Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Nel corso del Settecento i teatri aumentano di numero, trasformandosi da emblemi di magnanimità in istituto di vita civile. Si diffondono le scene di dotazione che i vari teatri riutilizzano di volta in volta, mentre l’allestimento scenico passa dal gusto architettonico ancora barocco dei Bibiena all’eleganza rococò di Alessandro Mauro e al rovinismo caratteristico di metà Settecento, fino alla scenografia paesistica e alla “scena-quadro”.
Lo spazio teatrale
Nel Settecento, la decadenza politica degli Stati italiani, unita a una progressiva democratizzazione e diffusione del teatro, fanno convergere sullo spettacolo quegli interessi che durante il Seicento erano largamente soddisfatti dalla grande festa pubblica con i suoi magnifici apparati politico-allegorici. Così i teatri aumentano sensibilmente di numero, trasformandosi da sontuoso e raro connotato della grandezza di un principe, di un’oligarchia, di una nobile famiglia o di un’accademia, in istituto della vita civile. In conseguenza di questa trasformazione sociologica si cominciano a produrre e usare scene di dotazione che i vari teatri riutilizzano di volta in volta, secondo un uso che va progressivamente diffondendosi.
Anche nel secolo dei Lumi il teatro rimane uno dei più intensi piaceri della corte francese. Nei piccoli teatri che Madame de Pompadour fa costruire a Versailles, la marchesa recita la commedia davanti al re e a un pubblico elitario; mentre nel teatro di Maria Antonietta al Trianon prevale l’opéra-comique con i suoi toni più famigliari e con i temi rustici. Anche nelle feste pubbliche lo stile della monarchia si fa meno solenne fino al ben noto epilogo della Rivoluzione francese, durante la quale nascono appunto le feste civiche, la prima delle quali è proprio quella che ricorda la presa della Bastiglia.
Tra il 1789 e il 1793 il fermento spettacolare rivoluzionario travolge il concetto di spazio scenico tradizionale. E nelle feste parigine, che contribuiscono a sconvolgere la psicologia individuale mediante l’esaltazione degli atti collettivi, è riconoscibile la premessa della teatralizzazione diffusa, tipica della seconda metà del XX secolo.
Massimo artefice delle cerimonie e dei cortei parigini nella nuova Francia è Jacques-Louis David, la cui visione pittorica è spiccatamente teatrale.
Alle grandi manifestazioni rivoluzionarie David impone l’immagine della storia romana, il cui mito dalla scoperta di Pompei rappresenta la nuova grandeur.
Ma ben presto – già nel periodo del Terrore – le feste civiche cambiano valenza: la primitiva spontaneità viene convertita dal potere in strategia didattica e, quindi, in concessione organizzata.
Alla tensione ideologica francese, impressa al teatro anche dalla volontà di riforma avviata da Voltaire, e alle soluzioni borghesi in Olanda corrisponde in Germania, in Austria e nella Mitteleuropa la lunga continuità del teatro nelle corti. Queste dispongono, infatti, di sale per spettacolo e, dalla metà del secolo, anche di teatri dotati di eccellenti impianti tecnici; privilegiano inoltre a tutti i livelli, dall’architetto teatrale al maître de ballet, artisti stranieri soprattutto italiani.
Come nel Grosses Hoftheater di Vienna, realizzato per Leopoldo I d’Asburgo-Lorena, anche nell’Opera di Nancy del 1708 Francesco Bibiena organizza la cavea e soprattutto il palco destinato al committente, in modo speculare al palcoscenico. A Mannheim nell’Hofopernhaus disegnato da Alessandro Bibiena, primogenito di Ferdinando, e terminato nel 1741, sopra uno zoccolo di palchetti si sviluppa un giro di gradinate che abbracciano la loggia dell’elettore del Palatinato, coronata da un baldacchino. L’interno di gusto rococò è concluso da quattro ordini di balconate, scalettate come nel modello seicentesco di Seghizzi.
