GALIMBERTI, Tancredi (Duccio)
Nacque a Cuneo il 30 apr. 1906 da Lorenzo Tancredi, avvocato, politico, parlamentare e ministro, e da Alice Schanzer, studiosa di letteratura inglese, poligrafa e sorella di Carlo, anch'egli deputato e ministro. L'ambiente familiare ebbe grande influenza nella formazione culturale del G., che ereditò dal padre la predilezione per gli studi giuridici e dalla madre la passione per la letteratura e le simpatie mazziniane.
Dopo aver conseguito, a soli sedici anni, la maturità presso il liceo S. Pellico, iniziò a collaborare al giornale paterno La Sentinella delle Alpi e nel 1924 scrisse il saggio Mazzini politico (pubblicato postumo a Milano nel 1963, con introduzione di O. Zuccarini e una nota biografica di V. Parmentola). In esso il G. analizzava i valori fondamentali della dottrina politica mazziniana, non mancando di cogliere elementi di incertezza e di utopia nella concezione che il Mazzini aveva dello Stato. Il 17 luglio 1926 si laureò in giurisprudenza a Torino discutendo con E. Florian una tesi su La pericolosità come base della sanzione penale. Nello stesso anno prestò servizio militare come soldato semplice e fu poi richiamato nel 1935 e nel 1939 con il grado di caporalmaggiore presso il battaglione "Dronero" del 2° alpini. Nel 1934 effettuò un viaggio in Russia e al ritorno tenne diverse conferenze sulla situazione di quel paese.
Il G. fece pratica presso lo studio paterno, dedicandosi particolarmente alle cause penali, ma non trascurò l'attività scientifica, sviluppando i suoi studi sul tema della pericolosità. Scrisse diversi saggi, tra cui Funzione e disciplina della pericolosità (in Studi teorico-pratici sulla nuova legislazione italiana, Bologna 1932) e fu incaricato di redigere la voce Pericolosità sociale e criminale dell'Enciclopedia giuridica italiana (XIII, 1937), mentre la raccolta dei suoi scritti di diritto e di procedura penale diede corpo ai Quesiti d'udienza (I-II, Milano 1943). Nel 1939, alla morte del padre, il G. decise di impegnarsi senza remore nella lotta al fascismo.
Fino ad allora, pur avendo rifiutato l'iscrizione al partito fascista, egli si era infatti astenuto da ogni iniziativa che sarebbe apparsa come una clamorosa contestazione nei confronti del padre, sostenitore del regime. Verso la fine del 1940 il G. compì alcuni viaggi a Roma, dove incontrò Meuccio Ruini e altri esponenti della politica prefascista, a Genova e a Torino. Al G. premeva soprattutto stabilire uno stretto rapporto con gli ambienti antifascisti torinesi e ritrovarsi con quelle persone che, a prescindere dal credo politico, fossero decise a combattere il regime. Non aveva compiuto ancora una precisa scelta politica, ma anche dopo aver aderito nel 1942 al movimento Giustizia e libertà, restò convinto che la pregiudiziale antifascista dovesse prevalere sulle divisioni ideologiche.
Una volta inseritosi nell'organizzazione giellista, il G. ritenne di possedere finalmente l'investitura per iniziare l'opera di proselitismo tra gli antifascisti di Cuneo. Prima convocò presso la propria abitazione una serie di riunioni serali, alle quali invitava gli amici più fidati, poi ampliò il raggio d'azione dell'attività cospirativa, rivolgendosi a professionisti, impiegati, insegnanti, studenti e anche militari. Agli inizi del 1943 si era così raccolto intorno al G. il primo nucleo cuneese del Partito d'azione. Egli si riconosceva appieno nella pregiudiziale repubblicana e nel progetto di una democrazia avanzata sul piano civile ed economico, affermati dal Partito d'azione, sebbene la sua collocazione in questo partito non fosse riconducibile ad alcuna delle correnti politico-ideali che vi erano confluite. L'originalità dell'azionismo del G. risultò evidente nel Progetto di costituzione confederale europea ed interna da lui elaborato insieme con Antonino Repaci tra l'autunno del 1942 e il luglio 1943 (ma pubbl. Torino-Cuneo 1946).
