, convinti che le intenzioni segrete tedesche fossero di controllare economicamente e militarmente i Paesi Bassi, per farne «terreno di manovra contro la Francia e la Gran Bretagna» (ibid., Serie ottava, vol. II, p. 71, lettera di Taliani del 4 dicembre 1935). Di qui, nel 1936, l’invito di Mussolini a Taliani di vigilare sulla posizione dei Paesi Bassi in seno alla Lega delle Nazioni riguardo alle sanzioni decise contro l’Italia per la guerra etiopica e il conseguente impegno di Taliani stesso per il riconoscimento dell’Impero (vol. VII, p. 671, Taliani a Ciano, 15 novembre 1937).
Nel novembre del 1937 sposò l’arciduchessa d’Austria Margherita d’Asburgo Lorena, figlia di Leopoldo Salvatore e di Blanca di Castiglia, matrimonio dal quale non nacquero figli.
Dati gli interessi olandesi nel Pacifico, fu dalla sede dell’Aja che Taliani cominciò a occuparsi della complessa situazione generatasi in Estremo Oriente a causa della nuova aggressione giapponese alla Cina, dove Taliani fu destinato da Galeazzo Ciano come ambasciatore di ruolo e di nomina nel giugno del 1938. Quando arrivò nella nuova sede, la situazione delle relazioni tra Italia e Cina erano tutt’altro che buone, aggravate dal riconoscimento italiano del Manchukuo, avvenuto nel novembre del 1937, dall’adesione di Ciang Kai-Scek alle sanzioni contro l’Italia e dall’avvicinamento tra Giappone e Italia. La strategia di Ciano era quella di «tenere il piede in due staffe» tra Giappone e Repubblica cinese (Samarani, 2011, p. 76), e quindi decise di non procedere a un accreditamento del capo missione italiano presso il governo di Ciunking, convinto dell’imminente vittoria giapponese. Taliani risiedette quindi a Shanghai e non nella capitale della Repubblica della Cina, dove agiva un diplomatico di rango inferiore, il consigliere Adolfo Alessandrini, una situazione da lui stessa definita grottesca e che rendeva bene l’idea della difficoltà nella quale fu costretto a operare.
A partire dal 1939, la strategia fu quella di favorire l’instaurazione di un altro governo fantoccio a Nanchino, da affidarsi a Wang Ching-Wei, antico collaboratore del ‘Generalissimo’ e ora suo acerrimo rivale, accusato di collaborazionismo da Ciang Kai-Scek. Taliani fu pronto a informare Ciano delle divergenze che esistevano negli ambienti giapponesi circa la nascita del nuovo governo, con i diplomatici che avrebbero ben volentieri favorito l’operazione anche per alleggerire gli sforzi del Giappone, mentre i militari ritenevano l’occupazione l’unico modo per garantire influenza politica e guardavano con sospetto Wang Ching-Wei (cfr. Documenti diplomatici italiani, Serie nona (1939-1945), vol. II, p. 268, Taliani a Ciano, 25 novembre 1939). Il 10 dicembre 1940 comunicò a Ciano che il Giappone aveva riconosciuto il governo di Nanchino, al quale seguì, nel 1941, il riconoscimento del governo tedesco e di quello italiano, anche se a Taliani non sfuggiva l’assoluta mancanza di autonomia di Wang Ching-Wei cosicché avvertì che se l’atteggiamento giapponese non fosse mutato, le basi politiche del governo di Nanchino avrebbero potuto sgretolarsi «a tutto vantaggio dei nazionalisti intransigenti e dei comunisti» (ibid., vol. IX, p. 20, Taliani a Ciano, 3 agosto 1942). Nel tentativo di sollevare il governo di Nanchino dal giogo giapponese Taliani trovò un collaboratore in Mamoru Shigemitsu, ambasciatore di Tokyo presso quel governo, e poi ministro degli Esteri a partire dal 1942, fautore di una linea morbida, con il quale Taliani fu in ottimi rapporti, convinti ambedue della errata posizione dei governi giapponese e italiano.
Con la dichiarazione di guerra del governo di Nanchino contro gli Stati Uniti e la Gran Bretagna del 9 gennaio 1943 si apriva la vertenza relativa ai privilegi acquisiti in Cina dall’Italia, dato che il governo fascista aveva aderito alla retrocessione delle concessioni e alla rinuncia dei diritti di extraterritorialità. Interessato per ciò che riguardava la concessione di Tianjin, quella internazionale di Shanghai e il quartiere delle legazioni di Pechino, il governo italiano, per il tramite di Giuseppe Bastianini, istruì Taliani a procedere per accordi bilaterali, attraverso «il lungo e tortuoso cammino delle commissioni con quella cautela e prudenza che le circostanze richiedono» (ibid., vol. X, pp. 165, 217, Bastianini a Taliani, 18 marzo e 1° aprile 1943), in sostanza chiedendogli di prendere tempo di fronte alle congiunte pressioni di Tokyo e Nanchino, che avrebbero portato comunque a una liquidazione delle nostre posizioni.
