Vedi TARQUINIA dell'anno: 1966 - 1973 - 1997
TARQUINIA (v. vol. vii, p. 619 e s 1970, p. 766)
Il dibattito che negli ultimi anni si è andato sviluppando all'interno della comunità scientifica circa i tempi e la dinamica relativi alla formazione dei grandi centri urbani etruschi, ha necessariamente toccato anche il processo di formazione della città di Tarquinia. Analogamente a quanto sembra avvenire in tutta l'Etruria meridionale tirrenica, tra la fine dell'Età del Bronzo e gli inizi dell'Età del Ferro - in corrispondenza cioè del passaggio dall'aspetto culturale protovillanoviano a quello villanoviano (fine X-inizio IX sec. a.C.) - anche nel territorio tarquiniese si verifica l'abbandono dei numerosi villaggi sorti in epoca precedente e si assiste allo sviluppo di un vasto insediamento su quella che sarà la sede della futura città storica, che ha comunque conosciuto una forma di occupazione, anche se molto meno consistente, fin dal Bronzo Finale (X sec. a.C.).
A T. il processo di formazione «protourbana» di età villanoviana (IX-VIII sec. a.C.) si realizza in un quadro topografico ben più vasto di quello della futura città che occuperà i due pianori contigui di Pian di Civita e Pian della Regina e il colle settentrionale della Castellina. Dai dati attualmente disponibili infatti sembrerebbe che nel IX e almeno fino alla metà dell'VIII sec. a.C. all'abitato della Civita a cui si riferiscono le necropoli dei colli circostanti (e la cui estensione complessiva risulta peraltro maggiore - c.a 150 ha rispetto a 120 - di quella che sarà delimitata dalla cinta fortificata di età storica, interessando anche il Poggio Cretoncini situato immediatamente a Ν di Pian della Regina), si affianchi una serie di piccoli insediamenti situati sulla vasta altura parallela dei Monterozzi dove, a partire dal VII sec. a.C., si svilupperà la grande necropoli cittadina. Al momento sono riconoscibili sui Monterozzi almeno quattro nuclei abitativi: in corrispondenza dello sperone occidentale del colle (cui si riferisce forse la necropoli delle Rose), in località Calvario (con la necropoli delle Arcatelle), in località Infernaccio (con la necropoli di Villa Falgari) e in località Acquetta (dove è stato recentemente individuato un abitato con relativo sepolcreto).
In base all'affioramento del materiale protostorico e ai dati stratigrafici provenienti dagli scavi sistematici sul Pian di Civita (a partire dal 1982) dell'Università degli Studi di Milano, si è ipotizzato che l'abitato si estendesse diffusamente su tutta la superficie, articolato con una pluralità di cellule abitative divise da zone libere forse utilizzate per attività agricole. I villaggi sui Monterozzi, di limitata estensione e subordinati all'abitato della Civita, svolgevano verosimilmente una funzione strategica di controllo di quei percorsi che dalla costa conducevano alla Civita stessa. Una sicura, anche se limitata, conoscenza dell'organizzazione interna di uno di questi villaggi, ci è fornita dallo scavo dell'abitato del Calvario che è a oggi l'unico insediamento villanoviano sufficientemente, anche se parzialmente, indagato. Promossa dalla Fondazione Lerici negli anni 1975-78, l'indagine ha messo in luce i resti di almeno 25 capanne disposte con densità disuguale e con superficie variante dai 35 agli 80 m2. La forma delle capanne, ovale, quadrangolare o rettangolare, è definita da un solco perimetrale scavato nella roccia per l'ancoraggio dei pali che dovevano costituire l'ossatura delle pareti, mentre sul pavimento restano le impronte dei montanti di sostegno alle strutture del tetto; le diverse planimetrie sono state spiegate o con una successiva cronologia delle abitazioni o con una diversità di funzione delle strutture. Alcune capanne mostrano una partizione interna degli spazi con il settore di fondo dell'abitazione, isolato, che ricorda suggestivamente il thàlamos della casa greca.