Questo progetto, caratterizzato da una forte carica europeistica, si rivelava in molti passaggi qualificanti "assai remoto dalle posizioni del Partito d'azione, sia dei "sette" e sia dei "sedici punti", ovvero da entrambe le sue "anime": quella liberistica o al più dirigistica di La Malfa, Parri, Paggi e la socialista di Lussu, De Martino, Codignola" (Mola, p. 283). Si trattava, inoltre, di un progetto gravido di ingenuità e utopia (contemplava, tra l'altro, la creazione di una lingua internazionale da insegnare nelle scuole e il divieto di costituire eserciti nazionali) e ispirato a una rigida concezione corporativa e sociale dello Stato.
Nel marzo 1943 il G. diffuse, dattiloscritto, un Appello agli Italiani, redatto in collaborazione con Lino Marchisio, nel quale si stigmatizzavano le tendenze particolaristiche dei partiti e si insisteva sulla necessità di unire tutte le forze dell'antifascismo. Il 26 luglio, parlando alla folla radunata sotto la finestra del suo studio in piazza Vittorio Emanuele al termine di una manifestazione di esultanza per la caduta di Mussolini, il G. affermò che bisognava subito rompere l'alleanza con la Germania e prepararsi all'insurrezione armata contro i Tedeschi.
Poche ore dopo ribadì le stesse cose nel corso di un comizio in piazza Castello a Torino e per queste due sortite l'autorità militare spiccò nei suoi confronti un mandato di cattura, che venne revocato tre settimane più tardi. In agosto il G. prese contatto con il comandante del reggimento alpino di stanza a Cuneo e all'indomani dell'8 settembre intensificò gli sforzi per coinvolgere reparti dell'esercito nell'organizzazione di resistenza. Più che a dar vita a un movimento partigiano il G. pensava infatti a tenere in piedi l'esercito, che avrebbe dovuto arruolare volontari civili disposti a prendere le armi contro i Tedeschi. Dopo aver invano richiesto per due volte, il 9 e il 10 settembre, al generale comandante della zona di Cuneo di procedere all'arruolamento volontario del gruppo azionista nei reparti alpini, il G. e i suoi amici "decisero di attuare il progetto sino allora perseguito solo in via eventuale, della creazione delle bande e della resistenza armata "irregolare". Scelta questa soluzione, essi tornarono alla carica presso i comandi militari e gli ufficiali di grado elevato per sollecitarne la collaborazione nella raccolta delle armi e l'assunzione del comando del gruppo che si apprestava a raggiungere la montagna" (Giovana, 1964, p. 26). Risultati vani anche questi tentativi, gli antifascisti cuneesi decisero di abbandonare le città per dirigersi sulle montagne circostanti.
La notte del 12 settembre il G., Dante Livio Bianco e altri dieci suoi compagni raggiunsero la cappella di Madonna del Colletto, tra la Valle del Gesso e quella della Stura, dove costituirono la prima banda partigiana, denominata "Italia libera" (il medesimo nome venne assunto dall'altra formazione che si costituì contemporaneamente a Frise in Valle Grana).
Venne subito affrontato il problema dell'efficienza bellica, che riguardava sia l'utilizzazione migliore di armi e munizioni, in gran parte sottratte alle caserme, sia la necessità di una disciplina militare. I partigiani di "Italia libera" furono concordi nel rifiutare quelle forme coercitive e gerarchiche invalse negli eserciti e preferirono rifarsi alle esperienze del volontariato risorgimentale mazziniano e garibaldino, "delineando così nei suoi contorni quel costume partigiano dei giellisti cuneesi […] peculiare delle formazioni sorte in quel tratto di arco alpino per volontà della pattuglia di "azionisti" capeggiata da Galimberti" (Giovana, 1964, p. 31).
