Teatro, teatri
A Venezia, luce, acqua e architettura concorrono a delineare uno scenario onirico. Non appena voci umane animano questi luoghi, subito par di assistere a una scena vera e propria all'aria aperta. Forse per questo, la città che ha inventato il teatro moderno nel mondo vede a poco a poco ridursi il numero dei suoi edifici specifici, preposti allo spettacolo, quasi che man mano che l'acqua avanza, si ritirino le ribalte. Sembra persino che Venezia e il teatro siano uniti da un comune destino di decadenza e di emarginazione. E sì che la città, storicamente, è stata all'avanguardia nel mondo dello spettacolo(1), la prima a disporre nell'Occidente moderno, fin dal Cinquecento, di edifici in muratura, di stabili pubblici gestiti da una spregiudicata classe aristocratica fortemente imprenditoriale (i Grimani, i Vendramin, ecc.). Costoro, attraverso feste sfarzose, giochi popolari, antiche "momarie", giostre, tauromachie, tornei cavallereschi, entrées per nozze e visite regali, nelle piazze, nei campi, nei bacini acquatici dove l'intera popolazione era invitata a esprimere consenso, utilizzano i nuovi generi della teatralità al chiuso e contigui alla nascita della professionalità, si pensi al melodramma, quale fonte di prestigio e valorizzazione d'immagine per se stessi. E, nel prosieguo del tempo, la proliferazione competitiva di sale piccole si mimetizza nel tessuto urbano senza uno stacco tra case e teatri, senza facciate che rivendichino un vuoto attorno (sarà la Fenice, nel 1792, nel tempo della monumentalità classica a ottenere tale segno distintivo, in pratica a simboleggiare l'involuzione di tale fisiologica compenetrazione). E nondimeno, l'accumulo di scene richiede la specializzazione interna delle proposte, in quanto compagnie, repertori, modelli drammaturgici, poetiche recitative tendono a fissarsi, a identificarsi in generi determinati(2), per conquistarsi una audience nella febbrile concorrenza, tra polemiche riverberate dai caffè ai ridotti, dai palchi alle gazzette.
Colla fine della Repubblica, il passaggio all'Austria(3) e poi al nuovo Stato italiano determina metamorfosi nella mappa dei contenitori, svolte direzionali e amministrative di grande portata. I teatri infatti si trasferiscono, per quanto concerne la proprietà, dai nobili ai borghesi. I primi vengono rimpiazzati dai Comploy e dai Gallo, i quali intendono sfruttare, in una piazza che s'avvia a essere secondaria, filoni di presa immediatamente popolare, mentre il mecenatismo cede il posto all'impresariato minuto. Spuntano fuori allora nuovi usi e il medesimo spazio vede pertanto susseguirsi, lungo gli anni, mansioni spesso irriconoscibili e snaturanti. Ecco il S. Moisè che si trasforma in un'officina, oltre a ospitare marionette, ecco il Novissimo che si apre ai cavalli e poi diviene un saponificio, o il Samuele che si dissolve nell'attuale scu ola elementare. Per altri, più fortunati e duraturi, c'è il cinematografo che si alterna colla lirica, l'operetta e altri prodotti musicali. E in effetti, i due massimi teatri del melodramma, il Giovanni Grisostomo, oggi Malibran, e il S. Benedetto, oggi Rossini, nominati così nel 1800 inseguendo miti operistici, confermano che i templi della drammaturgia in musica, non basati cioè sulla parola, hanno trovato una continuità quasi fisiologica nell'arte che nel Novecento si è contrapposta alla prosa in un atteggiamento di fuga dal mondo e di seduzione fantasmatica, ossia il film. E il cinema rimanda alle sue umili origini, alla fiera dei casotti, dalle baracche che mescolano maschere di cera e scatole ottiche, e dai padiglioni fotografici, ai "panorami" installati dagli ambulanti, tra circhi e giostre, in riva degli Schiavoni sul finire dell'Ottocento e alle prime sale stanziali(4). Molteplicità di sale, in ogni caso, ancora a lungo. Controlliamo l'indice degli spettacoli sulla "Gazzetta di Venezia" nel primo dopoguerra. Il dicembre del '18 vede aperte e funzionanti sale piccole e medie dove cinema(5) e intrattenimento per i piccoli (c'è un pubblico infantile ancora consistente in città!) si contendono il primato(6). Quindici anni dopo, la pianificazione accorta del regime promuove ulteriori spazi in favore dell'animazione teatrale(7). E intanto Rossini(8) e Malibran(9) mescolano e confondono l'offerta, perché un mercato tumultuoso non può permettersi la grammatica dei generi, in cui la prosa rischia ormai di passare per Cenerentola(10).
Ma è il Goldoni, il salotto teatrale di Venezia, il più resistente a preservare un'idea di luogo della prosa(11). Cosa abbia rappresentato, ancora tra le due guerre, nel tempo di Zago prima, e di Giachetti poi, ne parla argutamente Micheluzzi, là dove rievoca i cerimoniali attorno alla recita, la teatralità fuori dalla rappresentazione. Si cominciava col fatidico "Chi no ga palchi e scagni torna indrio" e si proseguiva la mattina sotto le finestre della star allorché, tra suoni di trombe che riunivano gente e ragazzini da strada, il banditore inneggiava all'interprete in questi termini: "Evviva all'impareggiabile merito dell'artista [e qui il nome] che geri de sera al teatro Goldoni ga fato sbrego, meritandose un saco de aplausi. Evviva! Evviva! Sighé, fioi de cani de putei, se volé che i ne buta zò i schei"(12). Si legga sempre la "Gazzetta" nel primo dopoguerra, e si può in effetti ricostruire una serie di serate trionfali, grazie al numero delle chiamate e dei battimani. Così avviene per i festeggiamenti ai cinquant'anni di carriera a Zago il 3 marzo del '21, o per il ritorno a teatro della Duse il 17 marzo del '22 con La donna del mare, dove la voce magnetica dalle arcane risonanze e lo sguardo rapinoso di una donna malata tornata alla ribalta dopo la fuga ultradecennale, dal 1909 al 1921, incantano la sala e il cronista, che pure conserva un residuo di lucidità per denunciare l'esosità delle 7 lire d'ingresso. Dietro l'enfasi agiografica del racconto, si intuisce una festa autentica, indizio di un sistema ancora teatrocentrico, con folle fuori e dentro, loggioni stipati, resse, e un amore competente verso l'offerta del palcoscenico. E anche la serie delle prime assolute risulta consistente, sia pure in flessione già nel primo dopoguerra, e annovera date importanti. Nel 1909, del resto, l'anno del restauro e dell'edificazione della facciata collo slargo sulla strada davanti, in una rilevazione sugli incassi per la prosa, il teatro figura al terzo posto in Italia. Qui debutta Come prima, meglio di prima di Pirandello il 24 febbraio del '20 colla compagnia di Ernesto Ferrero, qui ancora Febbre di Rosso di San Secondo nel maggio del '26, Frana allo scalo nord di Betti il 28 novembre del '36, compagnia di Kiki Palmer, imbarazzante per vicende relative a morti bianche nel lavoro, per cui non mancano contrasti in sala, come annota il cronista. Spesso dopo le prime assolute altrove, la compagnia si sposta in laguna per collaudi e riassestamenti(13). Le ditte primarie soggiornano a lungo al Goldoni coi loro repertori articolatissimi, ed è la presenza del suggeritore e la disinvoltura negli allestimenti e nella sommarietà scenografica a permettere tanta ricchezza di copioni, funzionali alla strategia di riconoscimento e di rafforzamento divistico delle stars. Così Emma Gramatica, patetica e dolorista(14), così la ditta Palmarini-Capodaglio, quest'ultima invidiata per la partnership successiva col fascinoso Moissi(15). L'istriano Antonio Gandusio, irresistibile nelle sue progressioni grottesche, e le sue pochades un po' disinibite, abitualmente vi soggiorna per quasi un mese, magari in coabitazione colla frizzante Dina Galli, mentre a sua volta Armando Falconi spopola nel genere brillante(16). Ruggeri vi porta i suoi filosofi loici e disincantati, magari doppiato da Ricci(17), e Alessandro Ninchi torna spesso coi suoi personaggi tonitruanti(18). Al Goldoni sfavillano altresì la malizia di Elsa Merlini(19), o l'esotismo malioso dell'ucraina Tat'jana Pavlova, dalla pronuncia spesso enigmatica, coi suoi caratteri slavi e orientali(20). Timida entra al Goldoni nei primi tempi anche Marta Abba, nel faticoso decollo di Pirandello(21). Qui piace molto in compenso la ditta Almirante-Tofano-Rissone(22), qui Ermete Zacconi annuncia il ritiro il 7 febbraio del '31(23). Mentre precipita la guerra, si puntellano formazioni vecchie(24), si ripristinano altresì gerarchie, si restaurano carismi(25) e si spostano i copioni da una ditta all'altra. Per continuare a spadroneggiare, infatti, i divi del teatro occupano repertori altrui, sembrano approfittare quasi del disordine e della grande paura nel paese.
Salotto della città, dunque, con frequenti concerti di musica classica, integrativi della Fenice, salotto polmone storico e specchio che riflette traumi, euforie e distrazioni della vita cittadina. Questo a partire dal '18, a guerra appena finita. Il 4 dicembre dello stesso anno, ecco la compagnia Gualtieri-Tumiati sostituire il Cyrano di Rostand, per il semplice fatto che non sono arrivati i bagagli, con la più economica o attrezzata Cena delle beffe di Benelli. E nel '19, Zacconi risfodera quali celebrazioni patriottiche il proprio repertorio risorgimentale, a firma di Domenico Tumiati, il 2 luglio Il tessitore, inneggiante a Cavour, e il 19 Garibaldi. Mentre una bomba scoppia al Teatro Diana milanese il 22 marzo '21, Talli inscena Una donna debole di Jacques Deval, in un clima da pretelefoni bianchi. Si accendono anche serate futuriste dal dicembre '21 al febbraio '22, in una babele di goliardate, sconcerti e caos carnevalesco tra palcoscenico e politica romana, per ripresentarsi attenuate il 1° giugno del '31 con sedici Sintesi futuriste di Marinetti(26). A volte spunta pure qualche tentativo di rendersi organici alla propaganda, da parte delle ditte venete. Così, il 25 novembre del '33 Terra nostra di Arturo Rossato, propaganda della bonifica delle paludi pontine, mostra la conversione in scena del contadino Gigio Moran, prima restìo a trasferirsi a Littoria, davanti alla voce del duce portata dagli altoparlanti. E il mite Cavalieri, interprete di Gigio Moran, il 1° marzo del '39 rende omaggio ne L'aria di Roma di Nino Cortesan(27) alle virtù fecondanti della città eterna, perché una coppia quasi in menopausa concepisce una coppia di gemelli (saranno chiamati Romolo e Remo). Più coreografiche e autentiche forse, le Piccole Italiane dal 6 giugno del '40, a cura della G.I.L. (Gioventù Italiana del Littorio) gruppo di S. Marco, dan vita a Cenerentole e pantomime fiabesche, ovviamente precedute dall'inno reale e da Giovinezza, fra vivi applausi come riporta la "Gazzetta" il 7 giugno. In questo caso, una cinquantina di bambine e bambini in costume da donne, cavalieri, araldi e paggi, volteggiano tra quadri plastici quali il valzer delle rose, l'apoteosi, e la serenata dei paggi. Ma se controlliamo i titoli del '40, nell'atmosfera stranita che precede la nostra fatale e tragica entrata in guerra, ecco scorrere le commedie poliziesche a spargere nella sala del Goldoni tensioni e voglia di soluzioni ottimiste(28). E in barba alle esclusioni anglosassoni imposte dal regime di guerra, ecco il bragagliano Teatro delle Arti portare O'Neill, Sherwood, Anderson, oltre che Salacrou e Dostoievskij nell'aprile del '40, seguiti a ruota dalla Besozzi-Ferrati con Sherwood e Maugham. Più consona ancora, forse, la compagnia Merlini-Cialente che vara con successo dal 13 al 15 dicembre del '40 Piccola città di Wilder, dopo le repliche tribolatissime di Milano, coi morti richiamati in scena, clima ancor più spettrale di quello che si respirava in sala l'8 febbraio, allorché la ditta Benassi-Carli allestisce gli ormai disinnescati Spettri ibseniani. E poi una decina di partigiani della Brigata Garibaldi, il 12 marzo del '45, interrompono Vestire gli ignudi di Pirandello, confusi all'inizio dagli spettatori coi mutamenti vertiginosi di scena che il testo prevedeva. E tre mascherati, impadronitisi del palcoscenico, immobilizzano gli interpreti man mano che escono dietro le quinte a sincerarsi dei rumori sospetti, mentre la severa Elena Zareschi sviene. Si lanciano slogans e volantini che annunciano l'imminente liberazione dal nemico nazifascista davanti a una sala nemica(29). Singolare anticipazione rispetto al calco artistico, ma in versione risorgimentale, che di quell'episodio nove anni dopo farà la scena immaginata del viscontiano Senso nel '54. Ma questi titoli alludono pur sempre alla contemporaneità della sala, motivati direttamente o indirettamente rispetto agli umori del pubblico(30). Poi, all'improvviso il salotto chiude i battenti per motivi di sicurezza il 15 giugno del '47, entrando in un lungo sciopero trentennale. Ed è proprio la radio che si insinua profetica per il cambio di leadership nell'ultimo spettacolo prima della revoca dell'agibilità(31). Venezia resta di fatto senza teatro professionale, disponendo soltanto della sala del Ridotto(32) di calle Vallaresso, tra ricorrenti tentativi di piantarvi semistabili (con auspicate sovvenzioni sia ministeriali che municipali) di breve respiro, anche se lanciati da illustri personalità(33).
Il Goldoni viene alla fine riaperto solo il 19 aprile del '79 con una cupa Locandiera, regia di Cobelli, quasi presaga del mutato contesto. Ormai teatro comunale(34), questo rinnovato Goldoni si incrocia col fallimento nel 1994 del Veneto Teatro(35), l'organismo complesso e ambizioso, strutturato in collaborazione colla Regione, allo scopo di rilanciare in particolare il repertorio veneto. Ma il salotto ormai non è più al centro della città, segno di una crisi molto più articolata e non limitata ovviamente al circuito teatrale. Il numero e la qualità degli abbonati seguono la curva degli abitanti, ridotti a poco oltre i cinquantamila per il centro storico, e l'invecchiamento anagrafico(36) degli stessi. Stagioni povere, con una quindicina di titoli in cartellone, con meno di cento giorni di spettacolo in un anno, mentre tra il 1900 e il 1930 la sala restava aperta almeno trecento sere all'anno. Pubblico anziano, dunque, conservativo nei gusti, freddo e infreddolito. Per cui i colpi di tosse scandiscono di solito la rappresentazione e scavano uno iato profondo tra interpreti e palcoscenico. Intanto, il fuoco che distrugge la Fenice il 29 gennaio del 1996 suggella ulteriormente tale situazione.
In cambio, la scena del Ventennio porta a Venezia l'idea e la pratica ossessiva di un cosmopolitismo cultural-mondano, e insieme di uno sperimentalismo scenico internazionale quasi a compensare tale progressivo vuoto teatrale. Ultima delle quattro sezioni maggiori, dopo quella delle arti(37), la Biennale teatro inizia la sua avventura estiva nel 1934. Le strategie dichiarate comprendono la rappresentazione di classici stranieri, la costituzione ufficiale di titoli goldoniani, e la valorizzazione di commediografi italiani emergenti, attraverso concorsi e debutti assoluti anche di autori stranieri contemporanei(38). E, del resto, si incomincia a sfruttare l'aperto, a drizzare transenne e gradinate provvisorie prima, durante e dopo il Ventennio fascista, ed è l'opera lirica spesso il repertorio privilegiato per tali escursioni(39). Pertanto, la Biennale della prosa si colloca nell'ambito di iniziative quali l'Istituto del dramma antico a Siracusa nel 1929, il Maggio fiorentino nel '33, e l'Ente autonomo dell'arena di Verona nel '34, dove il comune plein air permette un'insolita eterogeneità dell'offerta ideologica, dalla grecità-romanità classica o dal Risorgimento operistico all'universalità dei valori culturali espressi nel teatro di tutti i tempi(40). Ma il clima veneziano, appunto, è particolarmente mondano, tra i circoli economici attorno al conte Volpi, ministro delle Finanze di Mussolini nel '26, nel clima di reinvenzione industriale con Porto Marghera e il ponte automobilistico del Littorio nel '33, e i cenacoli artistici che affollano le varie messinscene(41). Tra il 7 e il 28 luglio del '34 si realizza allora il programma della manifestazione. Nella corte dietro il teatro a S. Luca, ecco La bottega del caffè, regia di Gino Rocca, consulenza di Varagnolo e interpretazione di Raffaele Viviani, nella parte del napoletano don Marzio, saccente e pettegolo. La scelta della commedia specifica rimanda specularmente alla sua collocazione nel campo e viceversa, sorta di metafora intorno alla socialità del teatro veneziano settecentesco e del suo programmatico rilancio(42). In campo S. Trovaso, risistemato dall'architetto veneziano Duilio Torres, un grande regista tedesco, ebreo, Max Reinhardt, colla collaborazione di Guido Salvini, i commenti musicali di Victor De Sabata, la traduzione di Paola Ojetti e i costumi di Titina Rota, mette in scena Il mercante di Venezia, rivalutato nelle sue ragioni di emarginato, con Memo Benassi nel ruolo del protagonista tra registri patetici(43). E poi nel '36 Simoni, rovesciando la gerarchia adottata dai due episodi precedenti in cui erano stati impiegati attori nazionali, confinando quelli veneti solo nelle parti di contorno, rassembla questi ultimi(44) per Il ventaglio goldoniano nel campo di S. Zaccaria, per Le baruffe chiozzotte in campo S. Cosmo alla Giudecca, così come nel '37 per Il Bugiardo ancora a S. Trovaso, e per Il Campiello alla Bragora. Si saggiano insomma nuovi spazi per repertori classici o si azzardano repertori, specie goldoniani, minori(45). Ma nelle occasioni trasognanti ed eccezionali, fuori dalle sale e dalla quotidianità, il teatro comincia a coniugarsi in termini eccezionali, a configurarsi quale festa insolita, cerimonia onirica. Di fatto, con cadenza annuale quasi sempre rispettata, e per lo più in autunno, Venezia diviene vetrina del meglio che offre il palcoscenico cosmopolita, con un aggiornamento esplicito delle tendenze più significative della ribalta internazionale. Abile ed ecumenico nella direzione dal '49 al '62 della Biennale teatro, Adolfo Zajotti, fratello del critico Alberto, accentua l'impronta cosmopolita della Biennale, puntando al rientro nei teatri, anche per le resistenze del vicinato, stanco dei rumori e dei movimenti condizionati durante le prove. Venezia può così ospitare i registi più rappresentativi nel dopoguerra, quasi a recuperare il ritardo della scena nazionale rispetto ai palcoscenici europei in tale ambito. Nell'inventario(46) effettuato nel '64, in occasione del trentennio, si calcolano 23 opere goldoniane provenienti da 17 paesi, 36 classici e 33 contemporanei e 7 classici italiani, 26 contemporanei italiani, di cui 18 novità assolute(47). Durante la gestione di Wladimiro Dorigo, che nel '62 succede ad Adolfo Zajotti, si dà spazio ai gruppi, all'animazione nella sezione ragazzi, alla pratica del decentramento nella cintura operaia, mentre nelle successive di Luca Ronconi dal '74 al '77 e di Franco Quadri dal 1984 al 1986 si accentua la spinta sperimentale rovesciando la prudenza istituzionale della Biennale originaria(48). Ma quel che riporta il sogno del plein air nella sua radicalità è l'inizio della gestione di Maurizio Scaparro, dal 1980 reinventore della festa carnevalesca. Si tratta di valorizzare la rete dei campi, sprecati teatralmente per anni, e abbandonati a giostre e bancarelle. Stereotipi logori, in cui cadono anche grandi scrittori come Henry James(49), che vedono la piazza S. Marco quale un "immenso salotto all'aria aperta", vengono presi alla lettera. Lo spazio della piazza viene rimesso in rapporto energetico coll'interno delle sale, moltiplicate per miracolo, come il Malibran, e cogli altri campi minori. Tra piazza S. Marco, ponte dei Pugni, Arsenale, punta della Dogana, chiesa di S. Samuele, Magazzini del sale, campo S. Stefano, calle Larga, mercato di Rialto, ponte dell'Accademia, è una fitta rete di mansions che si rimette in moto. La scena viene ricollocata nella sua cornice gioiosa, si proietta e si dilata all'aperto, si dissemina e sciama in uno spirito bacchico tra maschere tripudianti, quasi il ritorno del rimosso per l'ordine pubblico, lo spettro delle contestazioni del '68 stavolta in forma pacifica(50). Ma reinserire il teatro nella festa rischia di far la festa al teatro. Quel che avviene puntualmente alla fine degli anni Ottanta. Nel 1988 il presidente Paolo Portoghesi chiama Carmelo Bene, forse poco adatto al ruolo di organizzatore-promotore del teatro altrui. E Bene programma una messinscena elisabettiana, il Tamerlano di Marlowe, stabilendone la circolazione su video-tapes vietati ai locali, e riservati a critici organici al proprio lavoro, ovvero un teatro senza spettacolo. Poi, il 3 febbraio del '90, l'attore si dimette. Si va verso la nomina di direttori internazionali(51), finché nel 1998 la Biennale nasce quale società di cultura, nell'interferenza di soggetti pubblici e privati, grazie a una svolta in senso privatistico e mecenatistico, al di là delle lungaggini burocratiche(52).