Importanti dati per la storia di T. villanoviana vengono dagli scavi della stessa Università di Milano che hanno messo in luce un quartiere cittadino dove è stato individuato un luogo di culto frequentato fin dal Bronzo Finale e testimoniato da una cavità naturale, da oggetti votivi e da probabili sacrifici di bambini.
Il ruolo predominante della T. villanoviana rispetto agli altri centri dell'Etruria meridionale - dovuto probabilmente anche al controllo delle miniere dei monti della Tolfa almeno fino all'emergere di Caere alla fine dell'VIII sec. a.C. - è documentato, oltre che dall'eccezionale sviluppo della metallurgia, anche dai precoci contatti con le altre comunità dell'Italia antica, con la Sardegna, con la Sicilia e con i popoli del Mediterraneo orientale (Greci e Fenici). L'antichissima vocazione per i traffici marittimi è sottolineata dalla presenza di materiale dell'Età del Ferro sulla costa, nei pressi delle Saline, la cui notevole consistenza e ampia distribuzione permette di ipotizzare l'esistenza di un vasto insediamento costiero.
Il processo di formazione urbana sembra concludersi definitivamente nella seconda metà dell'VIII sec. a.C. con il concentrarsi dell'abitato sulla Civita e con l'abbandono degli insediamenti minori sul colle dei Monterozzi che da questo momento diventa la sede del principale sepolcreto cittadino. Le scoperte degli ultimi anni, nelle aree di abitato e di necropoli, hanno permesso di riconsiderare - almeno parzialmente - quella visione, ormai radicata nella letteratura scientifica, di una T. relativamente spenta dopo il grande momento villanoviano, visione in contrasto con quanto affermato dalla tradizione letteraria antica che definisce la città «grande e potente» quando - verso la metà del VII sec. a.C. - vi approdò e vi si stabilì con un seguito di artisti il nobile corinzio Demarato, padre di Tarquinio Prisco futuro re di Roma (Dion. Hal., III, 46).
Il numero delle grandi tombe gentilizie di epoca orientalizzante, che fino a pochi decennî fa era rappresentato solo dai due monumentali Tumuli della Doganaccia e dal Tumulo Avvolta, è andato progressivamente accrescendosi con le scoperte, per limitarsi agli esempî più significativi, del Tumulo dell'Infernaccio - sempre nella necropoli dei Monterozzi - e di quelli di Poggio del Forno e di Poggio Gallinaro sui colli periferici a E e a Ν dell'abitato. Le imponenti camere funerarie sono realizzate con tecniche diverse: scavate nel banco roccioso (Tumulo dell'Infernaccio), parzialmente costruite (tumuli Avvolta e della Doganaccia) o completamente realizzate con blocchi di pietra (tumuli di Poggio Gallinaro e Poggio del Forno). Lo schema caratteristico delle tombe tarquiniesi di epoca orientalizzante prevede una camera a pianta rettangolare allungata con pareti a profilo ogivale e volta solcata alla sommità da una fenditura longitudinale sigillata da lastroni squadrati. La camera è preceduta da un ampio vestibolo a cielo aperto forse usato per cerimonie di culto, come sembrerebbe suggerire l'esempio grandioso del Tumulo dell'Infernaccio, fornito di banchina e preceduto da una monumentale e articolata scalinata di accesso destinata agli spettatori.
La quantità e la qualità dei corredi funebri rinvenuti, anche se generalmente i sepolcri hanno subito massicce spoliazioni in epoca passata, sono tali tuttavia da accomunare lo stile di vita degli aristocratici tarquiniesi a quello delle classi emergenti delle grandi città vicine.
