Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Teatro stabile e teatrini di automi costituiscono lo scenario nel quale si sperimentano saperi tecnici di notevole livello, al fine di creare effetti scenici divertenti. Le medesime tecnologie impiegate nella rappresentazione di tragedie e commedie troveranno spazio e saranno perfezionate nella messa in scena dei teatrini di automi che tanto appassionavano il pubblico. Al trattato di Erone di Alessandria dedicato a questo tema dobbiamo la conoscenza dei complessi meccanismi ideati, la cui importanza consiste, a livello generale, nella capacità di governare movimenti che devono avvenire in un determinato momento della rappresentazione.
La nostra conoscenza sui dispositivi meccanici che governavano la buona riuscita degli effetti scenici che tanto divertivano il pubblico alle rappresentazioni di tragedie e commedie verte essenzialmente sulle fonti letterarie. Tra il V e il I secolo a.C. i Greci costruiscono numerosi teatri tra la penisola ellenica e le colonie del Mediterraneo orientale e occidentale. Nel corso della loro secolare esistenza, i teatri hanno subito trasformazioni che, se pure consentono di ricostruirne per grandi linee l’aspetto, hanno invece compromesso la possibilità di conoscere dettagli essenziali per quanto concerne le scenografie. Le fonti letterarie, tragedie e commedie, permettono di ricavare informazioni sui movimenti degli attori, sulle situazioni convenzionali e sulla presenza e impiego di macchine teatrali. Del resto, negli scolii e nelle fonti letterarie antiche relative alla pratica teatrale si parla spesso di apparati impiegati per realizzare effetti speciali in particolari momenti della rappresentazione.
Per quanto concerne i teatrini di automi, se le testimonianze materiali sono carenti, maggiori informazioni sono conservate nella letteratura, sebbene sia impresa ostica il comprendere il complesso linguaggio tecnico adoperato per descrivere i procedimenti alla base del funzionamento di questi apparati. Da questo punto di vista è fondamentale il testo degli Automata, l’opera in cui Erone di Alessandria descrive dettagliatamente il funzionamento di un teatrino di automi con tutto il repertorio di effetti speciali che doveva costituire una delle attrattive che maggiormente divertiva il pubblico. Erone descrive un apparato stabile e uno mobile. Per quanto riguarda il secondo, il motore principale di tutto ciò che avviene sulla scena è costituito dalla discesa controllata di un contrappeso all’interno di un contenitore cilindrico verticale pieno di miglio; l’apertura della porta che lascia fuoriuscire il miglio alla base del contenitore causa la discesa del contrappeso, dal cui moto discende la rotazione dell’asse e delle ruote dentate collegate, che a loro volta comandano i movimenti rettilinei e circolari degli automi.
Erone considera preferibile l’apparato stabile, che a suo dire offrirebbe maggiori garanzie di resa. A questo proposito egli narra tutto lo svolgimento della vicenda di Nauplio, che per vendicare la morte del figlio Palamede, ucciso da Ulisse, fa naufragare la flotta dei Greci sugli scogli. La storia è ricca di effetti speciali: le porte situate sulla fronte si aprono e si chiudono, scene mobili diverse si alternano sullo sfondo, sono srotolate dall’alto e recano la raffigurazione dei personaggi e degli scenari nei quali avvengono gli eventi principali della narrazione. La vicenda di Nauplio non è scelta a caso da Erone: infatti, i dispositivi tecnici che ne determinano lo svolgimento dovevano essere da tempo noti, trattandosi di un soggetto già descritto da Filone di Bisanzio, che si era occupato di questo medesimo tema nel perduto trattato composto ad Alessandria nel III secolo a.C. e dedicato proprio agli automi.
Spesso visti come espressione concreta di una tecnologia interessata a generare stupore e meraviglia piuttosto che alla ricerca dell’utilità, questi teatrini costituiscono invece un esempio importante della capacità, raggiunta dagli esperti di meccanica, di effettuare operazioni di grande precisione.
