CANONICO, Tancredi
Nacque a Torino il 14 maggio 1828 da Francesco medico di corte, e Felicita Pomba. Laureatosi in legge a 19 anni, nel 1848 aveva seguito con animo commosso, come ricordò in un tardo scritto d'occasione, la rivoluzione europea e le lotte per la libertà, vedendo nel moto italiano "un soffio dall'alto", l'inizio cioè d'un processo di rigenerazione religiosa e nazionale voluto dalla Provvidenza. Dopo il fallimento della rivoluzione attraversò una crisi profonda. Respingeva la fede tramandata, i valori tradizionali che la società professava: "i nostri padri - scrisse ricostruendo la sua giovanile vicenda - hanno mantenuto la sommessione alla fede cattolica, ma tutti i loro sforzi eran diretti a guadagnare denaro, far fruttare le campagne, procacciarsi un nome e una posizione sociale". Ottenuta il 5 maggio 1851 l'aggregazione alla facoltà di leggi dell'università di Torino, decise d'intraprendere un viaggio, con la speranza di trovare, nell'incontro con la nuova realtà europea e nel colloquio con gli uomini che la rappresentavano, la soluzione dei problemi religiosi e politici che lo occupavano. Cominciò da Stresa, ove era stato invitato da A. Rosmini. Presso di lui conobbe R. Bonghi, G. Collegno, Gustavo Cavour, e ad essi confessò la sua incertezza in materia di fede, e l'ansia di "fare qualcosa in servizio del paese". Nonostante la propensione per la filosofia politica dei moderati, sentiva fortemente la suggestione dei programmi d'azione dei democratici. Da Stresa passò a Parigi, e qui visitò Lamennais e Gioberti. Ma nel settembre 1851, a Zurigo, ebbe l'incontro che doveva influire decisamente sulla sua evoluzione intellettuale. Entrò nell'ambito di Andrea Towiański, un esule polacco che raccoglieva intorno a sé, con una predicazione mistica e patriottico-umanitaria, nuclei di discepoli disseminati, oltreché in Svizzera, in Polonia, in Francia ed in Belgio.
"È a Towiański - scriverà il C. nell'ultimo anno della sua vita in una lettera al vescovo G. Bonomelli - che devo se ho recuperato la fede in Dio, nella divinità di Cristo, nella continua opera redentrice che Egli viene compiendo sia per mezzo della Chiesa, sia per intervento diretto del Suo spirito sullo spirito dell'uomo". In queste parole sono fermati insieme tanto il momento della ritrovata fede cristiana, quanto la testimonianza di quella che rimarrà, sino alla fine, insieme alle ripetute professioni di ortodossia, la sua "impercettibile eresia". Questa si configura nella contrapposizione dello spirito del Cristo con la realtà della Chiesa storica, e nel convincimento che accanto ai canali istituzionali della Grazia - sacramenti e magistero ecclesiastico - intervenga, con quella continua funzione redentrice che prenderà il nome emblematico di "opera di Dio", il "tocco diretto di Nostro Signore Gesù Cristo sullo spirito dell'uomo". Il C. mutuava questi concetti dal Towiański, la cui dottrina, entro una concezione generale metafisica di derivazione swedenborghiana, consisteva in un annuncio della rigenerazione cristiana imminente, in un invito a che l'uomo recuperasse "quella libertà che lo spirito ha perduto assumendo il corpo". Se la nascita segnava il momento della caduta, della "separazione dal cielo", la religione offriva la via della salvezza, cioè della conquista di una effettiva autonomia morale da raggiungersi, nella imitazione di Cristo, con la pratica del sacrificio.
Tornato a Torino, il C. iniziò la diffusione di queste dottrine e formò i primi cenacoli, che presero il nome di "Opera di Dio" e che, in quanto univano al fermento di una inquieta religiosità la ribadita dichiarazione di ossequio dogmatico, sono considerati come i momenti specificamente piemontesi di quel filone della riforma endocattolica che percorre la storia religiosa dell'Ottocento italiano dal romanticismo al modernismo. Dal 1861 professore incaricato di diritto penale nell'università di Torino, il C. ispirò anche il suo insegnamento ai suoi principî religiosi.