Ma il segno del riflusso, della restrizione della scena veneziana, si ha nella rarefazione progressiva della recensione teatrale nella pagina locale. La critica degli anni tra le due guerre parte, in genere, dal modello di Renato Simoni, l'opinion maker del palcoscenico italiano, pontefice massimo dalla testata del "Corriere della Sera". La parafrasi narrativa del testo occupa gran parte dell'intervento, per sfumare poi in una sommaria rassegna della serata dagli interpreti alla conta delle chiamate, vale a dire il termometro della sala. La già considerata assenza in palcoscenico, almeno sino agli anni Quaranta, della figura professionale del regista, emerso solo coll'Accademia creata da Silvio D'Amico nel '35, assegna quasi al critico tale ruolo, nel senso che costui riscrive il plot e delinea colla propria sensibilità i vari personaggi(53). Ebbene, lo sguardo del censore lagunare vigila sulla moderazione recitativa e drammaturgica della ribalta veneziana. Anche perché questi critici, dietro l'esempio sia di Simoni che di Palmieri, hanno mimetizzato, trascurato o sacrificato per il lavoro giornalistico, chi più chi meno, un'ambizione autorale. Linea che persiste nel passaggio dal veneziano Alberto Zajotti al padovano Alberto Bertolini, e dunque dalla centralità della "Gazzetta di Venezia"(54) a quella de "Il Gazzettino". Bertolini negli ultimi vent'anni della sua vita tiene appunto la critica teatrale e cinematografica, a suo tempo anche musicale, nel "Gazzettino"(55), ma si impegna altresì come romanziere agli inizi della carriera e come commediografo, con all'attivo vari testi dialettali e in lingua(56). Così, ne I notturni dato a Milano nel '59, mélo crepuscolare dedicato al tema del dopoguerra, si aggirano anime devastate dalle macerie, entro un clima alla Rosso di San Secondo e alla Buzzati. Certo, il copione si mostra gonfio di pathos e di tirades enfatiche contro la guerra. Ora, tali moduli si mostrano sfasati rispetto alla verve del critico, di solito graffiante e caustico, in una lingua spesso pretenziosa e aulica(57).
Atteggiamento conservativo, quello del critico professionista contiguo alla laguna, tutto dalla parte dell'autore contro l'attore, o dell'attore contro il regista, anche perché in Italia l'apparizione del metteur en scène comporta l'emarginazione dei commediografi contemporanei, a favore di classici e stranieri. Tanto più che, di solito, gli interpreti veneziani sono attori-capocomici, direttori artistici, di rado autori, mai registi. Il 29 gennaio del '32, tanto per citare un esempio, allorché Cavalieri porta al Goldoni il vecchio galliniano Mia fia, il recensore della "Gazzetta" il giorno dopo ne stigmatizza l'eccesso di soggetti. Di fatto si oscilla tra diffidenza contro il nuovo e mediazioni pazienti e bonarie. È il caso, questo, dello stile sfumato di Alberto Zajotti, di solito eufemistico e mai portato alla stroncatura(58). Zajotti, davanti al controverso Pirandello, agli inizi mal sopportato ovunque nel paese, quando si imbatte il 5 novembre del '26 in Due in una, ossia La Signora Morli una e due, si lascia andare nella "Gazzetta" del giorno dopo, dove si firma colle iniziali, a un appoggio quasi incondizionato e senza remore, anzi sostiene la protagonista essere "la più umana di quante siano" nel teatro pirandelliano, così come la sua vicenda "tra le più alte e le più pronte a commuovere la folla". E sottolinea il grande successo, anche per la valentia della Abba, specie per "quel suo modo di dare ad ogni frase un valore quasi prospettico per trovar l'efficacia in degradazioni di accento". E nondimeno, per un gioco di equilibri cui sembra votato il critico, eccolo sfumare entusiasmi davanti a Diana e la Tuda in cui ravvisa il 16 maggio '28 "qualche leggero segno di stanchezza". In compenso, spia di un'autonomia rispetto agli estri linguistici, sia pur ammantati da coperture ideologiche, ecco i suoi pur prudenti ma eloquenti distinguo dalle sintesi futuriste o da quel che restava di loro il 2 giugno del '31 in occasione di Simultanina di Marinetti, stavolta, al di là dei consueti educati eufemismi. Sembra scusarsi in quanto per la "gazzarra" innanzi alle porte del Goldoni e anche durante lo spettacolo non avrebbe potuto "entrare nello spirito delle sintesi marinettiane": all'aggressività del poeta risuonava tra i fischi la minaccia "Adesso, moro, te aspetemo fora". Ma in ogni caso ha capito come "la forma del lavoro è vecchia stantìa". Persino davanti alle smargiassate ideologiche della già citata Terra nostra di Rossato, sente il bisogno di prendere le distanze nella "Gazzetta" del 20 maggio del '34: sia pur tra scontati inni al "senso eroico e quasi religioso" del testo, "a quel senso di fraternità perfetta che lega sotto il segno del Littorio gli italiani di Benito Mussolini", ravvisa "un'espressione che a tratti può sembrare soverchiamente oratoria". Del resto anche Alberto Bertolini mostra moderazione e perplessità di fronte alla militanza ideologica di qualsiasi colore, come il Teatro del Popolo, e i già considerati spettacoli di Gori. Ne parla nella "Gazzetta Sera" del 6-7 luglio '46 per accennare al momento caratterizzato da un pubblico "stanco del cinismo di oggi", in cui la sala sembra condizionata dal "terrore che ha tanto travagliato la nostra generazione: generazione, appunto, di terrorizzati, di stanchi, di avviliti, di vinti". Ma certo, se i cronisti giravano un tempo l'Italia a inseguire prime, a poco a poco questo costume si modifica, seguendo la progressiva rarefazione dell'articolo teatrale nei quotidiani italiani, basti controllare lo spazio attuale occupato su "Il Gazzettino".
Ma la qualità specifica della scena veneziana consiste in effetti nella dissociazione tra vocazione cosmopolita, dove, magari grazie alla Biennale, sbarcano in laguna registi e sperimentazioni, e memoria nostalgica verso il passato dialettofono, verso l'epoca d'oro del Settecento, quasi un fronte, una trincea contrapposta al "foresto". Del resto, già nella seconda metà dell'Ottocento, nell'asse che dalla breve produzione del sindaco Selvatico porta al coevo e ben più fecondo Gallina, il dialetto sale sul palcoscenico circonfuso di malinconica tenerezza e insieme investito d'un ruolo difensivo contro le prevaricazioni linguistiche e culturali del nuovo Stato. Malinconia per un mondo che muore, un Ottocento vissuto quale doppio metaforico d'un Settecento che non c'era più, mentre la città vive un processo di emarginazione economica sotto la dominazione austriaca, proseguito dopo l'annessione nel 1866. Anche se, inevitabilmente, autori e ditte venete in giro per il paese arrotondano una lingua già di suo mediata, ossia intrisa di italianismi, per comunicare al di fuori del territorio regionale. Nondimeno, a fianco dell'Internazionale teatrale, subìta/promossa persino dal regime fascista, l'anima novecentesca indigena reagisce in modo affannoso, volgendo la testa indietro e recuperando il dialetto, quale vecchia bandiera da sventolare polemicamente contro l'egemonia tosco-romana. Gesto regressivo, spesso travestito in chiave rococò, ed è l'attore mattatore il terapeuta/sacerdote che illude una platea sempre più sciovinista e irritata contro le novità. E all'inizio, sono trionfi. Emilio Zago, quando per i suoi cinquant'anni di carriera viene festeggiato al Goldoni, tra sonetti bolognesi di Testoni e locali di Varagnolo(59), il 4 marzo del '21, e presenta con astuzia un'antologia dei personali cavalli di battaglia tra Sior Todero, La casa nova e Il curioso accidente, quando ancora nel '22 ridà La famegia del santolo per il venticinquesimo della morte dell'autore, e utilizza la vecchia formula della serata d'onore, è una star nazionale che riceve omaggi dalla Ristori, dalla Duse e da Ernesto Rossi, ed è sovraccarico di onorificenze, come il cavalierato dei SS. Maurizio e Lazzaro. Nel novembre del '18 operano ancora sulla piazza tre compagnie venete, entro le quattordici complessive dialettali sul territorio italiano(60). Il 29 febbraio del '16 è morto Ferruccio Benini, l'attore genovese venezianizzato per misteriosa affinità colle atmosfere malinconiche della laguna, a detta di molti critici il più lirico e allusivo del nostro palcoscenico a cavallo tra i due secoli. Tutte queste ditte non mettono in discussione, anzi rafforzano il capocomicato quale forma produttiva ottocentesca della scena. E capocomico connota la responsabilità e i poteri adeguati del primattore, del direttore, dell'impresario-proprietario. In più, i nuovi e più interessanti interpreti sono autodidatti, non escono cioè quasi mai da famiglie d'arte, e hanno altresì ricevuto una forte educazione musicale, vedi Giachetti e Baseggio. Giovani e borghesi, avviati cioè verso professioni non attorali: Micheluzzi, nel '20 capocomico, ha soli 33 anni, e Giachetti, capocomico dal '22, ne ha 34, Baseggio lo è nel '26, appena ventinovenne. In un certo senso, quel che avviene in termini anagrafici agli interpreti era successo agli autori nella generazione precedente, in quanto Selvatico irrompe a 26 anni coi suoi Recini da festa, e Gallina a 23 con Zente refada, e Simoni ne ha 27 al tempo della Vedova. Costante in loro, però, una cifra conservatrice, all'insegna del minimalismo allusivo, che li differenzia dal modello di Zago. Costui, piccolo e faunesco caratterista dal vocione allegro e dalla confortante pinguedine in tempi di carestie e di fami belliche, alto solo un metro e quaranta(61) per cui scritturarlo risultava oltremodo difficile agli impresari, porta per la prima volta in America latina una compagnia veneziana. Eccolo, il 22 agosto del '20, inviare una lettera gonfia di orgoglio alla "Gazzetta", in risposta a un'intervista rilasciata sul "Corriere" da Dario Niccodemi, in cui il raffinato regista della prima dei Sei personaggi rivendicava il diritto delle compagnie primarie italiane di allestire un classico come Goldoni. Al che l'attore veneziano ribatte che "per quanta facilità abbia poi il comico italiano ai dialetti, specie per il nostro, pure se non si è un prodotto 'di laguna' non si ha certo quella spontaneità, quella spigliatezza di dire che richiede Goldoni, dove basta un inciso, un accento sbagliato per provocare l'ilarità generale". Per lui, stare in scena è un fatto di osservazione e di naturalezza, in chiave antintellettualistica e antiscuola: "Ho recitato cercando di non recitare"(62), a favore della "spontaneità". Lo si ascolti ancora, intervistato il 4 marzo del '21 dal cronista della "Gazzetta", dove si vanta di non aver specializzato se stesso in una parte determinata, in quanto ha rifiutato la "stupidaggine dei ruoli assoluti" preferendo passare da un carattere all'altro. Altra grande festa per lui, e sempre al Goldoni, più che mai salotto della città, il 7 luglio del '29, col discorso di Simoni, il dono di un album con migliaia e migliaia di firme di concittadini e ammiratori riconoscenti, mentre si scopre financo il busto di marmo in vita, con deroga a firma di Mussolini alla legge che vieta monumenti ai viventi, festa che fa di quest'attore minuscolo un'anticipazione sul protagonista pirandelliano di Quando si è qualcuno. Ma Zago vi partecipa, come uno spettro piangente, colpito dalla paralisi cerebrale che lo spegnerà pochi mesi dopo, il 18 novembre dello stesso anno. E questa morte, in una Venezia gelida, fa rizzare in piedi tutto il Goldoni all'annuncio del suo decesso dato da Annibale Betrone, in quel momento sulla scena. E cronisti elaborano il lutto mescolando agiografia a un senso compiaciuto di apocalisse, descrivendo il piccolo corpo in coma, devastato da nefrite e diabete. Ora, quali i ruoli prediletti dall'attore, nelle proprie memorie(63)? Figurano, oltre a quelli ovviamente goldoniani, come Todero e Lunardo, in quanto è il rilancio di Goldoni in Italia l'opera precipua di Zago, nel tempo della pochade e del melodramma(64), anche Bepi Canal di In pretura di Giuseppe Ottolenghi, il vecchio dell'ospedaletto ne I oci del cuor galliniano, Momolo Paneti detto Brisiola nel Moroso de la nona, Pasqual ne I recini da festa, ossia tutti macchiette e vecchierelli. Pur in un'altra misura, smorzata da una mestizia sobria e priva di vitalità fisiologica, è questo il timbro recitativo degli altri, dei nuovi.
Anche Gianfranco Giachetti, fiorentino venezianizzato, laurea in Legge, pianista diplomato, organista altresì nelle chiese lagunari, talento pittorico spesso supportato dal fratello Enrico musicista, alto e fragile, entrato in arte nel '14, tende a specializzarsi nel ruolo del vecchio, in ritratti di caricature affettuose e nevrotiche, in sublimi goffaggini, e quasi si fissa interprete di ubbie senili, metafora di una scena che si riconosce in una platea vecchia, cui offre disagi e malinconie, dubbi e angosce. Lo si guardi nelle foto d'epoca, la calvizie dilagante, il volto sconciato a icona quasi yiddish nei personaggi sospesi tra deformazione grottesca e dolorismo esibito con rabbia stizzita e scomposta, capelli e barbetta sudati e scomposti, gli occhi strabuzzati e dilatati nella tentazione della follia, vedi il Momi Tamberlan nella combriccola disagiata de Se no i xe mati, no li volemo di Gino Rocca, o il maestro Buganza travolto dal miraggio del successo in Nina, no far la stupida!, quasi una pointe espressionista trasferita in laguna e mimetizzata tra le nuances misurate del bozzetto(65). E l'attitudine di Giachetti a invecchiarsi, appena gli si offre l'estro, si incrocia colla complementare felicità degli scrittori veneti e vicini a tratteggiare ritratti di vecchi, all'insegna d'una senectus ora pruriginosa ora crepuscolare. Insomma qualcosa che aveva trovato nella contigua pagina sveviana una trasparente messa a fuoco. E già prima ritroviamo tale predisposizione di giovani a mascherarsi da vecchi, se si opera un vertiginoso salto all'indietro, grazie agli interpreti goldoniani specializzati nella parte di Pantalone, vedi Cesare D'Arbes e Francesco Golinetti, o alle memorie letterarie del Nievo patavino.
Nel 1936, alla morte di Giachetti, a soli 48 anni (ma per la malattia ora il suo corpo è davvero irriconoscibile rispetto all'anagrafe!) si accentua il lutto simbolico. La "Gazzetta" del 1° dicembre del 1936 parla di commossi e solenni omaggi alla salma, onorata dai più grandi attori a Roma, dov'è esposta, dai De Filippo a Ruggeri, ai "molti artisti dello schermo" per il trasporto al Verano. È il veneziano Cesco Baseggio, allora, figlio di un violinista e di una cantante lirica, a sua volta violinista e ferroviere mancato(66), a prenderne lo scettro, in una cinquantennale carriera di brillante e generoso interprete, allenato anche grazie a costeggiamenti nell'avanspettacolo (nel '22 lavora con Macario). L'alto portamento, la robustezza autorevole, le spalle larghe, gli occhi luminosi, la squillante voce tenorile(67) assicurano ai suoi Pantaloni assennati e bonari, al Paron Fortunato nelle Baruffe chiozzotte, al Gasparo in Chi la fa l'aspetta, a Sior Boldo nelle Donne gelose, al Cristoforo nella Casa Nova, persino al Todero brontolon, ovvero la consueta galleria di vecchi, l'attitudine rassicurante di un rustego Babbo Natale per una platea riconoscente e commossa. Il che si produce anche quando nel '49 rilancia il Bilora di Ruzante, già nel '27 fallito da parte di un Giachetti sottotono, e manifesta una simpatia verso il rustico reduce sospetto a sguardi patrioti(68), o allorché, sempre nel '27, incarna trentenne la versione veneziana del Merchant shakespeariano(69). Ma Baseggio rivendica altresì personali istanze drammaturgiche, il che lo rende più restio alle novità altrui(70). In confronto a Giachetti, da cui spesso eredita repertori, ostenta grinta e plasticità felina. In lui il Momi Tamberlan di Rocca, ad esempio, presenta "un non so che di scultoreo e di superbo, di spagnolesco e spavaldo", mentre l'altro era "chiuso e dispettoso"(71). In più, la vocazione nazionale si conferma nel suo assimilare in compagnia interpreti extraregionali(72), entro un processo ascendente verso i copioni in lingua, doppiati pure dalle frequenti escursioni filmiche(73). La sua parabola si chiude in un dispettoso isolamento, in un soliloquio che sancisce la fine di una stagione professionale ed etnica(74), ma fa in tempo, attraverso fortunate registrazioni televisive negli anni Sessanta, fatte poi circolare in videocassette, a lasciare una traccia d'affetto e di pregiudizio conservativo presso il pubblico orfano della sua presenza. Una variante più ironicamente dimessa si ha nel vicentino Gino Cavalieri(75), maestro elementare, presto risucchiato dalla ribalta. Costui affida soprattutto alla voce nasale e acuta una frizzante comicità, nervosa e testarda, un gusto per un macchiettismo sapido, per il taglio farsesco non privo di considerevoli capacità di osservazione. Scalpitante e portato all'improvvisazione, non esita a calarsi, nel Ventennio, in personaggi dalla timida ideologizzazione, come nei già incontrati Terra nostra e L'aria di Roma. Aitante e pacioso, invece, dal fisico cioè ben adatto al ruolo di primo attore, e con una spiccata predilezione per il ruolo del galantuomo, o di padre nobile, come spesso il cinema gli richiede(76), Carlo Micheluzzi si colloca, a suo dire, nella schiera degli attori italiani non "propriamente dialettali"(77), in quanto di illustri prosapie(78), padre di Tonino, poi rubato dalla rivista e dal varietà televisivo. Fin dal '16 già capocomico in ditta insieme collo zio Armando Borisi, presto sorretto dalla moglie, la milanese Margherita Seglin, maturata alla corte di Benini, è tra tutti gli interpreti veneti novecenteschi non il più talentuoso, ma certo il più regolare, il più moralista, il più orgoglioso, fiero del proprio mestiere(79). È lui a tenere a battesimo l'ultima generazione dialettale veneta, da Palmieri a Duse, da Wulten a Bertolini, anche se in un clima che sa ormai di smobilitazione e ripiego.