A questo processo di monumentalizzazione dell'architettura funeraria ne corrisponde - in significativo parallelo - uno analogo delle strutture dell'area urbana, come hanno dimostrato gli scavi dell'Università degli Studi di Milano sulla Civita. Qui, fin dalla prima metà del VII sec., si costruisce un «complesso sacro-istituzionale» caratterizzato dalla presenza di un «edificio sacrificale» con muri in pietra realizzati con tecnica a pilastri; al suo ingresso fu sepolto un notevolissimo deposito votivo costituito da numeroso vasellame e da tre preziosi oggetti di bronzo: uno scudo, un'ascia e una tromba-lituo, insegne simboliche del potere di un principe-sacerdote, vertice prestigioso di quella classe aristocratica committente dei sepolcri monumentali sopra descritti.
Ulteriore documento della vivacità culturale della città in epoca orientalizzante si è avuto con la scoperta, avvenuta nel 1971, della Tomba delle Pantere, databile tra lo scorcio del VII sec. e gli inizî del successivo e che costituisce fino a oggi il più antico ipogeo dipinto tarquiniese. Le figure dei grandi felini tracciate sulle pareti - tra le più mature creazioni di stile corinzieggiante - vengono così a colmare quella lacuna che sembrava fino a qualche anno fa caratterizzare la pittura funeraria di T. proprio nel suo momento iniziale.
Non conosciamo l'ubicazione del porto, o dei porti, di T. in età orientalizzante; essa non coincideva comunque con lo scalo di Gravisca attivo solo, sembra, dall'inizio del VI sec. a.C., ma potrebbe invece avere sfruttato più a Ν la stessa foce del fiume Marta, come sembrerebbe confermare la scoperta avvenuta nel 1988 di una tomba principesca della seconda metà del VII sec. a.C. con oreficerie e altri oggetti prestigiosi nella piana costiera, in località Piano S. Nicola, sulla riva destra del fiume. Anche alle Saline, immediatamente a S di Gravisca e già intensamente frequentate come si è detto fin da epoca villanoviana, fu rinvenuto un ricco contesto orientalizzante, ora parzialmente conservato al Louvre.
Il ruolo della città in età arcaica e classica (VI-V sec. a.C.), vale a dire nel momento del suo apogeo urbano, è andato ulteriormente delineandosi nel corso degli ultimi decenni grazie agli scavi nell'abitato, del porto di Gravisca con il santuario emporico greco sorto appunto intorno al 600 a.C. (v. s 1970, p. 360, s.v. Gravisca e gravisca) e in seguito al rinvenimento di un gran numero di nuove tombe dipinte che ha permesso la revisione della pittura funeraria nel periodo della sua massima fioritura (v. s 1970, p. 766). È stato ipotizzato che in epoca arcaica l'abitato fosse circoscritto al Pian di Civita e che solo più tardi si sarebbe espanso verso oriente inglobando il pianoro contiguo di Pian della Regina. Anche se uno sbarramento artificiale fosse veramente esistito in corrispondenza della strozzatura che divide i due pianori, esso, più che costituire un limite della città, avrebbe molto probabilmente avuto piuttosto la funzione di difesa della parte occidentale e più interna dell'abitato. In tal senso parlerebbero anche i risultati di recentissime indagini (1992) condotte esternamente alla cinta fortificata e immediatamente a E della c.d. Porta Romanelli che permettono di formulare delle ipotesi circa l'esistenza di una cinta fortificata di età arcaica consistente, parrebbe, in un aggere con terrapieno e muro a secco.
Alla prima metà del VI sec. a.C. risalgono poi, a quanto a oggi è dato conoscere, le strutture più antiche del santuario sorto forse come santuario federale degli Etruschi sul pianoro orientale della città lì dove - due secoli più tardi - verrà edificato il grandioso tempio noto con il nome di Ara della Regina. Il ritrovamento in più punti della Civita di terrecotte architettoniche arcaiche è indizio sicuro comunque di una intensa attività edilizia in tutta l'area abitata. Poco sappiamo dell'impianto urbanistico, ma è possibile che fin da epoca tardo-arcaica esso presentasse un tessuto regolare di tipo greco; le tracce di assi viari ortogonali evidenziate dalle prospezioni geofisiche della Fondazione Lerici sul pianoro occidentale sembrano infatti ora confermate dalle recenti indagini archeologiche dell'Università di Milano e potrebbero risalire agli inizî del V sec. a.C.