Nelle prime raccolte a stampa delle sue lezioni, accanto al tentativo di rendere il procedimento giudiziario sempre più idoneo a cogliere la dimensione esistenziale e morale del reato, si nota una persistente polemica contro le strutture carcerarie che non mettono in atto quella rieducazione del reo che sola può giustificare la privazione della libertà. "Egli ci conduceva nelle carceri - ricorda A. Begey che fu suo allievo - a visitare i delinquenti e a farci vedere e sentire da vicino le conseguenze dolorose della trasgressione del diritto. Canonico ci insegnava che il diritto della società alla riparazione significa non già che esso competa alla società umana quale retribuzione assoluta e adeguata all'intrinseca gravità delle azioni, ma piuttosto indica che la giustizia violata reclama all'umana coscienza ed esige soddisfazione e che dietro questo principio di giustizia deve modellarsi la repressione... che lo scopo dell'azione punitrice non può essere la crudele vendetta, bensì la profonda emendazione del reo". Svolgendo questi principî il C. pubblicò a Torino nel 1872le sue polemiche Considerazioni sui riformatori dei minorenni, parlò nel 1877al Congresso internazionale penitenziario di Stoccolma (Sulla durata dell'isolamento nelle carceri, Roma 1877), a quello di Pietroburgo nel 1891 (La réforme penitentiaire,conférence tenue à St. Pétersbourg, Roma 1891), a Melun nel 1895 (Législation pénale. Rapport par M.T.C., Melun 1895), a Budapest nel 1905 (Rapport par M.T.C., Firenze 1905).Sui problemi carcerari e sul diritto penitenziario lasciò numerose pubblicazioni.
Altrettanto evidente, sul pensiero e l'opera politica del C., l'influenza del Towiański. A somiglianza del polacco egli concepiva la libertà interiore come presupposto di quella civile e ravvisava nella fede cristiana l'essenza della nazionalità. Era necessario che l'Italia si rigenerasse in Cristo per adempiere alla missione di progresso che Dio le aveva riservato. In questa prospettiva la Chiesa avrebbe dovuto assolvere una funzione primaria di guida, ma poiché "la Chiesa delle forme cristiane" aveva preso il posto della "Chiesa di Cristo" ed uno "spirito inferiore, lo spirito stesso del male sotto nome di Gesù Cristo" governava la sede di Roma impedendo lo svolgimento della missione nazionale, gli Italiani dovevano rivolgersi a Cristo medesimo, riunirsi nel suo nome in gruppi spontanei per realizzare l'opera divina nel mondo. Queste dottrine attirarono sin dal 1853 i fulmini delle curie vescovili di Torino e di Cuneo sui numerosi cenacoli dell'"Opera di Dio"; nel 1859 un frate francescano, Luigi da Carmagnola, seguace del C. e del Towiański, perseguitato dai superiori, fu convocato a Roma dal S. Uffizio, e morì in quella città di malattia. Il C. lo considerò martire.
Nel dicembre 1860, accompagnato da tre amici, giunse a Caprera per visitare Garibaldi reduce dalla spedizione dei Mille. Lo considerava "una pura scintilla cristiana", il campione della libertà nel mondo, e gli propose di integrare i suoi programmi politici per la liberazione di Roma con un impegno religioso e morale per la purificazione della Chiesa e la rigenerazione dello spirito cristiano. L'anno seguente, nel febbraio, rivolse lo stesso appello al Cavour, e, dalle memorie del Begey, sembra che lo statista abbia accolto l'appello (era il momento difficile delle trattative con Roma) con un'attenzione senz'altro maggiore di quella che gli riserbò Garibaldi. Dopo vari altri inutili approcci con la classe dirigente, col Ricasoli e col Rattazzi, nel gennaio 1869 si recò a Roma, latore di una singolare lettera del Towiański al papa. In attesa dell'udienza visitò la città: nelle sue lettere (cfr. Astori) rimangono spunti critici e amare riflessioni sulla sontuosità pagana del culto cattolico che "soffocava lo spirito sotto la forma". La lettera del Towiański, che rimproverava al papa la decadenza della Chiesa ed a questa contrapponeva l'"Opera di Dio", era rimasta senza risposta, ma alla morte di Pio IX il C. lanciò in un opuscolo (Il nuovo papa, Roma 1878) un appello alla conciliazione tra tutti i gruppi cattolici. Esprimeva la speranza che i programmi liberali e nazionali, i propositi di riforma potessero essere portati avanti da "un nuovo papa capace di volgere gli uomini a Dio, non a sé, di sacrificarsi per salvare le anime, non per dominarle". Gli inizi però del pontificato di Leone XIII lo delusero, e manifestò nel 1879 la sua posizione nei confronti della Chiesa con un opuscolo edito a Roma, La questione religiosa in Italia.