Tra questi quattro protagonisti, di continuo, si assiste a un gioco dei quattro cantoni, per aggregazioni e abbandoni reciproci. Dalla fine della Grande guerra agli anni Cinquanta, è tutto un formarsi, infatti, e uno sciogliersi di ditte d'arte, con cadenza anche annuale, non più triennale che meglio avrebbe garantito maturazioni e amalgami, in una ricerca affannosa di nuove sigle a scandire svolte produttive e contrattuali. Ad esempio, nel '28 sempre Giachetti fa compagnia con Cavalieri e Micheluzzi, ma quest'ultimo si associa subito dopo a Baseggio e a Cavalieri, approfittando del fatto che Giachetti è precettato per un po' dalla celluloide. Tanto più che, nel Ventennio, la tenuta e per certi versi persino l'espansione delle ditte dialettali convivono colle direttive antiregionalistiche del regime(80), a partire almeno dal 1932. Anche se ben consapevoli che l'unificazione comporta debolezza e crisi nell'offerta, Giachetti, Micheluzzi, Baseggio formano nel '36 la Compagnia del Teatro di Venezia, sotto l'egida dell'Ispettorato del teatro(81), col medesimo spirito che unisce la coeva troupe umoristica dei fratelli De Filippo. E, d'altra parte, costanti i rapporti tra le venete e le altre compagnie dialettali, per le traduzioni interregionali dei copioni vernacoli, altra forma di difesa organizzata dalle minoranze contro la colonizzazione del centro(82). Questa interdialettalità può inserirsi anche dentro un singolo play oppure può agganciare un copione a un altro. Nel primo caso, si moltiplicano i segni del metecismo, dal bilinguismo tra veneziano/veneto e italiano (coi consueti fenomeni di ipercorrettismo, spiazzamento e contraffazione parodica) al plurilinguismo caotico, costante nella tradizione cinquecentesca di Ruzante e Calmo e poi nella commedia dell'arte. Nel secondo, le frequenti traduzioni-travasi, anche da lingue extranazionali, come il francese, per lo più, specie la pochade, coi vari Hennequin, Sardou e sodali. E non si dimentichi l'effetto trainante operato dai successi galliniani di Benini su svolte dialettali delle drammaturgie geograficamente compromesse, come testimonia Alfredo Testoni(83). E s'è già citata la hybris con cui Baseggio porta in scena il Merchant in dialetto, a dimostrazione della ricchezza della lingua veneziana, in grado di reggere simili tentativi. In fondo non siamo molto lontani dalle recenti ruminazioni di Meneghello che ipotizza la duttilità del dialetto più cantilenante e infantile, anche nelle varianti localistiche, tipo Malo, per sostenere la complessità metaforica e la ricchezza semantica del suono nel verso elisabettiano o in quello romantico inglese(84). E in tal senso, anche se meno provocatorio, la traduzione del goldoniano L'avare fastueux ad opera di Bertolini e Micheluzzi che l'attore porta ad Asolo il 27 giugno del '54 per il trentennale della morte della Duse(85). Costante anche l'ospitalità dei teatri cittadini, specie il Goldoni, nei riguardi delle migliori compagnie non in lingua(86). Dai dati S.I.A.E. (Società Italiana degli Autori ed Editori) del '38, del resto, emerge comunque il calo impressionante negli incassi delle dette compagnie, frutto di una politica accentuatamente persecutoria, da parte delle istituzioni preposte all'erogazione di sovvenzioni e prebende favorevoli alla scena in lingua, specie se autarchica, per cui la curva verso il basso delle compagnie venete inizia ora ad accelerare. E purtuttavia il fascismo tende a sottovalutare il frondismo dei copioni comico-dialettali, quasi variante regionalistica dei generi esotico-ungheresi o dei telefoni bianchi(87). Nel '57, vent'anni dopo, in coincidenza con i festeggiamenti per i 250 anni della nascita di Goldoni, eccoli dunque insieme, di nuovo, e al Ridotto, Baseggio, Micheluzzi e stavolta Cavalieri, per la Compagnia Goldoniana, in uno straordinario incrocio di talenti, di colori, di toni, di ritmi, di autentiche vecchiaie, ora magari ringiovanite per ragioni di casting. Eppure, la scena veneta, nelle punte maschili, non femminili, a conferma del suo carattere patriarcale-conservativo, non dispone di eredi, incapace, in virtù e per colpa della propria miracolosa naturalezza, di teorizzarsi, o di dare almeno un metodo organico ai propri modelli. Questi attori che caratterizzano cinquant'anni indubbi di successi non lasciano progenie di sangue e di scuola(88). Chi viene subito dopo risulta al massimo caratterista, non primo attore. Quelli che contano, quelli che possono, fuggono dalla città verso altri lidi, altri repertori, dall'Arlecchino nella cui maschera si immobilizza per lustri, imprigionato dal mago Strehler, il veneziano Marcello Moretti, morto anzitempo nel '61, alla soubrette spigliata e maliosa Lauretta Masiero, da Bruno Zanin, prescelto da Fellini per il suo Amarcord nel '74, a Edy Angelillo attrice teatrale brillante e star di recenti serials sul piccolo schermo, da Lino Toffolo cabarettista in vernacolo muranese a Mara Venier presentatrice televisiva. Ma questi interpreti si mostrano ormai in piena diaspora, spiazzati rispetto a qualsiasi progetto di riunificazione, e semmai utilizzati quali cifra eccentrica per l'accento veneto. In compenso, nelle produzioni goldoniane delle grandi regie nazionali, da Cobelli a Castri, da Missiroli a Ronconi, spesso non si trovano più adeguati interpreti per i ruoli dialettali.
Nei primi anni del dopoguerra, gli affari per le ditte venete, escluso Zago, non marciano poi così bene. Abbiamo già ascoltato Micheluzzi lamentarsi per lo strapotere a Venezia delle primarie rispetto alle formazioni dialettali. Ai nostri interpreti geniali vanno per adesso solo le lodi della critica non il favore del pubblico. Ebbene, sarà la cantabilità di Nina, no far la stupida!, dove recitano Giachetti e Cavalieri, Polacco e Mandich, a contribuire al balzo in avanti di tali compagnie, e a far circolare nei teatri italiani il suono veneto. Ma la via che riporta il dialetto sotto le luci della ribalta è lastricata di ostacoli, resistenze ed equivoci. Quanto alla drammaturgia, non esiste in effetti una sola scena dialettale, quanto piuttosto un'articolazione di geografie, nella scansione tra Venezia e provincia, per aree sociali, nei conflitti retorici tra aristocrazia, ripresentata spesso quale classe simbolica in un clima quasi cechoviano, borghesia rampante e servitù fedele o meschinella, di epoche e registri. Tra il '28, allorché lo studioso Emilio Lovarini scopre alla Biblioteca Marciana lo straordinario copione originale de La Veniexiana(89), trascurata nei primi anni dalle formazioni veneziane, e il '50 quando Baseggio porta alla Biennale teatro Il Parlamento de Ruzante che jera vegnù de campo di Ruzante e Il Saltuzza di Andrea Calmo, corrono indubbie connessioni, pur se si tratta di circuiti e strategie conservative non omologhe. Perché la filologia viene trascurata purtroppo dal box office degli impresari, e di questo splendido repertorio cinquecentesco, tanto poetico e pur intrecciato alla materialità del palcoscenico, la scena veneta non si occupa per lungo tempo, relegandolo all'erudizione accademica. Eppure, grazie al ben più consumabile modello galliniano, si conservano identità e si assicurano sopravvivenze a tutto un filone di scrittura medio-basso, a partire dalla Grande guerra e prima ancora, retto su una strategia di 'meta-imitazione', ovvero teatro sul teatro sul teatro. Fierezza del proprio idioma, innanzitutto, e insieme lingua semplificata rispetto alle altezze e alle oscurità del dialetto culto.
Ecco allora Domenico Varagnolo e i suoi monologhi in vernacolo, giocati appunto su variazioni galliniane(90), autore di fatto monolingue, tutto precipitato nel dialetto(91). Fin dal 1904, Varagnolo sforna queste aeree operine, raccolte poi sia nel '24, sia nella serie Le parlate de le mascare, dell'anno prima, occasione spesso di performances per attrici briose come Laura Paladini Zanon, entro una tradizione collaudata che annovera tra gli altri Attilio Sarfatti ed Ettore Da Rin, Guido Podrecca, Giuseppe Sabalich e Bepi Larese. Il genere oscilla tra l'atto unico e il ritratto-scenetta cantilenante. Per esempio, in Entra Pantalon, coevo alla guerra e ai rifugi antiaerei, traspare la reviviscenza un po' stereotipa, ma arguta, di vecchi protagonisti dell'immaginario scenico lagunare, così come, altrove, Arlechin che "resussita"(92), Facanapa, o Colombina, e ancora Brighela. Nel sonetto Al tragheto, un gondoliere parla francese, inglese, tedesco storpiando frasi d'approccio turistico con potenziali clienti per scoprirli poi non interessati al servizio: "Fiol d'un can! / el se moca via col vaporeto... / Sia el pezo bogia, se nol xe un furlan!"(93). Qui, del resto, si stigmatizzano i processi pur irreversibili di arrotondamento linguistico, si denunciano le intrusioni di gallicismi e gli inquinamenti di neologismi tosco-lombardi(94). Certo, si tratta di un Gallina ancor più manierato dell'originale, senza gli sviluppi aspri e depressivi dell'ultima fase dell'autore de La base de tuto, per una persistente voglia di morbidezza(95). Qui, la parola è spalmata con una patina brillante, a celare una forte propensione crepuscolare e minimalista, tra improvvisi sbalzi ironici. Ma è pur sempre grazie a questi monologhi che Varagnolo si libera degli impacci dell'altro teatro(96), dai moduli della ottocentesca pièce à thèse e dai sentimentalismi moralistici, oltre che dalla propensione autobiografica dell'impiegato al centro della scena. Ecco La Rosina che si sfoga del 1906, dove emerge la ciacola della servetta di una padrona romana, con gustosi bisticci bilingui, o la lavorante artigiana ne La sartorela del 1910 che sparla di baronesse avare e screanzate, o ancora La letera de Toni del 1912, in cui la fidanzata trepida legge la missiva del soldatino a Tobruk, con refoli della guerra libica e finale patriottico, o La lavandera del 1914, colla povera vedova, sfinita dalla fatica ma esaltata dal figlioletto. Infine, El goloso del '20, che in pieno reducismo e travagli sociali se ne viene alla ribalta come un qualsiasi Zanni mascherato e pulcinellesco per il cibo, un inno alla pancia, iperbole carnevalesca immersa in un quotidiano nevrotico, la bocca sciolta da caramelle, mentine e cioccolatini "che i se dèsfa [...] senza tacarse ai denti", poema di giuggiole e di torte margherite, di bussolai, fritole e galani dolci legati alle feste, e dunque "Nadal col mandorlato, i Morti co' la fava / Pasqua co' la fugassa", con crescendo sapienti "sì… sì, mi ve assicuro, no trovo ne la vita sodisfazion / più granda, più imensa, più... infinita, / de quela de sentirme fra i lavri, sul palà, / qualcossa che se sfregola, se taca, se descola, / che sbrissa, consumandose, e va zo per la gola". E dichiara, questo tripudiante Arlecchino, di preferire alle donne sorbole e castagne, "marinele", "sarese" e "carobe". Se il mondo, filtrato attraverso la cucina, si esalta e sublima in "un vecio paneton", basterà essere a pancia piena per sopportare pure "e bombe e canonae"(97), sorta di eufemizzazione glicemica delle paure e dei mali della guerra. Ma sui monologhi di Varagnolo dovremo tornare tra breve, per una sorprendente, inconsapevole ripresa da parte dei nuovi performers.
È Benini che tiene a battesimo pure Gino Rocca(98), e all'ombra dell'interprete dell'ultimo Gallina si cova l'apprendistato del drammaturgo feltrino. Grazie al dialetto, Gino Rocca(99), interventista(100), onusto di cariche corporative in quanto giornalista e commediografo tra i più prolifici, a livello nazionale, della sua generazione, soggettista cinematografico nonché direttore del "Gazzettino" dal 17 luglio del '37 al 5 agosto del '38, costruisce metafore ossessive e miti personali tipizzandoli nel proprio piccolo mondo antico. Lo aiutano agevolmente le caratterizzazioni, modellate sul corpo e sulla personalità dei suoi attori senescenti. Autore consacrato e garantito dalle più autorevoli ditte(101), spesso circolante al Teatro Goldoni con copioni in lingua(102), trova la propria misura a partire da Se no i xe mati, no li volemo, in cui rassembla i grandi istrioni veneti(103), più che nella maniera transalpina(104), in cui viceversa assimila i vari repertori leggeri e patetici condendoli al ritmo transalpino ora dell'adagio ora dell'andante con moto. Veri e propri concerti vocali, questi pezzi vernacoli risuonano tra eroi della sconfitta, come nell'apologo in apparenza eversivo, Sior Tita paròn(105), la cui trama ruota attorno ad appetiti assatanati e inveleniti per la "roba" da parte di servi da atellane in dimensione naturalistica. Ma è il "tritico dei veci" agile e sbrigliato, costituito dagli atti unici Un baso, L'imbriago de sesto e La scorzeta de limon(106), a confermare come questa partitura si incontri bene colle ditte venete. La topica della vecchiaia, infatti, e magari l'osteria/locanda quale luogo deputato e stimolo comportamentale-interpretativo, trapassano da un gusto recitativo a una vocazione tematica(107), contributi ulteriori a liquidare il perbenismo postgalliniano, la poesia dello strapaese, opera in cui s'era già distinto con furore Palmieri. Basti confrontare gli omina scelti, ossia le nominazioni che nel passaggio dai copioni in lingua a quelli dialettali si sbarazzano delle Elene e delle Marine, dei Giorgi e dei Rodolfi, per inventarsi cifre onomatopeiche, soprannomi simbolici che la comunità sadica gioiosamente sovrappone ai propri membri, secondo il gusto antifrastico del clan presente nella tradizione subalterna. Ecco allora il corteo saporoso e fragrante dei Momi Tamberlan, dei Bortolo Cioci, dei Piero Scavezza, degli Anzolo Mustaci, la brigata ilarotragica di Se no i xe mati, no li volemo, ecco i Tita velada, i Serafin cocio, i Nane radicio, i Sior Isepo fator, gli Stròpolo, i Giacometo, le siore Catine dell'eversivo e scanzonato Sior Tita paròn, ecco ancora i Toni Springariol, il cirrotico e malinconico leguleio de La scorzeta de limon, il Checo ossessionato dalle omofonie con "beco" nell'omonimo atto unico, tutti stravolgimenti linguistici che già a pronunciarli obbligano la voce attorale a una smorfia ghignante e sulfurea e richiedono una miscela di crudeltà e rassegnazione, al meglio garantita da una provincia altezzosa e abbandonata dallo sviluppo economico. Lontano dai salotti altoborghesi, adesso i protagonisti tendono a invecchiare precocemente, a immiserirsi, a covare rancori e malumori, fissati specie nella compattezza dell'atto unico in gesti grotteschi o in impennate inopinate. E intorno a una simile contaminazione di registri drammaturgici, tra la farsa rusticana, il burlesco moralistico e il bozzetto tardoverista si spande una pettegola acedia, da cui ci si solleva ogni tanto nel crepitio di fulminanti epiteti. Una malinconia saturnina, insomma, uno spleenetico disagio si levano da simili sceneggiature di scherzi da osteria, sottile e implacabile controcanto alle trionfanti feluche del regime. E l'assenza totale di populismo consolatorio, di bonomia galliniana, viene miscelata colla follia, esplosa in Se no i xe mati, no li volemo, a virare il dialetto verso un basso sublime insolito, poco frequentato in tale territorio, a meno di pescare nei reperti più illustri, da Ruzante a Bertolazzi, quasi memore del terrore circolante nel Berretto a sonagli che già alterava gli umori della Sicilia pirandelliana, paura superiore financo a quella delle corna. Ed è con dettagli da tarantolismo lombrosiano che viene tra l'altro descritta la demenza di Momi, giunto persino a progettare un nichilistico monumento ai caduti di guerra, in odore di eresia rispetto alla retorica nazionalista: "La bava alla bocca, salo? La bava alla bocca. E i oci! E no 'l me riconosse gnanca mi: e bisogna ligharghe le man, se no el se sgrafa, el se tira i cavei, el se pianta le onge qua"(108). E questo Rocca minoritario, rispetto alla copiosa e meno significativa produzione in lingua, progressivamente prosciugato nel filone vernacolo dalla morte improvvisa di Giachetti nel '36, fa scivolar fuori sussurri e gridi, figure oscure e sgradevoli, al di là della bonomia o del patetismo dei congedi. Da notare che Guido, il figlio di Gino Rocca, si fa allestire da Baseggio nel '58 La marcia su Roma, dove sfoggia una consumata abilità, quasi da sceneggiatore televisivo, nel cogliere fenomeni di costume contemporaneo(109), in questo caso la centralità del cinematografo nella vita e nell'immaginazione della piccola borghesia(110), il titolo essendo del tutto letterale e privo di allusioni politiche. E rispunta puntuale l'insofferenza umoristica nei riguardi delle radici campanilistiche(111).