Dopo la «crisi» degli anni centrali del V sec. a.C., comune a tutti i centri dell'Etruria meridionale, allo scorcio del secolo o agli inizî del successivo, T. è protagonista di un forte processo di rinascita. La città sembra aver risolto i proprî problemi sociali con trasformazioni istituzionali e politiche che portano la vecchia oligarchia di tipo tradizionale a rinnovarsi nelle forme economiche e nell'ideologia. Sulla base di alleanze gentilizie essa sembra ora assumere la guida della confederazione etrusca mobilitata in difesa della minaccia celtica da settentrione ma soprattutto di quella ben più consistente costituita dalla crescente potenza romana a Sud. Questo nuovo periodo di floridezza comporta una sorta di febbrile attività edilizia con la costruzione di una nuova imponente cinta urbana (c.d. Mura Romanelli) lunga ben 8 km, delimitante i pianori di Civita e Pian della Regina e a Ν anche lo sperone della Castellina, per una superficie di c.a 120 ha. Vengono ristrutturati ora i principali edifici cittadini, primo fra tutti il santuario dell'Ara della Regina con la costruzione del grandioso tempio dedicato probabilmente ad Artumes, omologa etrusca di Artemis-Diana e alla cui decorazione frontonale si riferisce il celebre altorilievo fittile con coppia di cavalli alati. Numerosi dovevano essere però gli edifici sacri cittadini: iscrizioni dedicatorie ed ex voto testimoniano infatti la presenza di culti dedicati anche a Suri, divinità assimilabile ad Apollo, a Selvans, analogo al latino Silvanus, a Culsans, dio bifronte simile al latino Giano e a Thufthas, divinità indigena di cui ignoriamo anche l'aspetto.
Dall'area del tempio dell'Ara della Regina provengono i frammenti degli «Elogia Tarquiniensia», iscrizioni laudatone dedicate nella prima età imperiale alla memoria di una grande famiglia aristocratica cittadina, gli Spurinna, e la cui interpretazione è tuttora oggetto di vivaci polemiche tra gli studiosi. Secondo una delle letture più accreditate dei testi, proprio il capostipite degli Spurinna, Velthur, sarebbe stato uno degli artefici della rinascita di T. e avrebbe guidato una felice spedizione dell'esercito etrusco a fianco di Atene in occasione della guerra contro Siracusa del 414-413 a.C.
Ed è ancora a questa fase di splendore della storia cittadina, l'ultima prima del definitivo scontro armato con Roma, che si assiste a un nuovo fiorire dei grandi sepolcri dipinti per la nuova classe dirigente. Emblematico di questo particolare momento della pittura funeraria, caratterizzato dal nascere di nuovi programmi figurativi che perdureranno per tutta l'età ellenistica, è l'ipogeo dipinto dei Demoni Azzurri venuto in luce nel 1985. Il sepolcro, databile forse ancora agli anni finali del V sec. a.C., sembra infatti scandire proprio il passaggio fra le due differenti ideologie della morte: quella di età arcaica e classica ancora legata alle rappresentazioni simposiache (parete di sinistra e di fondo) e l'altra ispirata alle nuove dottrine escatologiche mutuate dal mondo greco e modellate sull'idea di un Ade popolato di divinità e demoni infernali e riflessa nella grande scena dipinta sulla parete destra che ha dato il nome al sepolcro. Si tratta senz'altro della più antica raffigurazione relativa al mondo dei morti della pittura funeraria tarquiniese: introdotti dalla suggestiva figura di Caronte, vista nella sua funzione di traghettatore di anime secondo l'iconografia greca, due defunti (una donna e un fanciullo) giungono in un aldilà popolato di figure infernali il cui aspetto presuppone già l'avanzato processo di elaborazione che porterà alla definizione dei demoni etruschi della morte - gli esseri mostruosi con precisi attributi e nomi specifici - noti dalle pitture dei sepolcri di età ellenistica.
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(M. Cataldi)