Il tipo a gradinate è utilizzato a lungo negli apparati effimeri, come nell’anfiteatro che Giuseppe Bibiena, altro figlio di Ferdinando, realizza nel 1723 a Praga per l’incoronazione di Carlo VI, re di Boemia e di Ungheria. Nel Markgräfliches Opernhaus di Bayreuth (1748), Giuseppe si ispira a due acqueforti dello zio Francesco – pubblicate verso il 1700 e originariamente destinate a Vienna – e al contrario di Alessandro si mostra fedele alla tradizione di famiglia, celebrando il trionfo dell’illusione assoluta.
La corte viennese organizza feste con fuochi d’artificio, mascherate (Wirtschaften) e balletti – di cui peraltro Torino rappresenta un punto di riferimento europeo – piccoli Singspiele, ma anche grandi opere.
Solo nella seconda metà del secolo si costruiscono teatri cittadini anche a carattere “nazionale”.
Nella Spagna del Settecento si raggiungono risultati teatrali e scenografici di straordinario sfarzo, soprattutto al Buen Retiro sotto la direzione del famoso sopranista italiano Carlo Broschi, detto il Farinelli. Tale opulenza si pone in netto contrasto con la povertà dei corrales; tuttavia, quanto più spettacolari sono gli effetti e sofisticate le macchine, tanto più lento e impacciato è il movimento dei congegni e spesso la meraviglia destata in alcuni si unisce all’impazienza dei critici più avveduti.
Tra il 1720 e il 1800 in Gran Bretagna, durante il periodo giorgiano, la fase sperimentale che aveva caratterizzato il teatro della Restaurazione monarchica a partire dal 1660 si assesta e i teatri, che si vanno moltiplicando come nel resto d’Europa, acquistano una fisionomia definitiva. Così, se all’inizio del secolo ha il predominio l’opera italiana, è nei due teatri londinesi del Drury Lane e del Covent Garden che si sviluppa l’opera inglese, un’alternanza di parti recitative e cantate, di drammatico e satirico: la più nota opera ballad è The Beggar’s Opera di John Gay del 1728.
Nel corso del XVIII secolo l’edificio teatrale acquisisce il diritto alla propria indipendenza logistica e alla propria autonomia strutturale, qualificandosi sempre di più come architettura di servizio, dotata di ridotti, foyers e altre comodità. E se si riduce così l’area propriamente destinata alla rappresentazione, sono proprio questi spazi a enfatizzare tutte le potenzialità d’uso in essi implicite, a partire dalla facciata, sempre più fortemente connotata in senso teatrale.
Anche il giardino si afferma come spazio teatrale: nei teatri di verzura la scena, l’orchestra e la sala sono definiti mediante elementi naturali, fra i quali – in alcuni casi – vengono inseriti anche manufatti architettonici e plastici, come edicole, esedre e statue. Nel Settecento il teatro di verzura diviene prerogativa dell’Arcadia, anche se al di fuori dell’Accademia si realizzano spettacoli occasionali in teatrini di verde provvisori.
Lo spazio modello: il “teatro all’italiana”
Il “teatro all’italiana ” è costituito da due settori distinti, la sala e la scena, che pur facendo parte di un’unità architettonica corrispondono a esigenze e valori distinti. Infatti, mentre la sala è espressione dell’ordinamento sociale ed economico del teatro, la scena riflette le prassi realizzative e la nozione dominante di spettacolo che, a seconda delle circostanze, privilegia l’integrazione e la separazione dei due spazi.
Le riflessioni e le sperimentazioni sulla pianta ideale della cavea nel “teatro all’italiana” portano alla grande diffusione dello schema a “ferro di cavallo”. Proposto nella prima metà del XVIII secolo da Girolamo Theodoli all’Argentina di Roma (1732) e nella più antica realizzazione del San Carlo a Napoli (1737) a opera di Giovanni Medrano, tale schema viene ripreso nelle più famose sale di fine secolo, dalla Scala di Giuseppe Piermarini (1778) alla Fenice veneziana di Giannantonio Selva (1792).