Tra il teatro stabile e i teatrini di automi esistono evidenti relazioni proprio per quanto concerne la tecnologia meccanica impiegata, specialmente dall’età ellenistica in poi, per mettere a punto gli effetti scenici, fondamentali per la buona resa del tutto. Per quanto riguarda il mondo romano, sia Vitruvio che Polluce, grammatico attivo all’epoca dell’imperatore Commodo, riportano alcune informazioni sui macchinari impiegati nei teatri; essi attingono probabilmente da una comune fonte di età tardo ellenistica, cioè uno di quei veteres architecti che Vitruvio (V, 3, 8) evoca come autorità in questo settore. Nel descrivere la scena ideale del teatro Vitruvio (V, 6, 8) sottolinea la necessità che vi siano tre porte e aggiunge che l’architetto deve preoccuparsi di dedicare spazi a quegli apparati che i Greci chiamano períaktoi (periaktos, da periago, “ruoto attorno a qualcosa”), i periatti, prismi triangolari alti quanto il decoro centrale e posti alla destra e alla sinistra di quest’ultimo, leggermente spostati in avanti: probabilmente introdotti in età ellenistica, recavano dipinto su ogni faccia uno sfondo diverso che, in virtù di un movimento di rotazione, veniva mostrato nel momento in cui la rappresentazione lo richiedeva consentendo rapidi cambiamenti di scena: si trattava spesso di un cielo in tempesta (Pollux, IV, 130) con tuoni il cui rimbombo era riprodotto tramite un vaso pieno di sassi che veniva percosso al momento opportuno. Un analogo dispositivo per simulare il fragore del tuono figura anche in Erone (Autómata, II), quando nella menzionata favola di Nauplio il rumore conseguente al fulmine che colpisce l’immagine di Aiace è ottenuto per mezzo di un vaso forato e pieno di sfere di piombo che “cascando sopra una pelle tesa e densa fanno uno strepitio somigliante a quello del tuono”.
A questo proposito Erone aggiunge un preciso riferimento all’ambiente teatrale specificando che “nei teatri, quando bisogna fare questo tipo di rumore, aprono vasi nei quali ci sono pesi, in modo che, cadendo sopra pelli, come detto aride e tese come quelle dei tamburi, facciano lo strepitio” (Automata, 2, 20, 4). Tornando ai períaktoi, è possibile che se ne sia conservata la tecnologia anche nel teatro romano sotto la definizione di scaena versilis. Se la scaena ductilis (Servio, Ad Georgicas, III, 24), un tipo di sfondo formato da uno o più pannelli sovrapposti, oppure da due parti perfettamente raccordate che scorrevano in una scanalatura appositamente predisposta in modo da mostrare altri decori alle spalle dello spazio della recitazione non presenta particolari problemi, la situazione della scaena versilis o versatilis è più complessa. Introdotta secondo Valerio Massimo (2, 4-6) a Roma nel 79 a.C., era probabilmente composta da un certo numero di decori sulla faccia anteriore e su quella posteriore, da cui evinciamo che per il suo funzionamento era necessario un moto di rotazione. Secondo Servio, infatti, a un certo momento della rappresentazione tutta la scenografia ruotava per mezzo di un meccanismo che il grammatico non conosce e che attribuisce, genericamente, a machinis quibusdam. La tecnologia per comprendere come avvenisse tale rotazione è ancora nei teatrini di automi. Infatti, il principio della discesa controllata di un contrappeso utilizzato nei teatrini di automi dovette costituire la fonte di energia anche per quei dispositivi del teatro antico che dovevano effettuare movimenti di ogni sorta; è quanto si è potuto constatare, per esempio, nell’impianto scenico del teatro di Siracusa e ciò che resterà a lungo in vigore in tanti altri teatri europei fino all’introduzione dell’energia elettrica.
Un altro congegno frequentemente adoperato e capace di movimenti rettilinei e circolari era l’enciclema, un dispositivo presumibilmente introdotto per mostrare agli spettatori gli interni degli edifici. L’enciclema fu particolarmente gradito ad Euripide, che ne fece ampio uso e anche per questo dovette subire le ironie di Aristofane, che negli Acarnesi (v. 404 e ss.) lo rappresenta su questo dispositivo dal quale dichiara di non avere tempo per scendere. Per quanto concerne il funzionamento, mentre il moto rettilineo non doveva presentare particolari problemi, occorre fare alcune precisazioni su quello circolare, anche in considerazione del fatto che nei passi in cui gli autori antichi introducono i riferimenti all’enciclema ricorrono termini che rimandano a un moto curvilineo probabilmente compiuto attorno a un perno. Ancora una volta è illuminante la lettura del passo degli Autómata in cui Erone illustra il modo in cui le basi di automi mobili possono percorrere una circonferenza o un arco di circonferenza (Automata, 1, 7-8). Erone descrive infatti come debbano essere applicate sotto la piattaforma lignea del teatrino mobile tre ruote, due parallele uguali e una singola di differente diametro. Grazie a questa particolare disposizione delle ruote, una volta avviato il dispositivo per mezzo del consueto sistema di funi e contrappesi opportunamente collegato ad esso, è possibile osservare un movimento circolare che Erone spiega, correttamente, riconducendo il tutto al moto di un cono isoscele che, ruotando attorno al centro di una circonferenza, descrive archi di cerchio o un cerchio completo: in sostanza, il meccanismo è analogo a quello che determina il funzionamento dei nostri tricicli.