Qui gli spunti intellettualistici e pragmatici del suo cristianesimo (espressi con particolare vivacità nel 1874 in una larga recensione stampata a Roma, L'attività del vero,a proposito di un libro del Sig. Littré)sono accentuati e viene ribadita l'affermazione che solo un'intensa e autentica vita religiosa può far progredire la nazione e l'umanità. Questi ideali sono però contraddetti dalla Chiesa contemporanea che, irrigiditasi secondo il C. nello intellettualismo scolastico, non riesce a dissolvere il paganesimo rimasto nel fondo della società cristiana e che, ostinandosi nel temporalismo e nell'autoritarismo, non sa interpretare le esigenze scaturite dal moto nazionale: "la Chiesa ufficiale non vede i mali della società presente, non comprende i bisogni che l'agitano, non riconosce la parte di responsabilità che le spetta nelle calamità che deplora".
Nell'opuscolo traccia una linea di sviluppo storico profondamente diversa da quella già fermata dai riformatori neoguelfi. A differenza dei cattolici liberali che indicano nell'età di Lutero e Cartesio l'origine del male del mondo contemporaneo, il C. critica il Medioevo cattolico e giustifica "nel suo movente originario" la riforma protestante, riconosce la validità della filosofia del secolo XVII e della Rivoluzione francese, si dissocia soltanto dalla cultura razionalistica e laica che "non contenta di scuotere il giogo del dispotismo volle rovesciare il trono stesso di Dio". Mette soprattutto in evidenza il divario che si è determinato tra società e Chiesa. Questa, non avendo saputo far propri i motivi della rivoluzione politica, della libertà di coscienza, dei moti nazionali, ha perso una grande occasione storica: non ponendosi alla testa del progresso moderno per "preservarlo dalle molte deviazioni" ha attraversato l'opera della Provvidenza, cosicché il "disegno di Dio" dovrà compiersi "senza la Chiesa e malgrado la Chiesa".
Balena ancora, nell'opuscolo, la speranza di una possibile conciliazione. Ma questa potrebbe avvenire soltanto sulla base di un "reciproco riconoscimento degli errori e da parte della Chiesa al prezzo di un radicale rinnovamento. La conciliazione proposta dalla classe dirigente italiana è invece puramente formale porterà "nuove e più grandi sventure". La formula "libera Chiesa in libero Stato" è vera in se stessa, ma nel modo in cui fu applicata "riposa sopra un equivoco e divenne cagione di molti mali". Significa soltanto, nella prassi instaurata nell'età postcavouriana, libertà della Chiesa eslege, "facoltà del papa di far ciò che vuole, purché non si opponga all'azione del governo": la libertà della Chiesa è quindi soltanto il presupposto del potere incontrollato del papa. Libertà della Chiesa dovrebbe invece significare, secondo il C., libertà dei credenti, cioè diritto dei fedeli, che costituiscono il corpo della Chiesa, di tener salda la libertà di coscienza e la partecipazione al governo della società religiosa secondo la tradizione apostolica; il compito dello Stato dovrebbe consistere nel garantire a tutti i fedeli, con le sue leggi, la libertà di coscienza e di organizzazione religiosa. Nel momento della piena maturità del pensiero del C. il disegno della riforma cattolica si delinea così con un rigore polemico che contrasta con l'indirizzo conciliativo e moderato che caratterizza in quegli anni la classe politica italiana: "sciogliere la questione religiosa non è erigere l'indifferenza a sistema di governo o cercare accomodamenti tra il governo ed il papa... si tratta di recuperare la Chiesa quale deve essere e quale essa è realmente nel pensiero di Dio".
