tasca
Il termine ha nell'unica occorrenza dantesca il valore di " borsa "; sicché D. può chiamare indifferentemente t. (If XVII 55 e 73), borsa (v. 59) o sacchetto (v. 65) la " pera vel bursa " (Benvenuto) su cui è cucito lo stemma di famiglia degli usurai.
Nella t. tutti i commenti vedono un contrapasso; in sé infatti " la tasca è un particolare strano, e grottesco: strana sopravvivenza di un oggetto materiale e terreno nell'oltretomba " (Momigliano). Ma " gli usurai portavano una di quelle tasche o borse, che nel Medioevo s'usava di tener legate o appese alla cintura: e i prestatori avevano appunto la consuetudine di stare ‛ ad tabulam sive banchum cum tascha et libro ' " (Casini-Barbi; cfr. Salvemini, in " Bull. " IX [1901-02] 114 e Barbi, Problemi I 270). D. vuol mostrare insomma che " la loro intenzione sempre fu alla pecunia " (Buti); la t. era stata in vita un oggetto caro a costoro, e ad essa " solamente avevano mirato, perché si riempisse del frutto dell'altrui lavoro e accrescesse... la potenza della propria casata " (Pietrobono). Il Tommaseo osserva infine che D. non dice se questo " sacchetto " era pieno: " forse, a più scherno e tormento, meglio è farlo vuoto ".