In questo reciproco scambio di conoscenze, teatro stabile e teatrini di automi devono avere fatto ricorso alle medesime soluzioni tecniche per risolvere problemi che, seppure in scala diversa, richiedevano il medesimo approccio.
Resta da dire, infine, della macchina che permetteva di sollevare gli attori quando dovevano impersonificare divinità ed eroi che comparivano all’improvviso in scena, finendo così col recitare sospesi per aria o su un piano elevato, detto theologeîon. Polluce (IV, 128) definisce questo dispositivo col generico termine di mechané, una specie di gru che serviva “per fare vedere in aria gli dèi e gli eroi, i Bellerofonte e i Perseo”. Se questa informazione è plausibile, allora questi apparati dovevano essere in grado non solo di sollevare un attore, ma anche carri che comparivano all’improvviso in scena trasportando più personaggi: per esempio, la Medea di Euripide (vv. 1317 e ss.) scompare dagli occhi del pubblico e da quelli di Giasone trasportata in cielo da un carro nel quale si trovano anche i corpi dei due figli. È questo, inoltre, il meccanismo che nelle Nuvole consente ad Aristofane di rappresentare Socrate sospeso per aria dentro un cestino oppure, ne La pace, Trygeo a cavalcioni di una lumaca alata: operazione pericolosa, tant’è che lo stesso nella commedia si rivolge al macchinista chiedendogli di fare attenzione (v. 76; 136; 147). A questo apparato fa certamente riferimento Polluce (Onomastikon, IV, 130) quando ricorda una scena della perduta tragedia Psicostasia di Eschilo, in cui Eos, madre di Memnone, porta via in volo il corpo del figlio ucciso da Achille. Del resto Eschilo doveva avere familiarità con questo dispositivo se nel Prometeo incatenato descrive Oceano che arriva in scena su un uccello alato, resta sospeso in alto per parlare con Prometeo e poi riparte.
Il funzionamento di questa macchina per sollevare gli attori verteva sul concatenamento di parti che, prese singolarmente, erano note ed efficacemente impiegate nell’edilizia, nella marineria, nell’arte della guerra. Nascosto alle spalle dell’apparato scenico, questo dispositivo doveva essere composto da un solo sostegno verticale inclinabile e munito di un sistema di carrucole e funi: a queste ultime era legato un grosso gancio, un vero e proprio arpione che avrebbe dovuto sostenere il peso di attori e carri volanti. Poggiato su una base, poteva scorrere alle spalle della scena, evitando così di ricorrere a basi ruotanti, la cui esistenza non è attestabile con certezza.
La solidità e affidabilità del sistema meccanico è accertata dal fatto che questo congegno aveva talvolta sollevato due personaggi contemporaneamente in alcune tragedie di Euripide: Lussa e Iris nell’Eracle e i Dioscuri nell’Elettra, Apollo ed Elena nell’Oreste. Mentre l’albero della gru poteva restare nascosto alle spalle della scena, occorreva invece celare agli occhi del pubblico le funi che reggevano l’attore: Erone, che affronta problemi analoghi negli Autómata (II, 30), raccomanda che le corde siano dipinte di nero oppure di grigio scuro.
D’altro canto, questo particolare tipo di gru presentava vantaggi in termini di agilità ed efficacia che non sarebbero sfuggiti, negli anni e nei secoli immediatamente successivi, ai meccanici costruttori di macchine belliche: si pensi, per esempio, ai famosi corvi impiegati da Caio Duilio (Polibio, Storie, 1, 22) durante la prima guerra punica e alla manus ferrea di Archimede (Polibio, Storie, 8, 5), dispositivi che hanno in comune la presenza di un solo grosso sostegno libero di oscillare e capace di reggere un notevole peso.
In sostanza, è possibile che il progresso delle forme di sapere scientifico e tecnologico che aveva tratto grande impulso dalle vicende della guerra, dell’edilizia e del commercio manifestatesi in tutto il bacino del Mediterraneo a partire dalla metà del VI secolo a.C., abbia successivamente fatto vedere i propri effetti anche nel settore delle rappresentazioni teatrali, dal quale avrebbe poi ricevuto ulteriori stimoli proprio nel campo della scienza delle macchine.
Da una parte, infatti, la mechané introdotta per sollevare e sostenere dèi ed eroi sembra essere una naturale derivazione di alcuni dei congegni adoperati nell’edilizia e nei porti per caricare e scaricare le merci dalle navi, dall’altra, viceversa, le quibusdam machinis che producevano il moto circolare di prismi e piattaforme mobili sembrano influenzare in modo inequivocabile il settore dei teatri di automi, che quelle tecnologie recepisce e reimpiega per conseguire, in scala piccola, i medesimi effetti scenici.