In realtà i teorici più accreditati del Settecento, da Francesco Algarotti al Patte, affermano la superiorità ideale della forma ellittica, individuando nel Regio di Torino – realizzato da Benedetto Alfieri nel 1738 su un primitivo progetto di Filippo Juvarra – il modello a cui fare riferimento per l’esaltazione della funzionalità, obiettivo primario nella visione architettonica neoclassica.
Nella scenografia settecentesca prevale il linguaggio dell’architettura, di cui si fanno interpreti i più grandi artisti del secolo. Scene ed “effetti” vengono allora semplificati e ridotti di numero, si determinano tipologie ripetitive. Grazie ad esse il palcoscenico acquista valore di “quadro” che avvolge visivamente l’area di proscenio entro contesti architettonici e sfondi paesistici, abilmente raccordati dai laterali.
Non altrettanto sorvegliato dal punto di vista estetico è il rapporto proscenio-fondale nel teatro recitato: con il diffondersi delle commedie di Carlo Goldoni e del dramma borghese la scena, costituita da quinte disposte diagonalmente o accostate a formare un “parapettato” interno, svolge solo compiti strettamente funzionali.
Nel corso del secolo viene promosso lo sviluppo del proscenio, mediante diverse soluzioni spaziali e architettoniche che si affiancano all’ispessimento strutturale dell’arcoscenico. Sul finire del secolo, del resto, l’espediente dell’arco di proscenio profondo appare anche la più organica e conveniente risposta ai problemi di diffusione acustica.
Le grandi dinastie di architetti-scenografi
La famiglia dei Galli da Bibiena, originaria del Casentino ma naturalizzata bolognese, annovera per quasi tutto il Settecento la più prestigiosa produzione di teatri nazionali ed europei; in questi viene privilegiata la pianta a campana con esplicito valore metaforico, frutto di uno sperimentalismo costantemente aggiornato. Attivi come scenografi fin dalla seconda metà del secolo precedente, con l’innovativa introduzione della “scena per angolo” da parte di Ferdinando, nel trionfo illusionistico delle loro scene i Bibiena adottano il rigoroso linguaggio architettonico.
È dunque a opera della scenografia bibienesca che si sviluppa quel processo di separazione fra “teatro” e “scena”, sancita dall’evidenza plastica dell’elemento di raccordo fra i due spazi. La saldatura fra sala e scena viene definita in maniera monumentale dai palchi di proscenio, inquadrati da due colonne o pilastri di ordine gigante. Tale elemento viene proposto per la prima volta da Francesco Bibiena, fratello di Ferdinando, nel grande teatro di corte viennese (1704) e in seguito ribadito nel Filarmonico di Verona (1715-1731). In questo teatro – come in quello distrutto di Antonio Cugini a Cittadella (Reggio Emilia) – viene ripresa la formula dei palchetti digradanti, avanzata un secolo prima da Giovanni Andrea Seghizzi nel Formagliari di Bologna.
Anche Antonio, uno dei figli di Ferdinando, nella seconda metà del Settecento adotta la soluzione dei palchetti di proscenio, sia nel Teatro comunale di Bologna (1755-1763), sia in quello scientifico a Mantova (1767-1769) e nel Teatro dei Quattro Cavalieri Associati di Pavia (1771-1773). Ma se nel teatro di Bologna Antonio Bibiena risponde agli ideali estetici borghesi che la cultura illuministica dell’Algarotti promuove nella città, nelle imprese successive l’artista resta fedele al proprio sontuoso linguaggio.
Un’altra di quelle grandi équipe familiari che costituiscono le caratteristiche della scenografia e dell’architettura teatrale professionistiche del secolo è quella dei Mauro. Attivi dalla seconda metà del Seicento fino ai primi anni dell’Ottocento, la loro produzione si coniuga alla progressiva istituzionalizzazione del teatro e si adegua all’aggiornamento tecnico che sostituisce il magnifico apparato della festa con la dotazione di scene in serie.