Dal 1876 era stato chiamato dal guardasigilli P. O. Vigliani a far parte della magistratura; abbandonato l'insegnamento ricoprì dapprima la carica di consigliere della Cassazione romana, poi a Firenze, ove stabilì la sua definitiva dimora, quella di presidente della Cassazione. Il 12 giugno 1881 fu nominato senatore, quindi presidente dell'Ordine mauriziano, membro della Consulta araldica, del contenzioso diplomatico, socio dell'Accademia reale delle scienze. Dal 1904 fu presidente del Senato. I suoi discorsi furono radi; si ricordano gli interventi a proposito della questione dei beni ecclesiastici (Raccomandazioni al Ministro Guardasigilli per una legge sui beni ecclesiastici, Roma 1884) e delle congrue parrocchiali (Il progetto di legge sulle congrue parrocchiali, in Rassegna nazionale, 16 luglio 1904, pp. 185-188).
Si dedicò alla ricostruzione e commemorazione dell'opera e del pensiero del Towiański pubblicando due importanti volumi: A. Towiański (Roma 1895), e Testimonianze di italiani su A. Towiański (Roma 1903).
Nei due libri la sostanza polemica del pensiero religioso è intatta, ma il C. volle che le opere, poste fuori commercio, avessero una circolazione limitata e alle sole persone che ne facessero esplicita richiesta". Le introduzioni ai volumi danno il senso del trasferimento, ormai avvenuto, dell'attività del C. dal piano dell'organizzazione e dell'apostolato a quello tutto interiore e individuale della preghiera e della meditazione. "I libri sono destinati - scrisse - soltanto a coloro che, sentendo quanto è profondo il male invadente ormai il midollo della vita individuale e sociale, non trovano sulla terra un conforto ed un appoggio sufficiente per attuare la loro aspirazione".
Il colloquio epistolare che il C. tenne tra il 1903 ed il 1908 col vescovo di Cremona G. Bonomelli consente di penetrare nelle ultime vicende del suo pensiero. Si accentuano nelle lettere i toni pessimistici e amari nel giudizio della realtà italiana, mentre non v'è più traccia della speranza della rigenerazione imminente ch'era stata una nota costante della predicazione del Towiański.
La Chiesa, per il C., venendo meno alla sua funzione, ha abbandonato la società italiana al paganesimo e all'indifferenza: l'anticlericalismo ed il socialismo hanno allargato la frattura che isola nel paese l'opinione cattolica. In questa situazione il C. affida al clero quella missione di salvezza che per tutta la vita aveva confidato potessero assolvere i gruppi dell'"Opera di Dio". Incanalando negli istituti tradizionali la sua tenace aspirazione alla riforma trova accenti rosminiani: invoca una "riforma vasta, pronta, radicale, della disciplina e del culto, la riduzione del numero delle diocesi, la perequazione della rendita dei parroci, l'avvicinamento del clero agli studi profani e scientifici, perché spetta ad esso "non già condannare la rivoluzione moderna, bensì prepararsi ad epurarla e battezzarla". Il clero deve soprattutto guardarsi - scrive al Bonomelli - "dalla peste della politica, dagli intrighi elettorali... deve volgere tutte le sue cure a far cristiane le masse, e queste col tempo faranno cristiani gli elettori, e gli elettori faranno legislatori cristiani. Sembra che sin qui abbiate corsa la via contraria: volevate una legislazione cristiana cogli elettori non cristiani: vi isolaste coi vostri sistemi e vi trovaste isolati. Enorme errore di cui scontate la pena.".
L'elezione al soglio pontificio di Pio X (4 agosto 1903) aveva inaugurato un periodo di prevalenza clerico-moderata; ma il C. seguì con speranza l'opera del nuovo papa, credendo di scorgervi una inversione di tendenza nella storia del Pontificato. Appoggiò le correnti che chiedevano l'abolizione del non expedit; pensava che fosse necessario abbattere lo steccato che racchiudeva le masse cattoliche: non per creare un partito clericale ma per innalzare il tono della vita politica e rafforzare con energie "oneste e gagliarde" il Parlamento. Tranne qualche impennata libertaria era ormai allineato - tutto l'epistolario col Bonomelli lo conferma - con i gruppi cattolici transigenti. Nel 1905 plaudì all'enciclica Firmo proposito che suggellava il primo programma di Azione cattolica in Italia. L'Osservatore romano elogiava la sua opera di pubblicista: "è troppo benevolo - commentava il C. - ma nel punto essenziale non vede o non vuole vedere". Non v'è traccia, nelle lettere pubblicate, di reazione alla condanna dei modernisti: solo un generico compianto per la sorte del Fogazzaro. Negli ultimi anni fu contristato da gravi sciagure familiari e da malattie. Nel marzo 1907 si dimise dalla presidenza del Senato.