Ulteriori, spesso sfinite versioni della "roba" tardonaturalista fuoriescono dai drammi intimisti di Enzo Duse(112). In lingua, seguendo l'abituale schema ascendente, Duse pratica la maniera boulevard mescolandovi un'indubbia voglia di paradosso, il gusto per colpi di scena, e morbidezze a volte da operetta alla Lubitsch(113). Ma questo teatro in lingua non può che assimilare motivi e impronte della drammaturgia italiana degli anni Cinquanta, il grottesco sulfureo di Terron, i processi moralistici di Fabbri, nonché il gioco dei calembours che viene dai repertori francesi anteguerra. Così, la parodia della famiglia borghese e delle voglie di eredità in Cocktail al circo, scritta nel '60, o in Una famiglia in prosa, del '62, dove un povero impiegato, Travet in anticipo sui recenti Fantozzi, vessato da moglie frustrata e dall'amministratore della fabbrica dove tutti lo considerano "una nullità", perché deciso ad arrivare "nudo alla meta" alla fine della sua carriera/vita(114) viene insignito di medaglia proprio quando rischia di passare per ladro. Non mancano soluzioni spiritistiche da ghost story, in Partita col morto, scritta nel '58, con tanto di fantasma parlante, ed è il figlio deceduto che appare al padre inconsolabile e austero (ennesima variante dei vecchi adamantini) rimproverandogli sacrifici e rinunce, mostrandosi invece quale ragazzo vizioso e gigolò. Altre volte, Duse può inciampare nella maniera alta, magari attraverso filtri dannunziani (spunta del resto un progettato viaggio alla tomba degli Atridi, sulla scia de La città morta) ne I normali, questi travestiti terminato nel '62, centrato sulle relazioni incestuose tra Clotilde, dagli empiti melodrammatici, e il giovane figliastro, oltre che sulle morbidezze tra il vecchio marito della donna e la figlia solidale con lui. O come nell'apologo collocato in ambienti antiquari, coi quadri degli antenati che incombono dalle pareti, e dal clima un po' benelliano, in Appuntamento con le caverne, scritto nel '58, dove il vecchio barone Sirius muore inseguendo l'amore della bella segretaria, incalzata dal desiderio per giovanotti di varie etnie. Ma è il dialetto a tentarlo colle consuete propensioni ad ambienti decaduti, a personaggi invecchiati, a un clima di crisi e di agonia, in cui precipitano da un lato omina goldoniani (quante Doralici e Coralline e Flaminie, quanti Ottavi e Zelindi, quante servette intriganti proliferano a puntate, a fianco dei blasonati stemmi dei Sagredo, dei Soranzo in Ca' de Bo!) e dall'altro anacronistici modernismi, come la radio, la rossa operaia ribelle, Giuliette sprint e chiusura dei bordelli. E allora, amori tardivi, in un ottimismo di facciata, per la smania di happy end un po' oleografici come Quel sì famoso(115) inaugurato al Goldoni dalla Micheluzzi-Seglin nel '45, dove l'ottantenne contessa Valbruna alla fine cede alle avances matrimoniali del suo goffo e orgoglioso pretendente Bortolo, armato di cornetto acustico. E la vecchia nobildonna non esita infatti a rubare alla nipote non solo il lessico amoroso relativo alle prime schermaglie erotiche, tipo "una carezza… un baso... fin ch'el se decide de stuar la luce"(116), ma anche le procedure amorose. Esplicito, ancora una volta, il richiamo a moduli cari a Gallina, come nell'ortolano-gondoliere di Treporti in Bona fortuna, Piero del '50, che sposa e redime nell'ottica prude di quegli anni Tina, la ricca ragazza incinta, e la vuole persino senza dote perché lui pure è frutto di una mésalliance, ossia "da una mare siora e da un gondolier"(117), e in più personaggio modellato sulla ruvidezza soave e manierata di Gino Cavalieri. Qui, la lingua si abbassa verso registri medi, mentre la battuta si alleggerisce, si riduce nello scambio inseguendo ritmi e timbri leggeri(118). Il tutto si esalta nel citato Ca' de Bo(119), grazie alla presenza pur stereotipa di nobili terrieri dissipatori e ridotti a goffi e rabbiosi suicidi come il conte Domenico, di fantesche ambiziose e vogliose, e di fattori scatenati nel furto ai danni del padrone. Oppure si compendia con più equilibrio e autonomia nel minimalismo beffardo di Virgola che debutta al Goldoni il 21 aprile '43 colla compagnia Micheluzzi. Si possono ravvisare agevolmente tracce del raisonner pirandelliano, sia pur intinto di patetismo (come l'offerta di cioccolatini ai mocciosi da parte dei vecchi, o l'autocommiserazione confessata nel finale)(120), di perbenismo (si temono le chiacchiere del vicinato) e di riequilibri caricaturali, dietro le mediazioni dei "mati" di Rocca, nel protagonista affidato all'astuzia interpretativa e alla colta sensibilità di Emilio Baldanello(121). Perché Memi Virgola, sprofondato nel salotto "arredato con cattivo gusto" e dove "tutto sa di vecchio, di indolente, di passivo"(122), esalta il suo diritto di epicureo parassita, dato che ritiene una "idea fissa che par vivar bisogna lavorar"(123). Tant'è vero che ha affidato le sue quote di proprietà al fratello, il quale gestisce una fabbrica di conserve, salvo poi, alla morte improvvisa di quest'ultimo, doversi destreggiare tra finte amanti con codazzo di figli, avvocati pirateschi e direttori ladroni. È un po' il "mamo", questo Virgola, ossia la maschera dell'ingenuo, che pur se trasognato e cinico, finisce per farsi coinvolgere in storie che disprezza. La stesura del copione reca la data del marzo '36, a riprova della sfasatura tra una simile drammaturgia, nei suoi momenti più autentici, rispetto alla retorica eroicizzante del regime(124). Non mancano gags alla Campanile come nella sequenza dell'epitaffio agiografico verso il morto, quando se ne sono scoperti gli altarini, o nella processione pochadistica dei figli dell'amante di quest'ultimo(125).
Ma un filone garantito, quanto a presa immediata sulle voglie di consumismo e di benessere nel pubblico del dopoguerra, coincide colla topica ludica. Sono, questi ultimi, dei tentativi discontinui ma non irrilevanti per adeguarsi alla contemporaneità, quasi in una versione pretelevisiva, allorché il palcoscenico ospita lotterie, Sisal e smanie di vincite. Ecco allora Zogando a tresete di Emilio Baldanello, ambientato in costumi ottocenteschi, del 1946, e portata al successo da Micheluzzi nel '48. Così pure, erede del ben più drammatico El nost Milan di Bertolazzi, il fortunato 1-X-2 del veneziano Oscar Wulten, che Micheluzzi fa trionfare(126) nella stagione '52, con esordio all'Excelsior di Milano. E con Wulten si misura l'adattabilità negli anni Cinquanta del repertorio veneto, là dove intende assecondare, nel pubblico, sia i gusti neocrepuscolari sia quelli boulevardiers. Così, questo 1-X--2 mette a fuoco la penetrazione del tifo calcistico, in anticipo su ben più sistematiche invasioni grazie ai media di oggi, nella realtà piccoloborghese di un paesino del Brenta, dove il salottino-ricevitoria del Totocalcio è alla lettera preso d'assalto dai protagonisti e dai figuranti della vicenda, preti e sagrestani compresi, tra patetismi e gusto acre per la battuta proverbiale(127). E le isterie intorno alle squadrette locali si intrecciano collo spettro ricorrente di vincite colossali, magari grazie a pendoli magici o a sedute spiritiche(128), tra risse condominiali, accumulo di bollette da pagare e sogni evasivi sino alle puntuali nozze tra lo studente di ragioneria, figlio dell'esercente, e la fidanzatina della porta accanto, divisi in precedenza dal tifo dei genitori, orientati su squadre diverse. Anche perché ci sarebbe altrimenti un bastardo in arrivo, in quanto, con una metafora sessuale calcistica, "stavolta, Piereto ga fato gol"(129). Intorno preme una fame cerretana, in un clima un po' scarpettiano da Miseria e nobiltà, fame che aizza persino i gatti a rubare il pollo, finché il cronista locale giunge colla lieta novella, ovvero i 67 milioni fatidici. Wulten ci riprova, con meno agilità ma con più ambiziosi scorci realistici ne El boteghin dei sogni(130), ambientato a Venezia ma retrodatato intorno al 1900. È stavolta il lotto ad attirare la povera gente(131). Qui, la Norma lavandaia e "fiossa" d'una fiorista, sospesa tra Alvise, un giovane conte, e Mario, un aspirante cameriere del Florian, finisce per optare per la classe più consona, e sposare Mario. E fin qui, nulla di nuovo o turbevole. Solo che l'esercente del botteghino, la Rosi, si contende con una tal Iride, tenutaria di una casa di appuntamenti, ed ex amante del conte e di suo fratello, e quindi madre di Alvise, non solo il biglietto colla quaterna vincente, ma anche il marito, Bepi, nullafacente e perenne ubriaco, creato in scena da uno scatenato Cavalieri(132), in un'eccentrica e spregiudicata bigamia. L'uomo, che ha sognato i numeri, finirà per sottrarre il biglietto alle due donne per garantire la dote alla giovane lavandaia, e interrompere sul nascere nuove mésalliances(133). Eppure in Wulten sono annidati registri più drammatici, accenni di drammaturgie non ludiche e consolatorie. El rospo(134) presenta un personaggio out, una sorta di soggetto 'epico', osservatore delle peripezie piccoloborghesi prossime alla proletarizzazione, degli affanni drammatici e ridicoli entro la famiglia che gli affitta un'umile stanzetta. Ai bordi, allora, di un'abitazione veneziana di 'oggi', nel Veneto degli anni Cinquanta senza lavoro, e caratterizzato da forti flussi migratori - in questo caso il Venezuela -, e dunque la casa disastrata, ecco il padre, dal nome galliniano, Micel, in galera, la madre affittacamere, il figlio tentato dal contrabbando e dalle cattive frequentazioni, la figlia ragazza madre, e lo zio prete ridotto all'ospizio. A poco a poco, però, il professor Giacomo Candela, insegnante di disegno, al di là della scorza "rustega" e imperturbabile(135), si trasforma in un angelo protettore sempre più coinvolto e nel finale persino disposto a sposare la sfortunata ragazza e a diventar padre del bambino, secondo la classica solidarietà pascoliana tra vecchi e fanciulli di tanto teatro veneto. Anche perché lui pure ex bastardo, allestisce per Teresa e Angelin un grande albero natalizio, sciogliendo così il cinismo e il disincanto iniziali: "El xe el secondo albaro che trovo nel deserto de la mia vita. E i albari no serve solo per picarse"(136).
Opposta al crepuscolo e alla senescenza amara, e pur sottesa al di sotto delle sue pointes più fulminanti, dei suoi giochi di parole, delle sue volute discorsive parassitarie e/o aggressive, sta nondimeno la lingua dialettale che si esorcizza nel canto, che si esalta nel vaudeville. Quasi un rusticano music-hall, questo vaudeville costituisce il registro più consono al revival sette-ottocentesco a uso delle ditte venete, portando in laguna un genere già collaudato sulla ribalta partenopea e meneghina. E i nostri interpreti, s'è detto, da Giachetti a Baseggio, gravitano del resto, nel loro apprendistato, intorno al Conservatorio. C'è da segnalare tale osmosi tra testi e canzoni, tra drammaturgia e cantabilità, quale antidoto escapistico e pur complementare alla tendenza geriatrica dei temi(137). Territorio nutrito, dove spuntano stereotipi(138) e alcune sorprese. Così il vicentino Rossato, che pure aveva esordito da interventista socialista, passato dall'"Avanti" al "Popolo d'Italia", poi fiumano, legato in gioventù al sindacalismo corridoniano, tramite un copione imbarazzante per il perbenismo del pubblico del primo dopoguerra, Le prime giosse, al debutto il 28 novembre del 1919, col legame tra operaio socialista e giovinetta borghese, alla fine ricondotta a un matrimonio più consono in termini di classe. Rossato prosegue quindi con La brentana, che Micheluzzi porta alla ribalta nel '20, acre variazione sul tema antico dell'adulterio che qui pare esaltare il diritto delle donne giovani a tradire i mariti vecchi, e più tardi persino con un omaggio allo sciovinismo locale, ossia El pare de Venezia(139), ritratto agiografico di Daniele Manin nell'evento mitizzato della Repubblica di S. Marco del '48-'49, chiuso dall'inno alla libertà, e siamo nel '27! Di tale pluralità di indirizzi e registri, anche in una direzione neonaturalistica verso la contemporaneità, oltre che assorbimento dei postulati più nuovi proposti dalle avanguardie del tempo, testimonia Uno qualunque(140). Qui, scandito da tempi musicali, che vanno dall'appassionato del primo flash all'andante del secondo e all'allegretto del terzo, ambientato a "Venezia oggi"(141), il puntuale impiegatuccio crepuscolare "a mille lire al mese", rincasando dal lavoro, come al solito, secondo un'esistenza metodica condotta tutta "tra el so ufizio e la so mugér", scopre nella camera da pranzo, su una parete della quale incombe una profetica litografia di Otello e Desdemona, la classica lettera, in cui la moglie, dopo cinque anni di matrimonio, gli rivela d'essere "scampada" coll'amante. E non gli bastano per consolarsi le dovizie di proverbi, come "I pecai-che diverte de più-a le done; e la penitenza-che la seca de più-ai omeni"(142). Lo stile della missiva dell'adultera è in pieno mélo, e il cornuto non può che insorgere, anche perché la donna se n'è andata coi suoi risparmi. E allora eccolo gridare la battuta prelevata dal Micel nella Famegia del santolo di Gallina, che Benini aveva esaltato nel 1892, ossia il celebre "vergognosa", ma qui condito di invettive più colorite, come "muso roto"(143). Minimalismo, patetismo, un'aura di antieroismo, senilità, le consuete figure tematiche, questa volta declinate però in una versione criptoespressionista, alla Rosso di San Secondo per intenderci, specie nel secondo tempo, entro il caffeuccio di una calle popolare, dove l'Uno qualunque, in preda a una "sbornietta", s'imbatte in un vecchio conte miserabile (il cui palazzo è divenuto "la terza bancheta dei giardineti"), ma pur sempre servito dalla sua fedele serva che chiede l'elemosina per lui, e inoltre in un ubriaco raggiunto dalla moglie grassa con chitarra, in coppie di giovani alle prese col dolorismo amoroso, o in schizzi erotici, quasi variazioni della condizione del protagonista. Da Rosso, questo coacervo di umanità derelitta e sconfitta eredita anche l'assenza di nomi individuali, sostituiti da condizioni anagrafiche, o impersonali pronomi, come Elo, rappresentante di biancheria, ed Ela, che non si decide a cedergli, oppure due sposini, in cui la giovinetta sfoga la propria gelosia passionale al partner accusandolo di cercare in un'altra donna quel figlio che lei non riesce a dargli(144). E nel montaggio di battute tra un tavolo e l'altro, è il vecchio in "velada" a fungere da spartitraffico, in quanto costui presenta man mano al protagonista i vari avventori del locale. Nel terzo e ultimo tempo, collocato in questura, il conte, consapevole d'essere per tutti ormai solo "il conte da le braghe onte"(145), convince l'Uno qualunque, finito in gattabuia per un maldestro tentativo di suicidio, a farsi passare per "mato", in quanto questa è la sola alternativa alla taccia disonorante di "beco"(146).
Se il copione, portato il 29 maggio del '24 da Giachetti all'Argentina di Roma, dura solo due giorni, è la musica il destino dell'autore, librettista prolifico, oltre che romanziere e panflettista(147), colla sua Nina, no far la stupida!. L'operina, nata a Salsomaggiore il 29 agosto del '22 quasi per caso, perché Giachetti doveva sfruttare costumi ottocenteschi dal guardaroba della compagnia, arriva a una quantità di repliche degna di altri sistemi teatrali, come quello anglosassone, ma impensabile in Italia(148). Si pensi solo per Venezia, dieci giorni di replica dall'11 dicembre del '22, colla compagnia di Giachetti e Cavalieri. Si arriva in tre anni a oltre mille recite, per la prima volta nella storia del nostro teatro(149). Con Nina, si rievoca un passato festoso, collocato in un paesano e villereccio 1835, sbucato fuori da un libretto musicale, o da qualche opera buffa, di Donizetti o Rossini. Tra cori, rime baciate, filastrocche e refrains, si erge sublime nella sua pacchianeria il maestro Giacometo Buganza, compositore fallito e ossessionato da vent'anni dalla fissa di vedere in scena la propria opera immortale(150). La scena, quella posticcia e convenzionale, indica la piazzetta del paese di Malcontenta, ossia la bottega del barbiere a destra, a sinistra il caffè, in fondo il Municipio e l'albergo, e "alcuni paracarri che indicano l'approdo delle barche"(151). Da questo teatrino escono fuori nei loro cicalecci dispettosi prima i figuranti, dai nomi che ridondano omaggi alla tradizione vernacola, da Peocina il tonsore, a Cogometa il caffettiere, a Filomena l'albergatrice, e poi via via i protagonisti del vaudeville lagunare. Così i tutori ansiosi e nevrotici, pronti a cedere però al richiamo improvviso anche se tardo di Cupido, e a sospirar sotto la luna(152), e le zitelle in fregola, e ancora le pupille smaniose e i giovinetti svenevoli, e i bellimbusti azzimati da bellissimo Cecè. Ma il casting, oltre a ripresentare le classiche coppie di vecchi, di servi furbi e di innamorati, prelevate dalla carretta dei comici dell'arte, rimette altresì in circolo memorie goldoniane precise, dal Todero podestà (con un'inquietante propensione ad affacciarsi al balcone...) a Corallina artista, da Fulgenzio suo spasimante a Lelio innamorato della Nina, da Bortolo possidente terriero a Momoleto giovane di Malcontenta. Come sempre, seguendo la tradizione delle carrette dei comici, si rimette in moto la querelle dei vecchi versus giovani, dei Pantaloni svegliati dal sonno invernale grazie a fanciulle peperine, mentre studentelli vigilano e si piazzano all'ombra di donnine galanti. Si riaccende una carnevalesca mischia, colla puntuale detronizzazione dell'autorità senile. E intanto l'introduzione coreutica suggella tra registri idillici la farsa, quel "Va barca, va cuore / no farme patir, / ai puti l'amore, / ai veci el dormir..."(153), tanto da assegnare, fin dall'inizio, alle battute non cantate il ruolo di mero recitativo. E così ci si lamenta della crisi della locanda, abbandonata dagli avventori e lontana dai passati splendori, quasi una metafora della decadenza teatrale a Venezia. Ebbene, l'apatia del paesello viene scossa dall'equivoco, fatto credere da Momoleto bugiardo, come tale inventore-motore della storia e poi puntuale deus ex machina dell'intero imbroglio, che fa di un'oscura artista padovana in fuga col suo spasimante una gran dama, anzi la stessa Malibran che farà debuttare l'operina di Buganza, illuso e convinto dei prossimi trionfi alla Fenice. E dunque, teatro sul teatro, perché intere sequenze funzionano ruminando repertori goldoniani(154), da I rusteghi a Le massere e Il teatro comico(155), nel plot e nelle serie lessicali, come quando la finta Malibran fa la predica sulle cantanti-artiste ai vecchi rusteghi, chiusi nei pregiudizi contro "una doneta de teatro"(156), a dimostrazione che un'artista può essere pur sempre "una puta onorata"(157). Ma anche teatro nel teatro, in quanto prove di messinscena per la frenetica successione di coincidenze e raddoppiamenti tra la trama dell'operina in allestimento, che dà il titolo appunto al copione, e la vicenda domestica di Nina e di Lelio, mentre la lingua del libretto ospitato ostenta languori kitsch cui si contrappone il sermo rusticus spezzato e sprezzante delle battute degli attori(158). Puntuale, esplode la sagra dei travestimenti in cui eccelle la finta Malibran che lusinga, seduce e trionfa sui vecchi severi, simulando l'imminente ritiro dalla carriera, agevolata dai languori, dagli incanti della notte stellata e del giardino illuminato alla veneziana. E, viceversa, alla fine il sipario cala su una ridda meccanica di nozze tra coetanei, mentre si ripristina l'ordine, perché anche la vecchia Cate può consolare il povero Buganza, che sa apprezzarne la taglia robusta(159).
