Tartaro
Luogo sotterraneo destinato dalla mitologia classica (dal greco ταράσσω, " turbo ", " sconvolgo ") a sede dei morti e prigione degli empi. La cosmogonia e la teogonia greche immaginarono che il T. si fosse staccato dalla Terra non appena questa, in principio, nacque dal Caos, dal quale inoltre fu generato l'Erebo, sede anch'esso dei morti.
La diversa origine, perciò, distingue l'Erebo dal T., sul quale, distante dalla terra quanto questa dal cielo, poggiavano le fondamenta della terra stessa e del mare. Vi erano stati relegati, dal timore del padre Urano, i Titani e i Centimani, ai quali, dopo molteplici vicende dai palesi significati naturalistici, si aggiunsero Tifeo, i giganti e, in tempi diversi, eroi come Issione, Sisifo, Tizio, le Danaidi, Tantalo. L'Erebo, anch'esso posto sottoterra, era il tenebroso regno dei morti concepito come sede dei malvagi e contrapposto all'Eliso, sede dei giusti. Col tempo, l'uso del termine T. si generalizzò e, passando a significare dapprima la parte più oscura e profonda dell'Erebo, giunse a identificarsi con esso e venne adoperato indifferentemente con altri appellativi (Inferno, Averno, Orco, Ade), a indicare l'oltretomba. Circondato dallo Stige, fortificato da mura metalliche guardate dai Centimani, custodito da una porta di diamante vegliata da Tisifone, percorso dai fiumi infernali Acheronte, Flegetonte, Cocito e Lete, con le sedi favolose e terribili della Notte, del Sonno, della Morte e di Ades, il T. aveva un solo ingresso, nell'estremità occidentale della terra, ma accessi dovunque fossero antri profondi, tra i quali famosi erano quelli di Cuma e Colono. Vi era preposto il dio Ades; traghettatore era Caronte, giudici Minosse, Eaco e Radamanto, guardiano il cane trifauce Cerbero. Lo stesso termine T. è divenuto poi sinonimo erudito dell'Inferno cristiano sia nell'uso metaforico del nome, per indicare il diavolo, sia nell'uso dell'aggettivo derivato, a significare tutto ciò che ha a che fare con l'Inferno.
All'uno e all'altro uso dev'essere riportato l'aggettivo " tartareum ", in Giovanni del Virgilio attributo di " praeceps " (Eg I 10) e costituente con questo una espressione che se va intesa come adozione poetica di una voce erudita, conveniente all'interno del carme per l'atmosfera ‛ preumanistica ' che lo contraddistingue, si qualifica anche come attento e palese dantismo nel quale al sostantivo " praeceps " corrisponde il cupo dantesco di If VII 10.
Lo stesso Virgilio, già ricco di aggettivi per il T. (" niger ", Aen. VI 134; " tristis ", IV 243), offre al Del Virgilio i due elementi della sua espressione in Aen. VI 577-578 " Tum Tartarus ipse/ bis patet in praeceps ", mentre D. aveva già accompagnato il termine abisso con profondo in If III 41 e XI 5, che ripeteva un identico aggettivo latino di Seneca (Hippol. 951) e, come basso di If XII 35, ne assorbiva altri variamente qualificanti il pozzo infernale come " imus " (Seneca Oedip. 869), " tenebrosus " (Ovid. Met. I 113), " opacus " (X 20-21), " inanis " (XI 670, XII 523-524 e 619). Il " Tartareum praeceps " contrapposto ai " secreta poli " (Eg I 11), l'uno incomprensibile al volgo, gli altri appena penetrati da Platone, ripropongono, come ai vv. 4-5 " sontibus Orcum, / astripetis Lethen, epyphoebia regna beatis ", ma in duplice semplificata ripartizione, i due momenti più caratteristici della poesia dantesca e li ripropongono con una perifrasi tipica della poesia latina (cfr. Virg. Buc. I 59-63, ma anche Aen. XII 202-209) e ora usuale anche al Del Virgilio (cfr. l'egloga al Mussato, vv. 235-239).