Il rappresentante più importante della famiglia dei Mauro è Alessandro, forse figlio di quel Domenico autore delle scene per Il favore degli dei, realizzato nel Teatro Farnese di Parma nel 1690 in occasione delle nozze di Odoardo II Farnese. Attivo, come il padre, nella prima metà del secolo, Alessandro opera non solo in Italia, ma anche presso le grandi corti europee: la sua architettura teatrale più importante è l’ Opernhaus di Dresda, dove trova una mediazione tra la tipologia “all’italiana” e il protobarocco “teatro da sala”.
Infine Bernardino e Fabrizio Galliari, i fratelli più eminenti dell’altra grande dinastia di scenografi settecenteschi, contribuiscono in modo determinante all’affermazione della “scena-quadro”, assecondando un’istanza pittoresca piuttosto che la necessità di nobilitare un’ambientazione naturale con inserti architettonici di tono aulico.
I grandi protagonisti
Il messinese Filippo Juvarra si dedica al teatro solo in anni giovanili. Tra il 1709 e il 1710 per il cardinal Pietro Ottoboni sistema, nel palazzo della Cancelleria a Roma, un piccolo teatro con una semplice pianta a “U”, sul cui profilo si innestano quattro ordini di palchi. Fra il 1710 e il 1712 allestisce tre spettacoli (Costantino Pio, Teodosio il Giovane e Ciro), di cui resta testimonianza visiva attraverso le incisioni dello stesso architetto a illustrazione dei libretti. Rispetto all’artificio ottico adottato da Ferdinando Bibiena, Juvarra preferisce trasferire sulla scena le potenzialità naturali ed evocative della propria esperienza architettonica.
Per quanto breve sia la sua permanenza alla Cancelleria, il messinese lascia un’impronta incancellabile finché resta attivo il teatro Ottoboni. La sua eredità viene raccolta da Nicola Michetti, autore delle quattordici scene per la ripresa del Carlo Magno – realizzata in quella sala nel 1729 – scene in cui rispetto allo Juvarra rivela un gusto meno classicista, aggiornato sugli esiti più graziosi del rococò.
Lo stesso Luigi Vanvitelli, nominato architetto della fabbrica di San Pietro nel 1726, è attivo in quegli annian-ARTI VISIVE
ni nel teatrino del cardinal Ottoboni (1726-1728). Egli getta un ponte tra la temperie classicista che si sviluppa nel primo ventennio del secolo e il recupero dell’antico, non solo in termini neoclassici, ma anche – mediante le proposte oscuramente sublimi di Giambattista Piranesi – in termini neoegizi e neoetruschi. Il Vanvitelli si rivela innovativo anche come architetto teatrale: nell’anomalo teatro della reggia di Caserta (1768-1769), impostato sul cerchio, anticipa soluzioni adottate in seguito in Francia e in Germania, come le dieci larghe colonne che inquadrano le logge, suddivise in ampi palchi. Nel grande teatro di Victor Louis a Bordeaux, iniziato nel 1773 e inaugurato nel 1780, sono dodici colonne corinzie a scandire l’ordine monumentale della sala a cupola.
Il modulo è ripreso dal Gesset nel teatro di Reims (1773), alleggerendo l’ordine delle colonne giganti.
Con il suo teatro imolese dei Cavalieri Associati – malauguratamente distrutto nel volgere di pochi anni – Cosimo Morelli non realizza solo la proposta teorica degli illuministi di completare nella zona di palcoscenico il disegno ovoidale della pianta, integrando in unità strutturale e formale il palcoscenico, ma accoglie e rielabora con grande originalità l’invito di Francesco Algarotti di guardare al neopalladianesimo inglese.
Il boccascena tripartito di questo teatro affonda le proprie radici in un masque di Inigo Jones, il quale a sua volta attinge all’architettura dell’antica cavalleria britannica. Il Morelli, comunque, si rivela particolarmente attento alle esigenze dei diversi generi spettacolari: la soluzione delle tre ampie arcate con relativi sfondi prospettici fa sì che le scene circondino uno spazio agibile con la visibilità e l’acustica di un proscenio aggettante.