Dopo essersi trasferito con il suo gruppo a San Matteo di Valle Grana il G. si impegnò nell'opera di collegamento e di unificazione tra le varie bande che portò alla nascita delle brigate di Giustizia e libertà nel Cuneese.
"La guerra partigiana, per Galimberti e i suoi compagni, aveva il duplice compito di scompaginare con azioni aggressive i depositi nemici in pianura, demoralizzarne le truppe, creare un permanente stato d'allarme fra di esse, e impegnare quante più forze dell'avversario fosse possibile nella zona, distraendole dai fronti di guerra. Perciò doveva far perno su organismi agili, capaci di proiettare in pianura punte d'attacco ardite e fulminanti, ma anche di articolare nelle valli forze che apparissero come minaccia costante alla sicurezza dei centri della provincia occupati dai nazifascisti e fossero in grado, se attaccate, di sviluppare un discreto volume di fuoco per un tempo relativamente lungo, così da infliggere al nemico il massimo di perdite e di logorio" (ibid., p. 37).
Il 13 genn. 1944, nel corso di un attacco dei Tedeschi alla posizione di San Matteo, il G. rimase ferito alla caviglia, ma non volle abbandonare i compagni prima della fine degli scontri. Fu poi trasportato su una rozza barella in pianura e accompagnato per vie sicure in casa di un agricoltore a Canale d'Alba. Qui trascorse un periodo di convalescenza, durante il quale elaborò il Progetto di riforma agraria (apparso in Il Ponte, XV [1959], 12, pp. 1549-1556, e ristampato in Mazzini politico, pp. 67-81).
In questo suo scritto il G. sosteneva l'opportunità di limitare la proprietà privata a beneficio di forme di proprietà pubblica nell'ambito di una programmazione agricola gestita da organismi comunali.
Appena guarito il G., di cui erano ormai conosciute le doti di coraggio e l'autorevolezza, fu chiamato ad assumere il comando di tutte le formazioni gielliste del Piemonte e a far parte del Comitato militare regionale. Il 5 aprile - dopo la cattura e la fucilazione del generale G. Perotti e di quasi tutti gli altri membri del Comitato - toccò al G. assumere provvisoriamente la carica di comandante per la Valle d'Aosta, il Canavese e il Cuneese orientale. Rimasto nel Comitato in rappresentanza del Partito d'azione, il 22 maggio guidò la delegazione del Comitato di liberazione nazionale piemontese che si incontrò a Barcellonette con quella dei maquisards francesi per stabilire un'intesa tra i due movimenti di resistenza.
Animato da spirito europeista, il G. desiderava riallacciare fraterni rapporti con la Francia per cancellare l'onta dell'aggressione fascista, ma fu molto fermo nel far presente ai suoi interlocutori che le responsabilità del regime di Mussolini non potevano essere estese all'intero popolo italiano. Preoccupato di "salvare la dignità dell'Italia senza cadere nel patriottardismo" (Ruata, p. 1889), riuscì a evitare che si creassero attriti sulla questione della Valle d'Aosta e a far affermare negli accordi finali l'identità d'intenti nella lotta al nazismo e per l'avvento delle libertà democratiche.
Rientrato in Italia, il G. fu di nuovo preso dai suoi compiti di comando e proseguì nell'instancabile opera di collegamento, viaggiando con ogni mezzo. Benché usasse molte precauzioni, cambiando abitazione e assumendo diversi nomi di copertura (Garnero, Ferrero, Dario, Leone), si trovò esposto a sempre maggiori rischi e gli venne pertanto consigliato di allontanarsi dal Piemonte per andare a ricoprire un incarico di responsabilità a livello nazionale.