Per un po' la scena veneta diviene un affare. Il successo travolgente di Nina fa cantare l'intera ribalta italiana, anche quella in lingua, e obbliga per anni i nostri attori di prosa, non solo quelli leggeri, a impegnare ugole e corde vocali, così Dina Galli e Antonio Gandusio, così Vera Vergani e Luigi Cimara, stimolando allo stesso tempo autori medi e piccoli a sfornare couplets, da Cantini a Gherardi. Sempre Giachetti porta al successo a Torino nel '23 in versione veneziana La sagra dei osei, dall'originale Sagra dei fringuelli del '15, gara di uccellatori e amoretti alla fiera di Sacile, del triestino Alberto Colantuoni, farsa musicale, e questa amabilissima pastorale trionfa poi nel giugno del '25 al Malibran. Qui, la profonda competenza dell'autore nei riguardi di uno spaccato di provincia friulana, "a piè del colle di Aviano"(160), e sul fondo preme lo spettro d'una Venezia museale(161), gli detta la ricostruzione minuziosa, ironicamente e affettuosamente iperbolica, di arredi domestici, la raffigurazione di cortili alla Segantini, di cerimonie festive, di tecniche d'addestramento canoro degli uccelli (anche nella crudeltà dell'accecamento), di mercati e kermesses festive, di protocolli d'esposizione per la gara di S. Lorenzo, il 10 agosto, quasi una risposta nordica a La figlia di Jorio. E le antifonarie, i madrigali villaneschi, sia pur permeati di refoli nazionalisti(162), mixati coi trilli dei pennuti, le parodie d'abbassamento del lessico religioso(163), le agiografie di tordi e merli, la caricatura impietosa di pedanti ciarlatani(164), di burleschi dottori armati di latinorum, usciti sia dalle farse molièriane che dalle regole bertoldesche(165), a rivivere la piazza dei cerretani, le serie innumerevoli di improperi(166), blasfemie e sdolcinature, i vertiginosi, criptofuturisti elenchi di onomatopee a mimare, a richiamare il suono specifico delle piccole creature(167), i nomi stessi che individuano le diverse specie(168), tutto insomma concorre a un melismo diffuso da "pastoral" ruzantina ingentilita ed eufemizzata, grazie anche alla dolcezza adolescenziale del piccolo sguattero puliscigabbie, Menego. Costui, il nome ricavato da Beolco, scoperta la sua tenera love story intrecciata con Zogieta, la figlia del padrone, il cipiglioso Nane Marcoldi, viene cacciato dall'azienda. Ma subito gli uccelli, a lui affezionati, in sua assenza entrano in sciopero "per sbregamento de anima"(169), decretando la sconfitta di Nane stesso. Per cui sarà inevitabile riassumere il ragazzo e consentire alle sue nozze con Zogieta, emarginando il conte, membro della giuria e farfallone, sino al garbatissimo congedo finale da "sta fiaba col morbin"(170). Simili successi determinano, s'è detto, la moltiplicazione esponenziale su tutto il territorio nazionale di proposte del genere. E tutte le ditte che seguono per almeno vent'anni lo riprendono quale cimento emulativo e memoria collettiva(171). Riprese analoghe e ulteriori trionfi in Ostrega, che sbrego!(172) del veronese Arnaldo Fraccaroli, fischiata a Padova nel 1907, riproposta nel '25 da Giachetti, all'insegna sempre del teatro nel teatro, in questo caso di teatro interrotto dalle intemperanze del cantante estromesso. Quest'ultimo vi appare nei panni del baritono Pietro Basotto alle prese col primo atto del Barbiere rossiniano, e a sua volta l'interprete di Rosina porta il medesimo nome, ostacolata dal padre Pasquale nei suoi amori coll'innamorato Chiodini, mentre il baritono, sostenuto da Mandich, è in piena crisi d'afonia, per cui Almaviva muove la bocca e al suo posto canta sua sorella, mentre il maestro sordo, all'esordio Cesare Polacco, dirige l'orchestra folle, e Cavalieri in falsetto fa il basso, in un'aura da Hellzapoppin lagunare(173), in un intarsio lessicale contaminato tra i registri aulici da libretto musicale e le intrusioni vernacole. Sarebbe troppo agevole confrontare tale gusto del melò coll'orizzonte storico che vede marce su Roma e dittature in arrivo. Se non per constatare, ancora una volta, come le grandi tensioni sociali degli anni Venti preparano istanze escapistiche nel pubblico che a teatro sembra preferire sogni e compensazioni sentimentali rispetto all'angoscia e al disorientamento(174). Su un minoritario filone disfattista o sociologicamente duro(175), incrociato, a volte negli stessi commediografi, colla tendenza canterina, trionfa così la domanda evasiva della sala(176). In questo territorio chiassoso e ridanciano si colloca anche il ballo dei simulacri, dei travestimenti, come El re de le mascare, del muranese Umberto Morucchio, varato il 18 dicembre del '22, biografia romanzesca di Andrea Calmo, con intrusioni pseudopirandelliane sulle necessarie modifiche di identità per sopravvivere ai soprusi del potere, o Puricinela gaveva 'na gata di Arnaldo Boscolo, in scena il 7 settembre del '24, colla compagnia che riunisce Baseggio e Micheluzzi-Seglin, assimilazione di maschere "foreste" e pastiche settecentesco come il successivo, stesso autore e medesima troupe, L'abate dai bucoli d'oro nel '26. O ancora il fiabesco Pinocchio innamorato del prolifico e inquieto Rossato, stavolta in combutta col postgrottesco Cavacchioli e allestito nel '22 dall'illustre ditta Niccodemi, reduce dai Sei personaggi, e qui fischiatissimo per la parodia dei sentimenti monarchici di Mussolini, o il sintomatico El vestito de Arlechin, del vicentino Giuseppe Bevilacqua nel '27, portato dall'onnipresente Giachetti, con qualche spruzzatina di sillogismi pirandelliani.
Da un ghiribizzo eccentrico, da un capriccio surreale più che finto rococò era partita la drammaturgia del vicentino (ma trapiantato a Rovigo nell'infanzia e adolescenza)(177) e autorevolissimo critico teatrale sul bolognese "Resto del Carlino" e poi su "La Notte" milanese, Eugenio Ferdinando Palmieri, nato nel 1903, figlio di un colonnello che sognava per lui la carriera militare e di una casalinga che lo voleva arcivescovo. In Palmieri, il mondo teatrale settecentesco, colorato e odoroso, delle guitterie e dei ciarlatani di piazza, così come i sublimi momenti di poesia scenica, la tradizione ottocentesca poi e la lenta inesorabile decadenza attraverso pur rilanci e soprassalti misteriosi e miracolosi di vitalità e di dominio sul pubblico, trova una sorta di canto-epitaffio mirabile e struggente in Del teatro in dialetto, capolavoro di narrazione critica, di malinconica enciclopedia erudita e di buffonesco epicedio, insieme colloquio elegiaco cogli assenti, inventario neogotico, in quanto memore del loro non ritorno. Ma torniamo al suo esordio. Si tratta, appunto, della Strampalata in rosablu, sottotitolata Arlecchino e Allegria oggi sposi, fantasticheria istrionesca che pare pescare nella maniera grottesca di quegli anni, oltre a miscelare tempi settecenteschi veneziani a tempi coevi alla sala nella campagna veneta contemporanea, capriccio in cui personaggi in carne e ossa si mescolano disinvolti ad antiche maschere e ad allegorie umorali, così come atti in martelliani si alternano a monologhi e duetti di poetica autorale, insomma una confusione inaudita di registri e di forme postsimboliste e postfuturiste. Ma con Palmieri, come e più che negli altri, diviene esemplare il processo di slittamento dall'antica centralità della città-Stato alla regione depressa nella storia successiva e recente. Perché dietro i couplets e le mascherate si respira un'aria sfatta e fosca, con mogli frustrate e tradite e contadinelle minorenni, in questo caso Allegria in cui precipita l'archetipo di Colombina, ingravidata da un Arlecchino Liolà e abbandonata al suo destino tanto da annegarsi. E scorrono accensioni sensuali, violente e inusitate nella consueta pruderie dialettale. Si ascolti un attimo come Allegria, la fanciulla sedotta, rievoca la sua prima volta con Arlecchino: "Go ne le recie la so vose [...]. Alegria, mascara de giovinezza, destìrate su la sedia de sto stramazo d'erba: te vogio qua, tra la giovinezza de la tera [...]. Me distendo. Go ancora i so lavri su la mia carne, sento ancora 'l mio çigo"(178). Ed è Rovigo colle sue nebbie e le sue paranoie metafisiche, al centro di questa ricostruzione elegiaca e beffarda, veicolata dal dialetto, quasi sempre lo strumento discorsivo scelto(179). Siamo nel '24, Palmieri non ha ancora vent'anni, e l'esito è burrascoso. A lungo, l'autore tenterà questa maniera sgradevole, seguendo le orme di un altro dialettale indigesto al gusto digestivo del pubblico protonovecentesco, ossia Bertolazzi, a lungo cercherà di coniugare tradizione e trasgressione, per mediare una pratica poetica, cresciuta ai bordi di un estenuato simbolismo, magari del prediletto Laforgue, colla propensione a un rispecchiamento umoristico della vita provinciale, tramato cioè di tenerezza e irritazione, di solidarietà crepuscolare e di furore satirico verso il piccolo mondo antico. E questo anche se si cimenta in altre strade, perché lo scrittore sperimenta vari percorsi drammaturgici, disomogenei per resa e per registri, come nell'apologo macchiettistico sul filosofo un po' raisonneur vinto dall'amore in Tic tac! del '26, e si fa contagiare dalla maniera canterina nei ritmi ballettistici da opera buffa de La corte de le pignate scritta nel '29 in vernacolo polesano, di una comicità "smodata", corredata di "canzoni, di quartetti, di coretti"(180), mentre ne La fumara(181), del '33, un'aura cechoviana miscelata all'estro linguistico allenato nella musa locale stempera e ammorbidisce le tecniche della pièce à thèse e i dibattiti famigliari se restare nei campi o scapparsene in città. La presenza insistita della versificazione, dura, disincantata e pur tuttavia danzante della produzione poetica, si mimetizza pure nel genere saynète de I lazzaroni del 1935, in cui protagonisti risultano una coppia di vitelloni circensi, i due novelli Zanni, Pendon e Pelandra, che rinverdiscono appunto i fasti della commedia dell'arte(182). E del resto, Lazzarone era il titolo della raccolta poetica del '34, a sua volta come in Remengo di due anni prima costellata di ritratti picareschi, di maudits da fiera, di vitelloni bulleschi e vantoni, guappi memori di Synge, ladri di polli, risposta nordica a Viviani e al Brecht dell'Opera da tre soldi, bonariamente trasgressivi e incapaci di crescere(183). Il copione, ambientato emblematicamente in "una città di provincia, tra vera e fantastica"(184), si snoda per due atti nell'osteria della Batistona, la madre di Rosalia contesa dai due smargiassi, tra baruffe chiozzotte tavernarie, per concludersi nell'asilo notturno, trent'anni dopo, in cui questi vantoni proseguono sia pur in disarmo i propri deliri di onnipotenza a parole(185). Eppure, certe sequenze hanno un sapore forte e dirompente, che mal si concilia colla pruderie delle ditte venete e delle platee congelate tra fascismo e telefoni bianchi: "Le done bisogna brincarle per i cavei, sgnacarle sora un stramasso e là. Sempre. Ghe xe sempre un altro, se no, che fa cussì"(186). Ma un simile machismo squadristico ben presto svapora nel sentimentalismo dei due che riscoprono in sé altruismo e spirito di sacrificio sia quando costringono il giovanotto, terzo incomodo, che ha messo incinta la ragazza, a sposarla, sia quando incontreranno nel finale del copione la figlia di Rosalia, acerba prostituta. Per lei torneranno all'antica professione, per lei si riconosceranno "ladri de famegia"(187), anche se ormai hanno "le gambe a remengo"(188). Nonostante la prudenza ideologica imposta dal regime, non mancano altresì battute inquietanti come nella minaccia larvata di ribellione "Se nualtri non abienti se volessimo ben tuti quanti, i signori tremerebero"(189) o negli accenni imbarazzanti al confino politico(190) nel risibile appello alla piazza da parte della combriccola maldestra, tra guardie di pubblica sicurezza che parlano in napoletano: "Popolo! tuti in piassa!"(191). Meglio forse tornare al più rassicurante tema del cocuage, riproposto in lingua nello sfortunato Le pecore(192), mentre nel successivo Quando al paese mezogiorno sona, data dalla compagnia Giachetti nel '36, esplode la bagarre intorno alla roba contesa da parenti smaniosi di perbenismo e di soldi, liquidando del tutto qualsiasi connessione tra provincia e arcadia felice(193). È in arrivo, infatti, dall'America il cugino Piero, in una vicenda che sembra scivolata fuori da una sarabanda alla Campanile, ma filtrata da umori neri alla Becque e da sulfuree torsioni gogoliane, in quanto Piero svolge senza volerlo il ruolo d'ispettore generale. Ecco pertanto i fratelli Camisan e il cognato Leonzio Pavanello, gli armadi di casa stipati di falsi notarili e latrocini reciproci (nonostante la loro pretesa di ergersi a "onoratessa fata carne")(194), a base di fallimenti di raffinerie e acquisti di tenute sovrastimate, tra servotte incinte concupite dai maturi padroni di casa e dai giovinetti viziati, nullafacenti o pronti a firmare cambiali false, e matrone in fregola bovaristica dietro dandies bellimbusti, dalla parlata rigorosamente italiana, di fatto impiegati delle tasse(195), contesi alle figlie, che si agitano in un parossistico balletto, tramato di ricatti di tutti contro tutti, per corna recenti e antiche, sino al compromesso finale che li vedrà impegnati in una simulazione di pace generale grazie anche a nozze consanguinee. Non si salva nessuno da questa sconciatura grottesca e impietosa, recitata all'insegna della sacra famiglia unita, che infierisce contro la retorica del ritorno alla terra, da Palmieri pur cantata ambiguamente ne La fumara, grido d'odio contro "questo paese infame de bruti"(196). E, pertanto, la commedia risulta troppo sgradevole per non essere rimossa e non decretare la fine della parabola drammaturgica del critico, cessata del tutto dopo l'ultima escursione, pur apprezzata dal pubblico, perché più riconoscibile e rientrata nei codici della mésalliance sociale tra nobildonna di provincia e giovane pittore squattrinato, a lieto fine, di Scandalo sotto la luna(197) del '40. Per queste ultime commedie, certo, Palmieri aveva puntato a una circolazione nazionale, come si può constatare nel lavoro linguistico, tramite un lessico pur dialettale ma ormai rialzato dal colorismo locale verso un arrotondamento italianizzante. Può essere utile, ai fini d'un percorso generazionale, rileggere Palmieri alla luce dei suoi epigoni, venuti dopo. Si veda in tal senso come ne parla Duse, nel profilo che sa un po' di epitaffio, stilato nel '52 quando il commediografo è riprecipitato a tempo pieno nella professione di critico, un po' come l'illustre precedente nel primo anteguerra, Simoni. Duse, che pur ne ha metabolizzato più di un'acredine, accenna ai moduli del poeta che ha respirato nel Polesine l'aria della "fumara", l'aria "de fango", che fa "spuar polmoni" per poi definire "beffa alla ruralità ricca", il suo testo più impegnato, ossia Quando al paese mezogiorno sona, e questo nonostante la sua identità di scrittore "dalle molte raffinatezze e per élites"(198).
Ma sulla linea di Palmieri, sorretto da una costante pratica di palcoscenico, stanno i testi altresì del veneziano Francesco Mandich, formatosi a contatto con Giachetti fin dal '21, tra i più rifiutati dal palcoscenico(199). Se si prende in considerazione un dramma come I sassi ne le scarpe, si può capire il rifiuto del sistema teatrale, di fronte a una scena speculare al tempo storico vissuto in platea, colla rievocazione di un recente dopoguerra di corruzione e di disfacimento umano ed economico, quadro di desolazione indigeribile. Ambientato tra baracche alle porte di Venezia, i "Sabioni", ospita una fauna disperata di relitti alla ricerca disperata della sopravvivenza, in qualsiasi modo. E dunque gli uomini sono "sempre in çerca de lavoro"(200), ossia contrabbando di sigarette, furti di valigie ai politici, fedine penali sporche, traffici più delittuosi condotti da boss sciupafemmine, dal soprannome di "Inglese", poi destinati a una brutta fine, oppure più prosaicamente al ruolo di gigolò mantenuti da donne sposate, mentre ogni ragazza "tanto palideta"(201) rischia la prostituzione, o se minorenne, aspirante cocotte, magari resta incinta e poi tenta il suicidio, per cui a sposarsi sono solo vecchie zitelle con patetici spasimanti. Da questo girone inferico, in un clima figurativo colorato da saltimbanchi poveri e da mendicanti colla gavetta di minestra, sospeso tra ipernaturalismo bertolazziano e surrealismo zavattiniano, con intrusioni di tecniche da cinema noir americano (come il mixage di auto e colpi di rivoltella), scandito nervosamente per quadri con riprese e sospensioni di temi e pulsioni tra una sezione e l'altra del nucleo coreutico, si levano ogni tanto lamenti rabbiosi perché "La guera ne ga distruto la casa, assassinà la mama, rovinà el papà e ridoto nualtri qua"(202). Si spera persino nel ricovero in ospedale "co' la scusa de l'artrite"(203), e intanto la scena accumula croci come una laica via crucis(204). Certo, la tensione scivola, nel finale pur aperto, verso soluzioni catartiche e recuperi melodrammatici, per rendere meno sgradevole il montaggio. Ma in ogni caso questa provincia, qui i sobborghi, torva e livida, assegna a Venezia un'aura da capitale, nella misura in cui sembra sprigionarsi dalla Serenissima, ora turbatissima, un simile sguardo disincantato e beffardo! E nondimeno a questa scena manca il capolavoro, si dice, o un drammaturgo di respiro europeo, magari un Pirandello(205). Perché si continua a sottovalutare il lavoro del pubblico, e di riflesso degli attori, anche grandi, nell'impedire alla scena autorale la mimesi del reale.
In compenso, nel momento in cui si propaga l'esperienza degli Stabili nel nostro paese, ecco che in laguna s'installa la microsala del Teatro Universitario, diretta da Giovanni Poli. Procediamo con ordine. Il 26 maggio del '21 esce un'intervista sulla "Gazzetta" su un progetto di rinascita della commedia dell'arte a Venezia, progetto realizzato almeno in parte tra luglio e agosto all'Excelsior del Lido, allorché da un apposito teatrino si sguinzagliano maschere di Arlecchino, cavadenti, morte in tabarro e bautta tra i clienti impigriti dall'afa estiva. Il tutto in una cornice musicale molto kitsch, a base di archi settecenteschi che eseguiranno musiche di Boccherini e Frescobaldi, in un clima da ballets russes in versione edulcorata e turistica. Anche se il responsabile dell'iniziativa dichiara di ispirarsi a Gozzi, "travolto dalla corrente dei tempi nuovi"(206). Vent'anni dopo, il 27 gennaio del '42, la compagnia sperimentale dei G.U.F. (Gruppi Universitari Fascisti) veneziani dà vita a La campana sommersa di Hauptmann, alla presenza di sua altezza reale la duchessa di Genova, e tra i giovani universitari figura pure Alvise Zorzi. E i G.U.F. rappresentano fronde e inquietudini negli ultimi anni del regime, incuneate nelle periferie delle facoltà, a ridosso del clima della Liberazione, rivendicando una trasparenza per quanto precaria. Nel '47, il 18 marzo, la Compagnia del Teatro Universitario di Padova presenta al Goldoni Coefore di Eschilo, nella traduzione di Manara Valgimigli e la ricerca sperimentale dei giovani si mostra così all'improvviso, un po' sulla scia dei G.U.F. precedenti. La regia del giovane De Bosio(207) appare legata alla "tradizione", come nota il giorno dopo la "Gazzetta". Tra la seconda e la terza di queste tappe diverse e successive, il 7 luglio '46, il centro culturale progressista dell'Arco, un nucleo costituito da intellettuali, poeti, pittori come Pizzinato e Vedova, critici come Gastone Geron e Luigi Ferrante, teatranti come Arnaldo Momo(208), debutta alla Fenice con Antigone di Anouilh. Le scene, allusive nel gusto di Craig e di Appia, sono firmate da Mischa Scandella, collaboratore geniale e fantasioso per anni(209). Qui, il disincanto esistenziale e la parodia del mito si intrecciano in timbri aspri e simboli ambigui a marcare il disorientamento feroce di un'intera generazione, mentre la storia antica viene ripercorsa e messa a fuoco in quanto discontinuità di gesti esemplari, sliricizzati e riutilizzati per decifrare le vicende contemporanee. Ebbene, nel '49, all'interno della veneziana facoltà di Lingue, parte l'avventura del teatrino di Ca' Foscari, all'inizio, entro l'imponente Aula Magna, oggi aula Baratto, dal nome del docente veneziano giunto alla cattedra in laguna nel 1974, quando ormai purtroppo l'esperienza volge al suo termine.