Morì quasi povero a Sarteano in provincia di Siena il 15 sett. 1908.
Oltre gli scritti citati si ricordano: Il dottore in legge T.C. di Torino per essere aggregato al Collegio della facoltà di leggi dell'università di Torino; il 5 maggio 1851 all'una pomeridiana, Torino 1851; L'incontro con un Haitiano, estr. dalla Rivista contemp., (Torino), dicembre 1859; Lezione preliminare al corso di diritto penale per l'anno scolastico 1861-62, Torino 1861; Programma per gli esami di diritto penale della R. Università di Torino, ibid. 1863; Sulla vita intima e su alcuni scritti inediti della marchesa G. Falletti di Barolo Colbert, ibid. 1864; La Polonia nel suo popolo e nei suoi poeti, ibid. 1865; I tempi attuali e la missione di Andrea Towiański, ibid. 1866; Sulla pena da surrogarsi alla pena di morte, Roma 1872; Della Imitazione di Cristo,traduzione, Torino 1873; Due parole di introduzione al corso di diritto e di procedura penale, ibid. 1874; Osservazioni e proposte della facoltà di giurisprudenza nella R. Università di Torino intorno al nuovo progetto di codice penale del Regno d'Italia, ibid. 1874; Sul votolimitato, Roma 1882; Sul giuramento politico, ibid. 1873; Una corsa attraverso alcune carceri d'Europa, ibid. 1885; In memoria del senatore Tecchio, ibid. 1886; Sugli asili infantili, ibid. 1887; Progetto di codice penale, ibid. 1888; Sull'ammonizione e sul domicilio coatto, ibid. 1888; Il Congresso internazionale di Pietroburgo, ibid. 1891; Nuovi studi sulla responsabilità penale, ibid. 1893; Giacomo Durando (Parole commemorative), ibid. 1894; I reati fra militari in tempo di pace, ibid. 1894; La sentenza della Corte suprema sul processo Giolitti nelle sue conseguenze giuridiche, ibid. 1895; Decisione della Commissione delle prede sull'affare del Doelwick, ibid. 1896; Potere giudiziario e magistratura, ibid. 1897; Il 1848 (Dopo 50anni), ibid. 1898; Urgenza di riformare la legge sui giurati, ibid. 1899; Le duel sélon la législation italienne, Paris 1901; La stampa quotidiana, in Rassegna nazionale, 1º ott. 1903 pp. 345-48; Silvio Pellico,Commemorazione, Roma 1904; Azione sociale della donna, in Rassegna nazionale, 1º febbr. 1904 pp. 385-402; Il cinquantenario della spedizione di Crimea,ibid., 16 sett. 1905, pp. 169-174; Commemorazione di S. E. il tenente generale G. Gerbaix de Sonnaz, Roma 1905; Pio V e i suoi tempi, in Rassegna nazionale, 1º nov. 1905, p. 43; Ricordi e versi giovanili del 1848,ibid. 16 marzo 1907, pp. 173-189; infine Note intime (abbozzo postumo), Città di Castello 1909.
Fonti e Bibl.: Comune di Sarteano (Siena), Arch. anagrafico. Cenni biografici sono in G. Astori, Corrispondenza inedita fra mons. G. Bonomellied il sen. T. C. (1903-1908), Brescia 1937; cfr. anche G. Bonomelli, Profili di tre personaggi... Milano 1911. Uno studio sul Pensiero giuridico del C. è nella tesi di laurea presentata nel 1934 da F. Nigra de Ressi all'università di Torino, stampata in 100 esemplari. I rapporti tra il C. ed il Towiański sono ricordati da A. Begey, Delle relazioni tra S.E. T.C. ed A. Towiański, Torino 1912. Sul pensiero religioso si può vedere G. Faldella, T.C. e lo spirito religioso, in Rassegna nazionale, 16 apr. 1913, pp. 503-528; La Civiltà cattolica, 16 maggio 1914, pp. 411-27; 20 giugno 1914, pp. 669-93; più recentemente gli sparsi accenni di P. Scoppola, Crisi modernista e rinnovamentocattolico in Italia, Bologna 1961, pp. 32, 46 ss.