Il G. non aderì all'invito e il 28 novembre a Torino cadde nelle mani della polizia e fu rinchiuso nelle carceri Nuove, prima di essere trasferito, il 2 dicembre, a Cuneo. Qui venne preso in consegna dalle Brigate nere, che lo sottoposero a tortura, mentre ogni tentativo di ottenere la sua liberazione attraverso lo scambio di prigionieri fu respinto dai fascisti.
All'alba del 3 dic. 1944 il G. venne prelevato per essere condotto nei pressi della frazione Tetti Croce di Centallo, in località San Benigno, dove venne ucciso a raffiche di mitra, e la sua salma abbandonata.
Alla memoria del G. fu assegnata la medaglia d'oro al valor militare quale "altissimo esempio di virtù militari, politiche e civili". Nel 1948 gli venne conferita la Legion d'onore per il contributo dato all'intesa tra i movimenti di liberazione francese e italiano.
Fonti e Bibl.: Le carte del G. sono conservate presso l'Archivio della casa-museo Galimberti di Cuneo, il cui inventario è stato curato da E. Mana e pubbl. in Archivio Galimberti, Roma 1992; altri documenti e testimonianze sull'attività del G. nell'antifascismo e nella Resistenza sono depositati a Cuneo presso l'Istituto per la storia della Resistenza in Cuneo e provincia. Si vedano inoltre: In memoria della medaglia d'oro D. G. da Cuneo, partigiano alpino, sentinella delle Alpi, Roma 1945; G. Bocca, Partigiani della montagna. Vita delle divisioni "Giustizia e Libertà" del Cuneese, Borgo San Dalmazzo 1945, pp. 11 s., 15, 22, 25-27, 35, 63, 94; numero speciale di Giustizia e libertà del 2 sett. 1945; Il processo ai torturatori di Cuneo, ibid., 17 ott. 1945; A. Ruata, Ricordi di D. G., in Il Ponte, X (1954), pp. 1883-1894; D.L. Bianco, Guerra partigiana, Torino 1954, ad ind.; D. G. eroe nazionale del secondo Risorgimento, Cuneo 1959; M. Giovana, La Resistenza in Piemonte. Storia del CLN regionale, Milano 1962, ad ind.; R. Battaglia, Storia della Resistenza italiana, Torino 1964, ad ind.; M. Giovana, Resistenza nel Cuneese. Storia di una formazione partigiana, Torino 1964, ad ind.; G. Bocca, Storia dell'Italia partigiana, Bari 1966, ad ind.; E. Lussu, Partito d'azione e gli altri, Milano 1968, ad ind.; A. Repaci, D. G. e la Resistenza italiana, Torino 1971 (con ampia bibliogr. sul e del G.); L. Valiani - G. Bianchi - E. Ragionieri, Azionisti, cattolici, comunisti nella Resistenza, Roma 1971, ad ind.; A.A. Mola, Trent'anni fa l'assassinio di D. G., in Gazzetta del popolo, 3 dic. 1974; M. Salvadori, Breve storia della Resistenza ital., Firenze 1974, ad ind.; M. Giovana, Un uomo nella Resistenza. Detto Dalmastro, Cuneo 1977, pp. 10, 12-17, 19-24, 42, 44, 52; P. Calamandrei, Uomini e città della Resistenza, Roma-Bari 1977, pp. 243 s., 348; G. De Luna, Storia del Partito d'azione. La rivoluzione democratica 1942-1947, Milano 1982, ad ind.; D. Giacosa, Ricordo di D. G. e D.L. Bianco, Cuneo 1986; F. Franchi, Caro nemico: la costituzione scomoda di D. G., eroe nazionale della Resistenza, Roma 1990; A.A. Mola, T. G. jr. (Duccio), in Il Parlamento italiano, Storia parlamentare e politica, XII, 2, pp. 283-285, 601; Enc. dell'antifascismo e della Resistenza, II, ad vocem; Enc. Italiana, App. II, ad vocem.