Si tratta di spettacolini di fortuna, con pochi oggetti, scenari rudimentali, fatti venire in parte dalla Fenice. Le 10.000 lire versate simbolicamente dal Dogadum e dal rettore Luzzatto paiono al momento un sussidio sufficiente, in quanto beau geste delle autorità accademiche, davanti a gradinate gremite di allievi e di qualche docente, convinti tutti forse di trovarsi davanti a qualcosa di provvisorio e di estemporaneo, per quanto divertente e insolito. I pochi leggii e i rudimentali décors non richiedono un grande sforzo economico, al di là del modesto obolo versato. La povertà dei sussidi si sposa del resto col gusto estetico del fondatore(210), già chiaramente orientato verso l'allusività degli strumenti linguistici, all'insegna di una gioiosa penuria dei mezzi, rovesciata in libertà creativa. Quale repertorio, la febbrile curiosità del giovane regista, smanioso di saziare una fame arretrata, come gli altri operatori teatrali nell'Italia del dopoguerra, recupera quanto era stato censurato dall'autarchia fascista. Ecco pertanto l'asse America-Russia, che nel '49 ripropone e in ritardo una sorta di alleanza ideologica tra cattolici e sinistra, ormai spaccata traumaticamente sulla scena politica del '48. Così, i testi che inaugurano queste aurorali messinscene sono Felice viaggio di Thornton Wilder, atto unico centrato in uno stile evocativo, tra realismo quotidiano e trasognante simbolismo, e L'anniversario, operina minore di Cechov, scandita nei moduli di un nervoso vaudeville. Ma, tramite Wilder, si adottano registri poetici, mescolando bizzarre malinconie a un pathos elegiaco, valorizzati e tradotti compiutamente nelle semplici letture successive operate dal regista, là dove lo spettacolo è annullato a vantaggio della partitura scandita a racconto suggestivo e malioso. Si organizza pertanto una serie di mises en espace, come nella stagione 1950-1951 le liriche ballate immerse nell'acqua, forse un omaggio a Venezia, storie di lutti e follie, lette nei registri dolenti e manierati di un oratorio commosso(211). Quindi, dal marzo '53, ci si sposta nella saletta gioiosamente catacombale, al piano terra rialzato di Ca' Giustinian dei Vescovi. Ben presto, almeno sino al 1975 circa, anno della chiusura di fatto del teatrino, fioccano da parte della critica nazionale e internazionale riconoscimenti prestigiosi(212), specie nei festival che li ospitano in patria e all'estero. Nel teatrino, si coltivano i vari seminari linguistici, perché a volte, a contatto colla drammaturgia straniera, si ricorre a traduzioni inedite, promuovendo una collaborazione fattiva colla facoltà veneziana(213). Tanto più che sono i classici a imporsi quale tirocinio indispensabile per allenare e forgiare gli strumenti recitativi a disposizione. Allo stesso tempo, nel '56, grazie al vaudevillesco Ballo dei ladri di Anouilh, Poli ha modo di saggiare gli agognati ritmi con spezzature stranianti, accelerazioni e raggelamenti improvvisi, inventando altresì tutto un genere di stereotipie farsesche, prolessi delle future maschere della commedia dell'arte. Tra le varie iniziative, figura pure il rilancio di una drammaturgia giovanile, che risvegli nuove forze a contatto col palcoscenico, tramite l'istituzione, dal '56, di un premio per autori al di sotto dei 36 anni, scelti tra universitari ed ex universitari(214), oltre che l'avviamento d'una scuola di recitazione(215). E dai duecento posti del teatro di Ca' Foscari, con un'ulteriore riduzione di spazio, nel '69 Giovanni Poli si trasferisce all'Avogaria: qui, i cento posti dell'antica cavana sembrano indicare lo zoccolo duro dell'audience più autentica della città, lontana da qualsiasi strategia commerciale.
Ma è il dialetto veneziano l'oggetto più autentico della ricerca di Poli, recuperato dal regista in una direzione astratta, grazie a una parlata salmodiante, agìta da lemuri e sagome oniroidi. Perché Poli, sollecitato altresì da una esplicita avversione nei riguardi del naturalismo in tutti i suoi aspetti, si mostra presto ossessionato dal mito delle maschere dell'arte, con una violenza e una dolcezza che solo la Germania romantica e la Russia futurista avevano conosciuto. Anzi, la commedia all'improvviso viene da lui ricondotta a una ipotetica originaria atellana(216), fino a ridurre la canonica differenza tra Goldoni e Gozzi, cara ai manuali. Goldoni, la riforma, la psicologia, l'avviamento al realismo, e Gozzi, la fiaba, il sogno, vengono sovrapponendosi l'un l'altro, con effetti spiazzanti per il critico e lo specialista, ma con esiti luminosi nel minuscolo palcoscenico, dinamizzato da una febbrile sarabanda(217). È però il contadino, il cencioso villano scivolato via dai plurilinguismi indiavolati della ruzantina Piovana nel '58 e de Las spagnolas di Calmo nel '61, messo a fuoco anche nell'alchimistica antologia, allestita nel '62, dal titolo eponimo, perché contiene pure un pezzo da The alchemist di Ben Jonson, il vero protagonista di tali féeries espressioniste. Si drizza costui o si raggomitola, in mezzo alle altre festose maschere, ostentando di volta in volta proterve sguaiataggini o pusillanimi fami ancestrali (ed è il suo rabbioso alfabeto, come nello spettacolo del '71(218), ad aprirsi un suo spazio traballante e sanguinoso), magari travestito socialmente da facchino tonto e smargiasso, abulico e frenetico. In tal modo, nonostante le astrazioni metastoriche in cui pare celarsi la protesta subalterna, è il suo disagio di vinto a mormorare minacce e speranze prima che la rapsodia pittoresca di Poli lo riassorba in puro segno estetizzante. Il culmine di tale operazione viene certo raggiunto nel '58, colla Commedia degli Zanni, inventario ricostruito su canovacci forniti dagli studi di Pandolfi(219) e di Apollonio, spettacolo che girerà il mondo intero, tra continue riproposte e aggiornamenti, divenendo una sorta di portabandiera del teatro cafoscarino, ambigua compresenza di stilizzazioni decadenti e di corporalità viscerali, balletto bidimensionale di fantasmi iconici e rusticano trescone carnascialesco (si veda la guizzante tarantolata delle pulci, forse il pezzo più rappresentativo della raccolta). Qui Poli riesce a trasformare il gruppo attorale e lo spazio complessivo in strumento personale, tastiera immediata per le pulsazioni di una sensiblerie cresciuta musicalmente grazie agli apporti di Appia e Copeau, ossia il tréteau nu popolato dall'arcano e dal sogno, e tentata di continuo da una insolita commistione tra verbo lirico e fisicità originaria. Non manca però la ricerca altresì nel versante del sacro sublime(220), con ricostruzioni di laudari medievali e di cerimoniali liturgici(221). Tra il '64 e il '65, la gestione del teatro cafoscarino passa ad altre forze, più giovani e spregiudicate, più inquiete ideologicamente e reclutate dagli studi universitari. In tale ambito, s'impone la precoce personalità di Renato Padoan, all'epoca studente in Lettere. Adesso, la scena tende a icone più complesse, legate a giochi d'ombre, a ludiche architetture, a macchine celibi, grazie a una propensione un po' dada per folgoranti contenitori. Edicole gotiche, ante d'altare, magari issate su ruote e ingranaggi, sommuovono lo spazio componendo collages religiosi e blasfemi, in un sincretismo folle tra protocolli antichi e sagome avveniristiche, in un gioco di flash e di ombre, tra trucchi ciarlatani da théâtre de la foire e misteriose magie. Del resto, la successiva carriera del regista, docente di Scenografia alla facoltà di Architettura, conferma tale vocazione a fare del luogo scenico il motore della partitura(222). Si approfondisce altresì l'indagine sul territorio, sui fantasmi che circolano tra antichi cerimoniali festivi, entro biblioteche insolite e copioni esoterici. La strategia culturale del teatrino coincide a poco a poco colla drammatizzazione dell'archivio lagunare, colla microstoria del territorio inquadrato in una prospettiva barocca. Perché se la tradizione dialettale resta un po' sullo sfondo, fatta eccezione per il Reduce ruzantino, ambientato nel '68 a Caporetto, è in cambio il milieu locale a divenire soggetto privilegiato per le autonome scritture del regista-drammaturgo, che può calarvi il suo gusto storiografico e la sua disordinata curiosità filologica(223). La presenza di stars del firmamento culturale(224), nazionale e internazionale, è una politica perseguita dal gruppo per valorizzare l'immagine del centro cafoscarino(225).
Nel frattempo, le sovvenzioni erogate dal Ministero del Turismo e spettacolo giungono sempre più sfasate rispetto alla bisogna, coll'inevitabile ricorso a crediti bancari esosi negli interessi, e risicate poi nella sostanza, con brusche riduzioni degli aiuti, come avviene nel 1970, allorché gli stessi passano da 12 a 7 milioni, costringendo, tra l'altro, la direzione del teatro a introdurre i biglietti paganti all'ingresso (richiesti nondimeno anche dall'urgenza dei borderò dal momento che cominciano a essere ospitati gruppi professionisti). Intanto, ai bordi della saletta, soffia il '68, tra happening, animazione e controcircuito di Fo e del padovano Giuliano Scabia. Così, alla metà degli anni Settanta, allorché si vanno spegnendo le motivazioni strettamente teatrali dei suoi conduttori, attratti da altri progetti personali, allentati i vincoli tra istituti universitari, disorientati dalla proliferazione delle proposte e degli indirizzi, e la direzione del palcoscenico, la sede gloriosa del teatrino viene dunque occupata, non come l'Odéon dagli studenti e dagli operai in rivolta nella Parigi del maggio glorioso, ma più prosaicamente dalle scartoffie della segreteria, mentre si provvede a emarginare la sala a S. Marta, quale lontano e inospitale contenitore delle facoltà di Chimica. Ma qui è annunciata, per la fine dell'anno 2000, la nuova sede del neonato C.U.T. (Centro Universitario Teatrale) veneziano, attivo dal '91.
Che scena si configura quando la Serenissima viene vista dalla provincia, e l'acqua pare allora assediata dalle terre vicine? Una scena di solito apocalittica. Tutto il Novecento, dalle alchimie roboanti del Fuoco dannunziano, che apre il secolo, e dalla nordica visione manniana della Morte a Venezia del 1912 sino al più recente Fondamenta degli incurabili di Josif Brodskij del 1989, è un rincorrersi sublime e stereotipo di malinconiche decadenze e di nostalgie del passato intorno alla crisi di una classe o di un'anagrafe personale, tra viaggi e crisi epocali. Non sono bastate le sferzanti maldicenze futuriste sul "letto sfondato da carovane di amanti, semicupio ingemmato per cortigiane cosmopolite"(226), con lancio di insulti dal campanile di S. Marco, a scongiurare la fissazione di una scena primaria, luttuosa e struggente. Demonizzazione e dicerie, altresì, sul potere iettatorio della sede per antonomasia del binomio amore e morte, possono provenire da un'acqua concorrente, come Trieste. Nei quindici anni che precedono la Grande guerra, o poco prima, a Murano lavora un triestino che di teatro se ne intende, cui dobbiamo le sole commedie altoborghesi del nostro palcoscenico, misconosciuto necessariamente nel tempo dei Benelli e degli Antonelli. Si tratta, per chi non avesse capito, di Italo Svevo, sequestrato alla sacca Serenella di Murano presso la ditta dei suoceri, la fabbrica Veneziani specializzata nella produzione di vernici marine antialghe, indispensabili per la navigazione commerciale e militare degli scafi. Ebbene, in un suo atto unico sommerso(227), Commedia inedita, una signora indispettita alla proposta del marito commerciante che vuol trasferire la famiglia a Venezia, lontano dal corteggiatore intellettuale, secondo la consueta scissione della figura maschile cara ad Ettore Schmitz, accusa così la città: "In quelle viuzze ove non si può tenere aperto l'ombrello se piove io non potrei vivere; mi mancherebbe l'aria. Anche tutta quell'acqua, mi annoia, quei ponti che possono cadere, tutta la città è pericolante e può da un momento all'altro andare a picco come un naviglio [...]. E poi quei veneziani che fanno tutti i fatti loro in strada. Vi dormono persino!"(228). Passa qualche anno, dopo questa maldicenza, e ci spostiamo nell'area industriale di Porto Marghera, verso cui si orienta l'utopia degli animatori postsessantotteschi. Tra costoro, novelli aedi gramsciani alla ricerca dell'identità perduta in aree di recente immigrazione e forte tensione sociale, operano il già citato Giuliano Scabia(229), in seguito mirabile narratore in proprio, stimolatore di filastrocche intorno alla dialettica acqua/terraferma, Loredana Perissinotto, poi autrice di importanti riflessioni sociologiche sul tema, e i cantanti Alberto D'Amico e Gualtiero Bertelli, quest'ultimo anche maestro elementare(230). Ora, qualcosa delle cantilenanti ricerche per infanti e famigliari scivola dentro la recente esplosione di Marco Paolini(231), affabulatore veneto sceso dai monti bellunesi a Venezia a cantarne l'estraneità tra suoni aspri e seducenti(232). Mentre i titoli del teatro veneto sprofondano ormai nei circuiti filodrammatici, è a questo attore che si deve la singolare renaissance della scena dialettale, affidata anche a una fortunata epifania mediatica. Identificatosi felicemente col nesso tra tribunale alpino e campanilismo culturale, giunto a fama nazionale grazie al suo lancinante monologo Il racconto del Vajont, sul disastro della diga a Longarone, Paolini riscopre il diritto/dovere di sporgersi verso radici interne e territoriali. Lo si osservi e lo si ascolti in questo Racconto, forse lo spettacolo più rappresentativo dell'ultimo decennio, che dal 1993 al 9 ottobre 1997, ossia alla ripresa televisiva in diretta da Longarone, percorre in lungo e in largo l'intera penisola con frequenti escursioni all'estero(233). La ricostruzione della tragedia, coll'individuazione precisa dei responsabili al di fuori di qualsiasi fatalismo assolutorio, si traduce tecnicamente in un comizio implacabile, nonostante il tono bonario e conversativo. Allorché al termine delle tre ore dell'"orazione civile", misto di teatro inchiesta, teatro denuncia, teatro di costume, l'attore invita il pubblico ad alzarsi in piedi, una grande emozione attraversa la sala, dovunque lo spettacolo venga allestito. Ma già in sue precedenti performances narrative(234) è la storia pubblica che filtra tra i ricordi privati, ossia i traumi collettivi immedicati che infestano l'Italia negli anni Settanta, come la risposta violenta delle istituzioni contro le rivendicazioni operaie e gli scontri sociali, o i tanti lutti pubblici che dilaniano la coscienza del paese. Qui, isolato sul palcoscenico, assistito al massimo da qualche supporto musicale, Paolini sviluppa il suo canto/discorso, in un flusso verbale onnivoro e insaziabile, esperto nelle pause e negli sguardi dolorosi, negli ammicchi beffardi e interrogativi lanciati alla sala. Eppure alla nostra indagine serve più Il Milione del 1997, vivace excursus sulle peripezie attorno all'aeroporto veneziano, con innesti da Gianfranco Bettin, e canzoni di D'Amico e Bertelli, e sulle buffe disavventure di un pendolare tra terraferma e città lagunare. Perché vi si descrive in toni buffoneschi e patetici il mix di tecnologie postindustriali e di labirinti naturali da parte d'uno Zanni bergamasco, uomo delle montagne, tra spaesamento e fascinazione. Ed è la voce rauca, mansueta e implacabile di Marco, dal suono raschiato che rinvia ai cantori lagunari, come i citati Bertelli e D'Amico, il corpo abbigliato nella foggia, tra giubba e berretta, di un fool contadinesco sbucato fuori da qualche farsa ruzantina, l'elasticità e la durezza insieme della sua presenza, a farne l'interprete-narratore più 'impegnato' della nuova generazione, conferendo a questa parola il significato meno ideologico e militante possibile e nondimeno più ricondotto al suo etimo, nel tempo di Internet e della new economy. Ne Il Milione, apologo ancora di un laico apostolo sul Nord-Est metamorfico, parabola sulla mappa della Padanìa turistica-commerciale-impresariale, invasa da slavi e albanesi, dove il milieu viene fissato nei dinamici strati idiomatici e nei suoi simulacri poetici(235), il tema dell'Adriatico/Mediterraneo potrebbe collegarsi, tra etimologia e antropologia, sociologia dei traffici e mitologie, storiografie e iconografie, al breviario aforismatico sulla civiltà d'acqua/terra del croato Predrag Matvejevic(236). E Paolini, ancora, più che gli altri performers, dietro la gravità umile e solenne della posa, trasmette l'evangelico, ma molto fisico, piacere di comunicare, di portare la buona novella, di dominare la platea con dolcezza, di darsi con una foga discorsiva quasi bulimica. Tanto più che ogni tanto elasticizza il proprio corpo quale mimo provetto, e lo elettrizza, salendo verso il canto, tra minimi accenni di danza, in una gradevole alternanza tra colloquio col pubblico e momento espressivo, tra recitativo potremmo dire giornalistico e aria poetica, come nel Fo migliore(237). Si veda il suono cadenzato con cui rende, sempre nel Milione, il viaggio in mototopo, con molleggi reiterati e riprese ritmiche a conferire una tridimensionalità incantatoria al racconto, tra paline lagunari e luci fiaccolanti sul fondale, dove oscillazioni rapinose trascolorano dal giallo/rosso del porto industriale all'azzurro di albe rigeneranti per decolli di aerei. Non basta, perché la ricerca espressiva procede con Bestiario veneto nel '98, innesto di prose da Comisso a Paolo Rumiz, di contributi storici e teorici sugli amati luoghi, e di innesti poetici dagli amatissimi Zanzotto, Pascutto, Marin, Noventa e Calzavara, cioè le solitarie voci montane-collinari o rivierasche, o marine, in un inventario sistematico di "parole mate". Attraverso un work in progress che metabolizzerà pure frammenti dell'Amleto e del Macbeth(238), tradotto da Meneghello in vicentino, si cataloga insomma un'autentica biblioteca veneta, all'insegna di un leghismo linguistico(239) però democratico e tollerante, in quanto desideroso di incontrarsi con altre parlate e altre immaginazioni(240). Dialetto come concertato conversativo, allora, freschezza comunicativa che sembra derivare dai ritmi goldoniani, ma che orecchie straniere affinate percepiscono e legano alla struttura audiovisiva dei suoi luoghi, quasi metafora onomatopeica che ricorda "il rapido stacchettare delle nostre donne, quando attraversano gli innumerevoli ponti della città"(241). Suono, anche, chino verso il corpo e la terra. Suono dell'origine, infine.