Dopo l’armistizio (8 settembre 1943), Taliani rimase fedele al governo del re e dopo essere stato minacciato da elementi legati al nuovo governo fascista, che reclamavano tutto quanto era in sua custodia pena la rivalsa sui suoi beni personali, fu dimissionato d’ufficio dal governo della Repubblica di Salò il 28 gennaio 1944 (Archivio storico diplomatico, Personale, Serie I, pos. B 18, b. 68, f. 100, 1° dicembre 1945). Pochi giorni dopo, Renato Prunas ricevette da Madrid un telegramma che girò prontamente alla famiglia tramite il Vaticano, in cui Taliani scriveva: «ci troviamo a Shanghai in buona salute e con calma attendiamo gli eventi certi del risorgimento nazionale» (Taliani all’ambasciata a Madrid, 22 febbraio 1944). In realtà il 9 settembre 1943, accusato di comportamento ostile, era stato arrestato dalla polizia giapponese e detenuto nel proprio domicilio fino al 1° febbraio 1944, quando fu internato nel campo di Rubicon Road a Shanghai, assieme alla moglie e a quelli che lui chiamava «i suoi fedelissimi»: il segretario Pasquale Prunas, il cancelliere Laurenti, l’interprete Bettini. In una pagina di diario pubblicata postuma scrisse: «mal nutriti, mal vestiti – non sappiamo più cosa sia una camicia stirata – ci sentiamo più indipendenti e orgogliosi. Meglio preparati a resistere a ogni pressione, a ogni sopruso» (È morto in Cina, Milano 1949, p. 238). Uscì dal campo il 16 agosto 1945 in uno stato di profonda debilitazione fisica e malato. Una volta libero, si mise subito a disposizione del ministero, che lo riconobbe come rappresentante di fatto del governo italiano, adoperandosi per la comunità italiana a Shanghai, che trovò in una situazione da lui definita «tragica», con parte dei militari che si era asservita ai giapponesi e alle autorità fasciste in cambio della libertà e dominata da alcuni «criminali», nei confronti dei quali i poteri conferitigli erano soltanto «teoricamente adeguati» (lettera di Taliani al capitano di corvetta Petroni, 5 ottobre 1945). Ai primi di giugno del 1946, quando si sparse la notizia che le autorità militari americane erano in possesso di capi di accusa contro di lui, con il governo nazionalista cinese che lo aveva dichiarato criminale di guerra, fu invitato da Alcide De Gasperi a lasciare immediatamente Shanghai, da dove partì a bordo della Eritrea, una vecchia e malandata cannoniera piena di profughi che «conteneva a stento» (Dopoguerra a Shanghai, Milano 1958, p. 192).
Rientrato finalmente a Roma, nel dicembre del 1946 assunse funzioni di capo del cerimoniale, lavorando a stretto contatto con De Gasperi, che lo aveva accolto con parole di grande cordialità, e con Sforza, nella fase della ripresa delle relazioni internazionali dell’Italia. Con decreto del 10 febbraio 1951 fu destinato in Spagna nel quadro della normalizzazione dei rapporti diplomatici tra Roma e Madrid dopo la rottura determinata dal ministro degli Esteri Pietro Nenni quando, nel dicembre del 1946, l’assemblea dell’ONU raccomandò ai Paesi membri di ritirare i propri capi missione dalla Spagna e la risoluzione fu accolta anche dall’Italia, che però allora dell’ONU non faceva ancora parte, determinandosi così il richiamo dell’ambasciatore Tommaso Fulco Gallarati Scotti.
Madrid fu la sua ultima sede, dalla quale rientrò nel 1954, quando venne collocato a riposo due anni dopo aver raggiunto il limite dei 65 anni di età e dei quaranta di servizio. In quell’occasione fu salutato con molto calore dalle più alte cariche dello Stato spagnolo, dal mondo accademico e della cultura, che riconobbero lo sforzo di riconciliazione profuso dal diplomatico italiano e onorando anche il fine scrittore – scoperto in patria da Ugo Ojetti e apprezzato da Eugenio Montale e da Giuseppe Ungaretti – che era riuscito a mettere efficacemente in prosa la sua avventurosa carriera. Morì a Roma il 16 marzo 1968.
Opere. Pietrogrado 1917, Milano 1935; Vita del Cardinal Gasparri, Milano 1938; L’Asia e la Cina, in Rivista di studi politici internazionali, XVI (1949), pp. 323-344; È morto in Cina, Milano 1949; Dopoguerra a Shanghai, Milano 1958; Veli stracciati, Milano 1966 (con prefazione di G. Ungaretti).
Fonti e Bibl.: Roma, Ministero degli Affari esteri, Archivio storico diplomatico, Personale, Serie prima, pos. B 18, b. 68, f. 100; Rappresentanza d’Italia in Russia, bb. 26-33, 34-37; Ambasciata d’Italia a Londra, bb. 509-518, 530-538, 550-555; Rappresentanze diplomatiche e consolari d’Italia a Pechino, bb. 101-102, 171, 194; Documenti diplomatici italiani, Serie quinta (1914-1918), voll. V, VII; Serie settima (1922-1935), voll. IV, V, XIV; Serie ottava (1935-1939), voll. I-IV, VII, VIII, XI-XIII; Serie nona (1939-1945), voll. II-X; Serie undicesima (1948-1953), vol. I; Annuario diplomatico del Regno d’Italia, 1937, Roma 1937, ad nomen.
La formazione della diplomazia nazionale (1861-1915). Repertorio bio-bibliografico dei funzionari del Ministero degli Affari Esteri, Roma 1987, ad nomen; P. Tallarigo, Missione in Cina, in Professione diplomatico, a cura di E. Serra, Milano 1990, pp. 177-185; L. Micheletta, Italia e Gran Bretagna nel primo dopoguerra, Roma 1999, pp. 351-356 e passim; G. Samarani, Gli anni della Seconda Guerra Mondiale, in G. Samarani - L. De Giorgi, Lontane, vicine. Le relazioni fra Cina e Italia nel Novecento, Roma 2011, pp. 75-94; Id., L’Italia e gli italiani in Cina dopo l’8 settembre 1943, in Storia e diplomazia, 2014, vol. 1, n. 2, pp. 15-30.