I centri dello spettacolo e delle feste
Nel Settecento a Napoli il fenomeno festivo – altrove in pieno declino, come a Firenze e nelle corti padane – riceve un ulteriore impulso con l’avvento dei Borbone al trono delle Due Sicilie, i quali enfatizzano le diverse occasioni celebrative a scopo demagogico, ricavando pretesti anche dal calendario liturgico.
Dopo l’insediamento di Carlo III, figlio di Filippo V di Spagna, nel 1734 prendono consistenza la parata militare e la fiera, mentre si assiste al definitivo tramonto dei giochi circensi e dei tornei di tipo medievale.
Fra i maggiori protagonisti nella storia degli apparati napoletani ricordiamo Ferdinando Fuga e Ferdinando Sanfelice. Proprio a Fuga si può far risalire la crisi del linguaggio barocco nelle feste napoletane, nonostante la sua assidua frequentazione del genere anche a Roma. Il Sanfelice invece risulta molto più disinvolto nel trasferire le proprie ardite invenzioni architettoniche nelle costruzioni provvisorie: originalissima l’immensa costruzione a pianta ottagonale realizzata negli apparati per la Fiera del 1740, in occasione del primo parto della regina Maria Amalia. Per la nascita dell’infante Filippo (1747), il compito di allestire sale e spettacoli durante i festeggiamenti viene affidato a Vincenzo Re, presente a Napoli col suo maestro Pietro Righini dal 1737. E dopo la partenza del maestro, la scenografia di Vincenzo Re si caratterizza come equivalente visivo del testo.
Anche a Roma, anacronisticamente e diversamente da altri centri italiani, non diminuisce la vitalità dei grandi apparati festivi e questo sia per la grande importanza simbolica del papato, sia per la densità di ambasciate straniere e per il maggior conservatorismo connesso al governo pontificio. Contrariamente a quanto avviene in ambito teatrale, dove gli scenografi – talvolta illustri – provengono spesso da altre città (Francesco Bibiena, Alessandro Mauro, Pietro Gonzaga, Francesco Fontanesi), per gli allestimenti pubblici vengono impiegati i maggiori artisti attivi a Roma (Fuga, Specchi, Valvassori, Marchionni, Salvi).
Durante il XVIII secolo la più tipica delle manifestazioni ricorrenti ogni anno nella capitale pontificia è la festa della Chinea, rituale di origine altomedievale che consiste nella consegna al papa da parte del gran conestabile, il principe Colonna, in rappresentanza del re delle Due Sicilie, di una somma di denaro e di una cavalla detta Chinea. L’intervento di architetti quali Valvassori e Specchi dimostra l’importanza di quelle che, per committenza, intenti e scelta del sito, possono essere paragonate a feste di corte.
A Bologna, soprattutto nella prima metà del secolo, il “magnifico apparato” creato da nobili e clero per le feste cittadine, usa il genio scenotecnico locale, l’abilità apparatrice, la raffinatezza cromatica, la versatilità pirotecnica di artisti e di artigiani le cui capacità e la cui opera sono famose in tutte le corti d’Europa. Piazza Maggiore è a Bologna il “teatro” per eccellenza, dove ogni anno per San Bartolomeo (24 agosto) si celebra la Festa della porchetta.
Questo “teatro della fiera” si modifica allora da luogo di divertimento per l’aristocrazia a spazio di spettacolo popolare e arena di combattimenti. Di origine medievale, con il Seicento la fiera si collega sempre di più alla Festa della porchetta, fino a subire tra l’inizio e la metà del XVIII secolo lo stesso destino di lento declino dell’oligarchia senatoria che, con il legato pontificio, governa Bologna; tuttavia, fra i nomi ricorrenti degli apparatori risultano anche quelli di Marco Antonio Chiarini, Carlo Antonio Buffagnotti e Alessandro Scarselli.