Ma questo teatro monologante della narrazione, questo montaggio verbale allo stesso tempo testimonia una continuità dei nessi tra dialetto, verso e virtualità drammaturgica, un'antica e non resistibile propensione all'oralità, fenomeno di lunga durata nella scena veneta(242). Di continuo, infatti, ci si imbatte in poesie e racconti che anelano alla pronuncia fisica, al filò. Per restare nel nostro secolo, si pensi alla linea che dal già visto Varagnolo conduce idealmente al suo amico Facco De Lagarda, da Noventa a Calzavara, là dove il testo si vuole phoné narrante o parola dialogante con un tu esterno, metafora del pubblico, di volta in volta epigramma rapinoso, struggente offerta d'amore, invettiva beffarda, ora scorcio minimalista ora surreale ritratto(243). E spesso, nella medesima pagina non destinata in apparenza alla scena si aprono all'improvviso mirabili convivenze conflittuali tra dialetto e lingua, vocabolario misto, quasi una 'satura' espressiva. Per restare a Facco, si pensi a Cronache cattive, raccolta di prose del '62. Qui si dispiega un'ariosità effettiva, una leggerezza paragonabile a certi acquerelli di Guidi(244). In queste "cronachette" non mancano toni da 'amarcord' futuro alla Meneghello, per l'esplicita teatralità garantita dalle frizioni di un felice bilinguismo. Ad esempio, l'io narrante rievoca la propria adolescenza trascorsa al liceo ginnasio "Marco Foscarini", per ruminarvi le anamorfosi foniche subìte dalle parole del docente: "Lubecca è sul mare (e il coro: Lubeca so mare); Erz Gebirge (e il coro: Risi coi bisi); sulle rive del Katoyo si trova Bagamoyo (e il coro ripeteva il distico con furiosi miagolii)"(245).
La tradizione veneta, da Goldoni a Nievo a Svevo (quello della Novella del buon vecchio e della bella fanciulla), sembra raggrumarsi qui, come in certe antonomasie dalla carnalità contagiosa. Si legga Il conte, ad esempio, per assaporare un gusto antico di villeggiature della Serenissima, con promiscuità sessuali tra padroncini e ancelle. Il vecchio nobile, "giallo, asmatico e quasi sordo [...] col suo cranio d'avorio"(246) dev'essere messo in viaggio, fasciato da scialli scozzesi, e intanto gongola pregustando che in campagna potrà "pissegar le spose e magnar polenta e osei". Poi il taglio diegetico cede il passo alla concitazione dialogica, e lo scambio tra senex e servetta si colora con tocchi di allegretto ilarotragico: "'I ociai. Dove xe i ociai?' / 'Ecoli, signor conte' / 'Le giozze... Sunta, gogio tolto le giozze?' / 'Sì, signor conte, el le ga tolte'. / '... E il termos? Dove gavé messo quel natoduncan de termos?' / 'Ecolo... El lo gaveva in mezo a le gambe'"(247). I gusti del conte, incerto tra "done" e "cavali", si chiariscono nel rituale invito a ricordarsi del sapone, rivolto alle fantesche: "el saon, il sapone... Tegnive nete, tose, e sempre pronte"(248). Pluralità di registri, perché il medesimo vecchio si addormenta di sera, o meglio si spegne, a ridosso di una giovane governante, che gli dorme accanto. Qui, la lingua italiana riprende il suo percorso, ormai contaminata, inumidita dallo scambio ilarotragico col dialetto, e par ricollegarsi all'immagine nichilistica del vecchio morente nella citata novella sveviana(249).
Al di là dei messaggi che vengono da una simile scena scatologica/escatologica, resta, come detto, la pronuncia 'meteca', là dove appunto la lingua si sporca a inghiottire dialetti e a farli risuonare per vie oblique, lingua che non vuol essere letta ma incarnata nello spazio. Sono queste le felici premesse allora per un italiano bilingue di continuo tentato a ridiscendere nell'alveo maternale e fisiologico dell'altra koinè, lasciando scorrere il sangue di parlate eterogenee, di suoni diversi, mettendo su muscoli e carne, acquistando nuovi timbri e nuovi pubblici. In una parola, questa scena punta alla musica. Del resto, lo stesso Paolini, allorché si associa, come detto, sia pur sobriamente a gruppi musicali, lascia trasparire la cantabilità quale destino costante del teatro veneto, la linea eterogenea che da Nina, no far la stupida! conduce sino agli ultimi prodotti di una volatilità ritmica del suo più attuale palcoscenico(250). Ebbene, sempre grazie all'energia che Paolini mette in moto sulla scena nazionale, grazie ancora alle trasfusioni di vitalità sanguigna da lui effettuate sulla drammaturgia vernacola, svapora, almeno per ora, la contiguità tra dialetto e malinconia regressiva, mentre la Serenissima torna a dialogare coll'interno delle sue terre. A sua volta, l'Arsenale riattivato per escursioni abbacinanti di recenti performances alla Biennale, permette che i luoghi dell'antico territorio e le fonti tecnologiche di quel dominio si snodino nei più leggeri e leggiadri terreni dell'imaginaire. La scena del/nel Nord-Est risponde così al boom economico e alla disseminazione produttiva dell'era postindustriale in aree un tempo depresse, a conferma in fondo che a ogni progressione materiale di un territorio segue prima o dopo un correlato nel piano culturale. Almeno, questa è la nostra speranza.
1. Il processo di mutazione e riduzione spaziale relativa ai palcoscenici della Serenissima è documentato sia da Giuseppe Tassini, Edifici di Venezia distrutti o volti ad uso diverso da quello in cui furono in origine destinati, Venezia 1969, che da Nicola Mangini, I teatri di Venezia, Milano 1974, e da Franco Mancini-Maria Teresa Muraro-Elena Povoledo, I teatri del Veneto, I, 1, Venezia e il suo territorio. Teatri effimeri e nobili imprenditori, Venezia 1995, e I, 2, Venezia e il suo territorio. Imprese private e teatri sociali, Venezia 1996. Da qui si ricavano notizie sul boom teatrale della Serenissima, paragonabile al West End londinese o alla Broadway d'oggi: se nel 1642 si contano ben cinque teatri lirici (il Cassian, il Salvador, il S. Moisè, il Giovanni e Paolo, il Novissimo), nel primo Settecento coesistono quattro conservatori musicali, mentre alla fine del secolo dei Lumi Venezia dispone addirittura di otto sale. Ma Venezia è stata pure all'avanguardia nel campo delle attrezzature tecnologiche applicate al palcoscenico. La prima a introdurre, anno 1844, nell'attuale Teatro Goldoni l'illuminazione a gas (il Settecento, secolo dei Lumi, è stato una lunga notte squarciata da candele).
2. Forse oggi la specificità dell'offerta viene rispettata solo dal Teatro Universitario e dalla saletta sita alle Fondamenta Nuove, di proprietà privata, e sorta da un antico magazzino di legname, caratterizzata da rassegne di teatro danza.
3. Il decreto napoleonico del 1807 sanciva la riduzione del mercato teatrale lagunare, per adeguarlo alla popolazione residente. Rimangono allora operanti la Fenice, il Benedetto, il Grisostomo e il S. Luca. Poi l'Austria, dopo il '15, infierisce colle tasse erariali, a pesare sugli ingressi, a vigilare con molta serietà e rigore per le leggi antincendio.
4. Cf. Albano Trevisan, Forme spettacolari minori a Venezia fra '800 e '900, "Biblioteca Teatrale", 1987, nrr. 5-6, pp. 265-286.
5. Nel 1925 sono aperti ben quindici cinematografi.
6. E le sale si chiamano l'Italia, il Modernissimo (anche per burattini), il Minimo per animazione e teatro di figure, il Massimo (anche per il varietà), il Teatro Salesiano per marionette a Castello, il S. Margherita (anche per il varietà), il Teatro per i piccoli, quello al Lido per operette, e sale parrocchiali come ai Frari o il Teatrino degli Artigianelli.
7. Aumentano infatti i dopolavoro filodrammatici, quello del Littorio, quello del pubblico impiego, il Teatro delle Giovani Operaie, il Dopolavoro postelegrafico, quello ferroviario, la Casa di S. Antonio dei Frari e quello sulle Fondamenta Nuove ai Gesuiti.
8. Ma nel Novecento, il Rossini alterna film a opere e ospita trasformisti, cani ammaestrati, acrobati che si reggono su scale coi denti, danzatori spagnoli, cantatrici e caricaturisti, insomma uno spettacolo "accessibile ad ogni famiglia", come riporta la locandina sulla "Gazzetta" il 5 dicembre del '21, e fa spazio nel marzo del '22 pure a un torneo di lotta e quindi a un circo equestre, e nel luglio del '25 alla rivista con Totò e, nel gennaio del '29, all'avvento del cinema sonoro, ospita Quadri di plastica euritmica e poi burattini.
9. Il Malibran, grazie alla sua tradizionale politica di biglietti a poco prezzo, riaperto coll'Otello nel '19, nel '21 ospita una Principessa della Czarda doppiata alla Fenice. Dove, tra l'altro, accede saltuariamente la prosa, come per i controversi Sei personaggi pirandelliani, accolti nell'edizione originale di Niccodemi il 9 dicembre del '22, e nel '25 il féerico Uccellino azzurro di Maeterlinck con Tumiati. E sempre Malibran e Goldoni allestiscono lo stesso giorno, il 9 dicembre del '21, un Tolstoj, a testimonianza d'un'offerta male articolata, Resurrezione colla Gramatica il Goldoni, e Sonata a Kreutzer il Malibran. E qui non mancano scampoli esilaranti di varietà, come nel '25 quando Petrolini vi porta Mille lire di Salvator Gotta. E la rivista francese nel maggio del '28.
10. Ad esempio, il 6 ottobre del '22, Carlo Micheluzzi sferra a Roma una polemica dalle pagine della "Gazzetta" attaccando la Società Rossetto e compagni, proprietari del Malibran e Rossini, in quanto il primo sarebbe in pratica invaso dagli spettacoli lirici e il Rossini asservito all'operetta, "a spettacoli di varietà, ai circhi equestri ed alla proiezione di films spettacolosi". E si lamenta perché il Goldoni dalla proprietà Marigonda ormai è "riservato esclusivamente a tutte le primarissime compagnie di prosa", sempre impegnato da queste ultime, al punto che le venete sono confinate alla fine della stagione, a due settimane al mese di giugno.
11. Eppure, negli anni Trenta, il Goldoni ospitava spettacoli vari. E il giorno 11 dicembre del '32 la "Gazzetta" annuncia un cartellone cinematografico "di carattere occasionale che si potrà ripetere solo quando le condizioni antiche in cui versa attualmente il teatro italiano non permetteranno un seguito ininterrotto di spettacoli di prosa che siano degni delle tradizioni artistiche dello storico teatro". Così, in più occasioni la rivista si fa largo al Goldoni negli anni Trenta, dalla Za-Bum a Totò (dal 3 al 9 novembre del '34), dalla Bluette-Navarrini che nel '42 si alterna alla furoreggiante Dina Galli, dalla compagnia viennese alla De Rege-Maresca-Tommei nel febbraio del '43. E ancora Dapporto nel marzo e Rascel nell'aprile del '47. E serate d'arte magica nel maggio del '40 e nel gennaio del '41, grazie al cavaliere ufficiale Gabrielli. E ancora operetta viennese e ungherese, Cavallino bianco e Mazurka blu nel giugno '42, così come nel novembre del '46 colla compagnia Dezan-Carmi con Vedove allegre e Principesse della Czarda, Bajadere e Madame di Tebe. Una continuità di repertorio singolare che pare retrocedere a mera sovrastruttura gli smottamenti epocali del quadro politico istituzionale.
12. Cf. Carlo Micheluzzi, Sessant'anni di teatro, Padova 1969, p. 92.
13. Ecco qualche prima o quasi prima: il 14 maggio '29 la compagnia diretta da Sem Benelli fa debuttare Donizetti di Rossato. E il 27 settembre del '30 Marsiglia di Pagnol colla ditta Palmarini-Capodaglio, e Penelope di Maugham l'11 ottobre, colla compagnia di Marta Abba ormai attratta dai mercati americani, e Giorno di ottobre di Kaiser colla compagnia di Renato Cialente il 29 ottobre, mentre Maria Melato porta al debutto nazionale Il miracolo di Valentino Piccoli il 27 novembre. E nel '31, si prosegue colla prima di Mistigrì di Achard colla De Riso-Donadio il 12 ottobre, e quella del giallo di Wallace, Il gran premio di Ascot colla Lupi-Borboni-Pescatori. E nel '32, El trionfo di Gino Rocca, colla compagnia di Cavalieri, versione di Micheluzzi del testo in lingua del '31. E nel '34, Renzo Ricci porta a battesimo Il marito che ho voluto di Louis Verneuil. E il 20 aprile del '42, ecco la prima dimessa di un testo come quello di Duse, Virgola.
14. Autoidentificata nella Duse, essendole stata contigua come Sirenetta nella Gioconda dannunziana, la Gramatica porta nel '19 il suo boulevard sentimentale con La nemica di Niccodemi e nel '25 la Santa Giovanna di Shaw per poi civettuolmente invecchiarsi con Le medaglie della vecchia signora di Barrie nel '30, che funziona per il tema della decadenza geriatrica e nobiliare, cara alla platea come si dirà più avanti, e lo stesso '30 vi torna in dicembre portando testi affini alla maternità sofferta, da La porta chiusa di Praga a Congedo di Simoni, per poi dannunzianeggiare nella serata d'onore il 24 maggio del '32 con La città morta e nel dicembre del '41 colla 'sua' Damigella di Bard di Gotta. Confluisce poi in partecipazioni straordinarie entro la ditta Micheluzzi nel febbraio del '44 alla Fenice per un lagrimoso I oci del cuor di Gallina.
15. Umberto Palmarini, dalla sussiegosa e compunta dizione, coraggioso nelle scelte di repertorio, ma approssimativo nelle traduzioni scioviniste, porta al Goldoni nell'ottobre del '23 rispettivamente il cechoviano Lo zio Giovanni, ossia Zio Vania, e I mancati, vale a dire il fosco e deprimente Les ratés di Lenormand. Quanto alla Capodaglio, singolare il sodalizio artistico da lei intrattenuto col piccolo e rapinoso interprete bilingue Alessandro Moissi, di cui si vociferava che era stato scartato da una Duse timorosa di perdere colpi al suo fianco. E Moissi folgora le spettatrici veneziane nel '34 con due delle sue figurazioni più richieste da tutta Europa e oltre, ossia nel marzo il tolstoiano Cadavere vivente, e La leggenda di ognuno di Hofmannsthal a fine maggio.
16. Falconi occupa per circa un mese il Goldoni nel '22 da aprile a maggio con testi suoi, di Testoni (La spada di Damocle il 15 aprile) e copioni prelevati dalla solita Francia, autentica cornucopia per la pochade. A volte presenta questo turbillon di farse assieme alla verve infantile e capricciosa di Dora Menichelli, come nel gennaio/marzo del '23. Nel '29, dal 7 gennaio al 10 febbraio, si annette invece la provocante Paola Borboni con repertori ungheresi-francesi, che includono pure Benelli, non ancora emarginato per dissapori colla censura fascista, per l'apologo Bellinda e il mostro di Bruno Cicognani. Ma nel genere leggero, arriva anche la seduzione inamidata di Nino Besozzi, spesso ospitato per i suoi repertori di marca più anglosassone, come nel febbraio del '34.
17. Il pirandelliano Tutto per bene nell'ottobre del '20 (riportato nel '30) passa al debutto solo grazie all'acclamato e collaudato Marchese di Priola di Lavedan. Nel '21, ecco lo Sly smemorato di Forzano. E Ruggeri intensificherà patologie e arzigogoli col pirandelliano Enrico IV il 28 agosto del '22 e morbidezze e incanti lessicali col dannunziano La Parisina il 27 settembre del '22 insieme alla ditta Talli e cioè con Alda Borelli e Sigfrido di Giraudoux nel '30 o Più che l'amore, sempre dannunziano nel '33, e nel novembre del '41 il fosco e delirante Pensiero di Andreev, mentre la Borelli porta nel '20 Glauco di Morselli, delicata palinodia dannunziana, ossia rilettura del mito in chiave intimista e pacifista. E un suo più rigoglioso e virile emulo, Renzo Ricci, porta in scena quel che allora si considerava un autore provocatorio e un po' lascivo, ossia Bourdet col suo Tempi difficili. Ma nel gennaio del '43 interpreta in modo convincente Amleto e Otello. Quanto alla ditta Talli, la più rigorosa, per concertazione protoregistica, ditta di complesso, la compagnia vi porta nel '21 copioni alla francese, di elegante registro boulevardier, tra Verneuil e Duval.
18. Nel '34 fa sfilare al Goldoni il Cyrano di Rostand e Il beffardo di Berrini.
19. La Merlini giunge al capocomicato negli anni '30 con repertori ungheresi e boulevardiers da Molnár a De Benedetti e Maugham, prima dell'incontro con registri più seri tramite Renato Cialente, passato con lei dopo la fine del sodalizio colla Pavlova.
20. V., dopo La tana del lupo dell'ungherese Molnár e Quello che prende gli schiaffi del russo Andreev, il Mirra Efros dell'yiddish Gordin nel '32. Ma per la Pavlova, in laguna si sorvola sui difetti di pronuncia, persistenti sulla sua bella bocca occupata da suoni non toscani, come la rimproverava irritato e un po' sciovinista il critico Marco Praga, specie nell'interpretazione di copioni nostrani, v. il trittico di Rosso di San Secondo, ossia il tormentato Marionette, che passione!, il provocatorio Una cosa di carne (il giorno dopo, il 16 maggio del '25 l'articolista del "Gazzettino" controlla maligno il servizio d'ordine sparso in sala inattivo, per la vicenda della cocotte sposata quale corpo-oggetto dal borghesuccio nel bordello e poi ribelle una volta che la bambola si sceglie madre), e l'apologo L'avventura terrestre. La stessa Pavlova nel novembre del '34 conferma gusti cosmopoliti portando a Venezia autori come Hauptmann e Jeanson.
21. Ecco nel '19 Ma non è una cosa seria, che, portato dalla Gramatica, sconcerta per l'inconsueta leggerezza, insuccesso bissato pure nel marzo del '30. E il 28 agosto del '28, l'articolista della "Gazzetta", a firma g.d., prende le distanze, in occasione dell'Enrico IV ruggeriano, di cui stigmatizza la mancanza di una "umanità che non fosse quella puramente artificiosa del suo cervello di costruttore. Così essa non commuove e non avvince in nessuno dei suoi momenti". E ancora si sottolinea "una consistenza più orpellesca che sostanziale". Ma la Abba, musa ispiratrice sublimante e torbida dell'ultima fase del commediografo siciliano, è al Goldoni sin dal novembre del '26 colla sua compagnia pirandelliana grazie a Due in una, ovvero La signora Morli una e due, e Berretto a sonagli per poi tornarvi, ormai garantita, nel maggio del '28 con Diana e la Tuda il 16, Sei personaggi in cerca d'autore (e l'autore il 18 tiene un discorso sulla Fiera del Libro inaugurata il giorno dopo a S. Marco), Così è (se vi pare) e La nuova colonia il 25. Nel maggio del '33 eccola ancora una volta con copioni nuovi per Venezia, come lo scabroso L'uomo, la bestia e la virtù, Trovarsi, omaggio ibseniano confezionato per lei da Pirandello quale clonazione enfatica dalla Duse, Come tu mi vuoi, alternati però a intrusioni di boulevard, Divorziamo di Sardou e civetterie colla sala come La vedova scaltra. E nel '34 rieccola con Quando si è qualcuno e O di uno o di nessuno.
22. La compagnia alterna Le storie del Signor Bonaventura al tocco boulevardier di Guitry per poi ripresentarsi nel '34, col nome di De Sica in ditta al posto di Almirante, in un tripudio ungherese di Molnár mescolato sempre a Guitry, oltre al delicato e ironico Lohengrin di De Benedetti.
23. La dichiarazione avviene dopo la prima veneziana del Don Buonaparte di Forzano. Ma poi il vecchio attore naturalista ci ripensa e si mostra di nuovo al Goldoni il 1° gennaio del '40 col suo pacioso e accattivante Cardinal Lambertini di Testoni, in un clima postconcordatario.
24. Così la Ninchi-Tumiati col Glauco antimilitarista e disincantato di Morselli nel gennaio del '42.
25. Ecco allora i già incontrati Spettri di Benassi tornare a scadenza fissa nel gennaio del '43 e nel gennaio del '44. E Benassi vi porta pure Enrico IV nel marzo del '44, eroe detronizzato e chiuso nel suo furore come altri tiranni. Perché i nostri protagonisti nazionali tendono a ripetersi, come detto. Laura Adani, già Signora delle camelie e Nora in Casa di bambole, nel gennaio del '42 si incarna in Hedda Gabler, mentre la compagnia dell'Eliseo diretta da Gino Cervi nel maggio del '41 fa sfilare sulla scena del Goldoni i vari Cantini, Testoni, Zorzi e Gherardi, e Giulio Stival si accaparra nel dicembre del '43 il pirandelliano Giuoco delle parti e Il piccolo santo di Bracco. E ancora la Torrieri-Carnabuci si impossessa de La moglie ideale di Praga, Zio Vania, e Pel di carota di Renard nel febbraio del '44.
26. Il 5 febbraio del '26 "Il Gazzettino" descrive ilare le chiassate goliardiche in sala, occasionate dal Carnevale e dalla presenza in scena di Petrolini, incoronato re della festa, e basate sul rituale "inberrettamento delle matricole di Ca' Foscari". Nessuna percezione della svolta autoritaria nel paese o allusioni alle leggi speciali.
27. Dietro il nome di Cortesan si nasconde lo stesso Cavalieri, non si sa se come autore o riduttore, cf. Nicola Mangini, Il teatro veneto moderno 1870-1970, Roma-Venezia 1992, p. 338, libro fondamentale per questa nostra storia. In tale ambito, e relativo al periodo più recente, cf. pure Carlo Manfio, Viaggio nel teatro veneto 1970-2000, Vicenza 2000.
28. Così la compagnia di Guglielmo Giannini, poi destinato nel '45 a vivere scampoli di popolarità nel movimento qualunquista da lui promosso, sforna thriller efficaci ed eleganti, come Il delitto di Lord Arturo Saville, il 6 marzo, adattamento sciovinista sin dal titolo del testo di Wilde, così ancora Romano Calò, che dal '28 al '40 porta sulla scena del Goldoni gialli in serie.
29. Nelle prime file si distinguevano i marinai della Decima Mas e i ministeriali di Salò, oltre a militi delle Brigate Nere e della Wehrmacht. Tra i vari accorgimenti previsti dal piano accurato dell'evento, anche l'assicurazione che l'Azienda Elettrica Cellina, nella persona del capotecnico solidale col gruppo, avrebbe interrotto l'erogazione dell'energia al teatro, nel caso di conflitto a fuoco, oscurando così l'intera zona, cf. Giuseppe Turcato, La beffa di Venezia, in 1943-1945. Venezia nella Resistenza. Testimonianze, a cura di Id.-Agostino Zanon Dal Bo, Venezia 1976, p. 254 (pp. 249-257).
30. E spesso cambia il colore politico nei titoli. Il 4 luglio del '46 ecco infatti la compagnia del Teatro del Popolo dare al Goldoni Primo maggio e Senza patria dell'anarchico Pietro Gori. Il 21 marzo '48 la Fenice viene sequestrata per celebrare il centenario della Repubblica di S. Marco di Manin e Tommaseo, in un'ibrida contemporaneità col recentissimo cambio istituzionale dello Stato, e si ripropone il vecchio Un gran sogno di Luigi Sugana.
31. Si tratta di Radio... Radio... sempre Radio dal 13 al 15 giugno, allestito dalla compagnia di radio-varietà di Odoardo Spadaro.
32. Situata nel primo piano del palazzo Dandolo a S. Marco, con soli trecento posti, apre la sua attività il 19 dicembre del '47 colla compagnia dei fratelli Cavalieri e la denominazione di Piccolo Teatro di Venezia, quale blanda imitazione del modello milanese, e ospita altresì per i primi anni l'attività del Teatro da camera, coi primi allestimenti su repertori europei, finita l'autarchia e in un convulso aggiornamento, ad opera di Arnaldo Momo e Giovanni Poli, di cui si parlerà più avanti. Dal '57, il teatro passa sotto la gestione di Ferdinando Scarpa, che nel '60-'61 assume pure la responsabilità di capocomicato della Compagnia Veneta del Teatro Ridotto, diretta da Gino Cavalieri, cf. N. Mangini, Il teatro veneto moderno, pp. 355 ss., 376.
33. Nel '48 un primo tentativo a firma di Bragaglia svapora presto. Così quello propugnato da Benassi e Carraro nel '51, da Diana Torrieri nel '52, annunciato da Gastone Geron su "Il Gazzettino" del 26 settembre. Il più autorevole nondimeno resta quello iniziato da Paolo Grassi nel '56, che cerca di trapiantare in laguna ma su basi territoriali più ampie, una struttura stabile, che amalgami i Baseggio e i Cavalieri con interpreti più giovani, da Bosetti a Lionello, e debutti in provincia, come Bergamo, e riprese al Teatro Verde di S. Giorgio, aperto nel '54 dalla Fondazione Giorgio Cini, dal nome del figlio di Vittorio, l'imprenditore della cerchia di Volpi e già ministro delle Comunicazioni nel governo Mussolini. Lo sforzo di Grassi si esaurisce presto per la sordità delle forze economiche e politiche, così come per rivalse e invidie campanilistiche. Grassi nei suoi ricordi cita l'eloquente risposta del sindaco veneziano Favaretto Fisca: "no go schei", cf. Paolo Grassi, Quarant'anni di palcoscenico, Milano 1977, p. 202. Sul complesso delle iniziative abortite, cf. N. Mangini, Il teatro veneto moderno, pp. 367 ss.
34. Estintasi nel 1880 la famiglia Vendramin, dal 1875 ribattezzato da Apollo in Teatro Goldoni, l'edificio passa per via ereditaria alla famiglia Marigonda. Nel 1937 viene acquistato dal barone Treves, per poi passare di proprietà all'amministrazione comunale nel '57. I lavori di riassetto proseguono tra continui rinvii e modifiche del progetto, sino agli attuali 761 posti, rispetto ai 1.114 preventivati.
35. Costituitosi in consorzio nel 1980 quale sezione operativa dell'Associazione teatri antichi del Veneto, sorta nel '79 allo scopo di censire e recuperare le sale storiche del territorio, l'ente diretto da Nuccio Messina entra nel 1983 tra i teatri nazionali a gestione pubblica riconosciuti dallo Stato, tanto da divenire nel 1987 Teatro Stabile regionale. Nello stesso anno invitato in Cina col Campiello goldoniano, l'anno dopo trova sede nel Verdi di Padova, appoggiandosi altresì su una rete articolata di comuni. Il personaggio di punta, allenato alla gestione degli Stabili, è appunto Nuccio Messina, tra i più tenaci nel rivendicare il diritto/dovere di Venezia a non farsi più colonizzare dai circuiti dell'E.T.I. (Ente Teatrale Italiano), tra i protagonisti anche nel comitato per le iniziative editoriali (l'opera omnia, compresi i libretti d'opera per la Marsilio) e sceniche per il bicentenario goldoniano del '93. All'attivo, il Veneto Teatro vanta messinscene di un Goldoni inusitato, affidate per lo più a registi come Cobelli, Salveti e De Bosio, come Le donne gelose del 1985, di classici stranieri con temi veneziani, v. Venezia salvata di Otway nel 1982 (anche un'Orestiade colla traduzione di Pasolini per l'Olimpico di Vicenza colla regia di Salveti nel 1987, la Piovana di Ruzante ancora nel 1987, e un memorabile allestimento dei Rusteghi curato da Castri nel '92). Nello stesso anno, l'organismo viene di fatto sciolto per decreto regionale (nel '94 verrà dichiarato fallito dal Tribunale civile di Treviso, mentre si va edificando il nuovo Teatro Veneto Carlo Goldoni, con sede a Padova e Venezia). A Venezia, nel frattempo, il Teatro comunale dal '79 era coordinato nelle scelte dal critico de "Il Gazzettino" Cibotto, e dal 1989 al 1992 si era dotato di un direttore artistico nella persona di Giorgio Gaber, di cui si ricorda nel '91 la regia e l'interpretazione del beckettiano Aspettando Godot con Paolo Rossi e Jannacci nel cast. Nella nuova veste giuridica, lo Stabile viene retto da Giulio Bosetti dal '92 al '97 (tra le produzioni, le edizioni a S. Trovaso de Il bugiardo e La bottega del caffè nel '93 e Se no i xe mati, no li volemo nel '96), e da Mauro Carbonoli dal '97 al '99 (La collina di Euridice di Paolo Puppa con regia di Giuseppe Emiliani e Orgia di Pasolini nel 1997), e poi da Luca De Fusco. Si tende ormai, per ragioni di bilancio, e nell'attesa annosa di una legge nazionale sul teatro, a coproduzioni con altri enti, sia pubblici che privati.
36. Discorso diverso va fatto per Mestre, che priva di teatri storici, ma ricca di sale cinematografiche e di pubblico giovanile, costituisce oggi una domanda teatrale non sufficientemente soddisfatta dalle istituzioni. Qui, il centro culturale della Bissuola-Carpenedo, entro un quartiere in espansione, dispone di un auditorio accogliente, spesso utilizzato per spettacoli studenteschi; qui, ancora il teatrino della Murata, dietro piazza Ferretto, animato dal '79 da Giancarlo De Maestri. Il Teatro Politeama Toniolo, sorto dopo la chiusura del Garibaldi nel 1908, e intitolato a uno dei due costruttori edili Domenico e Marco Toniolo che lo edificarono, negli anni Cinquanta viene ristrutturato con galleria, e attrezzato anche a schermo filmico sotto la gestione di Ferdinando Boèr. Dal 1984 il Comune di Venezia lo affitta e dal '92 lo gestisce direttamente, cf. F. Mancini-M.T. Muraro-E. Povoledo, I teatri del Veneto, I, 2, pp. 338-341. Il teatro viene inaugurato il 30 agosto del '13 col Rigoletto per il centenario della nascita del musicista.
37. L'Esposizione internazionale inaugurata il 30 aprile del 1895 grazie alla delibera del 19 aprile del 1893 che istituiva l'Esposizione biennale artistica nazionale, diviene ente autonomo nel 1930, sotto la presidenza di Giuseppe Volpi, pertanto sottratta alla dipendenza municipale, e nello stesso anno aggiunge il Festival internazionale della musica e nel '32 quello cinematografico, in pieno regime delle corporazioni. Sarà il '73 a fissarne uno statuto pletorico ingombrante, che determina un ente elefantiaco, con un consiglio direttivo lottizzato dai partiti e dai sindacati. Sui nodi legislativo-statutari v. il recente Lamberto Trezzini, Una storia della Biennale teatro 1934-1995, Venezia 1999.
38. Sulla Biennale prosa, cf. anche Carmelo Alberti, Panorami di sentimento, di favole. Le rappresentazioni all'aperto nei primi anni della Biennale-Teatro (1934-1941), "Venezia Arti", 2, 1988, pp. 115-128, e Id., 'I cieli e le ombre, e la facciata del tempio'. Il festival internazionale del teatro di Venezia nel secondo dopoguerra (1947-1950), ibid., 4, 1990, pp. 114-126. Quanto alla valorizzazione della drammaturgia italiana, di impronta autarchica, c'è da dire che il comitato esecutivo del convegno, presieduto da Gino Rocca, e sotto la presidenza del conte Volpi, il 24 gennaio del '34 bandisce un concorso d'arte drammatica rivolto alle compagnie italiane per rappresentazioni di uno o più testi inediti italiani (o stranieri), da darsi al Goldoni. Formula, questa del premio da darsi alla produzione di spettacoli, fortunata perché ripresa di recente dal premio Riccione. Ma la Biennale prosa, dopo la prima tornata del '34, che vede la promozione di testi modesti come La padrona del mondo di Giuseppe Bevilacqua e La barca di Caronte di Mario Chiereghin, oltre a Un signore che passava di Larry E. Johnson, lascia cadere questa sezione. Quanto a prime italiane di prestigio si possono rammentare solo Il seduttore di Diego Fabbri nel '51 e D'amore si muore di Giuseppe Patroni Griffi nel '58, e La coscienza di Zeno di Kezich colla regia di Squarzina nel '65.
39. Ad esempio, il 24 luglio del '24 allo Stadio del Lido va in scena la tragedia biblica di Alberto Colantuoni, La passione di Cristo, preceduta dall'esecuzione della marcia reale, con musiche di Lorenzo Perosi, di cui l'articolista del giorno dopo su "Il Gazzettino" lamenta le interruzioni per il temporale.
40. Sul teatro en plein air italiano sotto il regime, cf. Mario Corsi, Il teatro all'aperto in Italia, Milano-Roma 1939. Per un inquadramento storico in ambito europeo, v. Paolo Puppa, Scena e tribuna da Dreyfus a Pétain, in Jacques Copeau-Romain Rolland-Paolo Puppa, Eroi e massa, Bologna 1979, pp. 147-273. Per i rapporti tra teatro e regime, cf. Gianfranco Pedullà, Il teatro italiano nel tempo del fascismo, Bologna 1994.
41. Sul milieu elegante e un po' fatuo che si forma in occasione delle prime teatrali veneziane, cf. le pagine argute e nostalgiche in Maria Damerini, Gli ultimi anni del Leone. Venezia 1929-1940, Padova 1988, essendo il marito, che nel primo anteguerra s'era provato nel ruolo di commediografo (ibid., p. 170), coinvolto nell'organizzazione del festival (ibid., p. 150). E, del resto, Damerini dirigeva la "Gazzetta" dal '22 al '40. V., della moglie Maria, le note particolarmente misogine e maliziose contro la Duse (ibid., pp. 37 ss.), contro "la scarsa avvenenza" della Gramatica (ibid., p. 172), i pettegolezzi, ancora, sull'irritazione di Benassi per il gran peso del costume di Shylok, il "caffetano a righe sbieche gialle e nere" (ibid., p. 151), le impazienze di Simoni durante le prove del Ventaglio nel '36.
42. Cf. Piero Zanotto, Venezia sullo schermo: realtà e speculari finzioni, in Id.,Veneto in film, Padova 1991, p. 7 (pp. 7-21). E sui rapporti tra caffè e palcoscenico a Venezia, cf. Mario Isnenghi, La cultura, in Venezia, a cura di Emilio Franzina, Roma-Bari 1986, pp. 417 ss. (pp. 381-482).
43. Non mancano prese di distanza per la complessità onerosa e costosa dello spettacolo, le 200 persone in scena, le danzatrici e i ballerini, "il genio di Shakespeare [...] sacrificato all'apparato coreografico", e soprattutto davanti al "sillabare dimesso, piano" di Marta Abba-Porzia, cf. Marco Ramperti, Teatri, "L'Illustrazione Italiana", 61, 1934, nr. 12, pp. 180-182.
44. Cf. C. Micheluzzi, Sessant'anni di teatro, pp. 125-126. Si pensi per La bottega a Renzo Ricci e Andreina Pagnani, a Luigi Almirante e Carlo Ninchi.
45. Così Guido Salvini vara Romeo e Giulietta nel cortile di Ca' Foscari sempre nel '37, mentre il compositore Virgilio Mortari colloca Il filosofo di campagna di Galluppi su libretto di Goldoni nel '38 nei giardini di Ca' Rezzonico e nel '41 sempre Salvini piazza I Masnadieri nei Giardini della Biennale, mentre Costa vi allestisce il goldoniano Poeta fanatico. Non manca però l'altro versante, quello più impegnato politicamente. Salvini a S. Elena nel '38, pochi mesi dopo la morte di D'Annunzio, inscena La Nave. Di sera, sotto una suggestiva illuminazione, nel bric-à-brac di un finto cantiere marino medievale e con vere maestranze nautiche, una navicella costruita man mano attraverso lo spettacolo, salpa alla fine simbolicamente verso il mare, alludendo al clima chiaramente guerrafondaio del momento e vaticinando in tal modo la nostra entrata in guerra; cf. Paolo Puppa, La Nave a Venezia, in Id., La parola alta. Sul teatro di Pirandello e D'Annunzio, Bari 1993, pp. 155-172. In quest'orizzonte più ideologizzato e populista, ecco ospitato nel Teatro dei Quattromila a S. Polo, il 17 luglio del '39, È passato qualcuno di Enrico Bassano, vicenda minimalista, colla Compagnia Veneziana, Cavalieri-Baldanello, dove vecchi impiegati all'archivio di stato civile, angariati dal capufficio, riprendono coraggio e insorgono quando li visita la nipote d'un compagno d'armi, cf. Enrico Bassano, È passato qualcuno, "Il Dramma", 13, 1937, nr. 260, pp. 25-29.
46. Cf. Mostra del trentennio del Festival (1934-1964), a cura di Giovanni Poli, Venezia 1964, p. 8.
47. Ecco tra i protagonisti della prima generazione nostrana, Giorgio Strehler che vi porta Il corvo nel '48, La putta onorata nel '50, La vedova scaltra nel '53, mentre Visconti addobba la sua Locandiera tra lenzuoli stesi e scenari alla Morandi nel '52, e Squarzina da autore con La sua parte di storia allestita da De Bosio nel '62 e da regista i due armoniosi allestimenti goldoniani, Una delle ultime sere di carnovale nel '68 e i Rusteghi nel '69. Sfilano altresì dalla Francia Jean Marais e Edwige Feullière nel '47, Louis Jouvet nel '48, e Jean Vilar nel '52 e '55, e col carisma giovanile di Gérard Philipe nei panni di Cid nel '52, Jean-Louis Barrault e Madeleine Renaud nel '48 e '49, poi lui da solo nel '51, e lei nell'85, Camus e i suoi Possédés nel '59, Planchon nel '62 e nel '66; dall'area tedesca il Burgtheater nel '49 e il Kammerspiel di Monaco nel '52, Gustav Gründgens nel '62 col suo Faust, il Berliner Ensemble nel '66 dopo due tentativi bloccati per ragioni di politica estera, Peter Stein nel '69, Benno Besson nel '71; da quella inglese l'Old Vic nel '47, e poi con Zeffirelli nel '61, Laurence Olivier e Vivien Leigh diretti da Peter Brook nell'efferato Titus Andronicus nel '57, John Gielgud nel '59, e ancora Brook che vi torna col Sogno shakespeariano nel '72 e poi coll'africano The Ik nel '76; da quella ispanoamericana il Teatro Estudio dell'Avana nel '67, Victor García nel '72, nel '74 e '76 con Nuria Espert; e le civiltà antiche e quelle extraeuropee, ossia il Teatro Nazionale di Atene nel '55, il Teatro classico giapponese col Nô nel '53 e poi nel '72, la danza Bharata indiana nell'85, il Teatro Municipale di Haifa nel '63. E ancora, i grandi performers, i maestri della regia della nuova generazione, così come i gruppi più eccentrici e trasgressivi, Barba nel '67, nel '69, nel '72 e nel '75, Jerzy Grotowski nel '75, Pina Bausch nell'85, Kantor nel '91, Ariane Mnouchkine nel '68 e nel '75, Otomar Krejca nel '68 e nel '70, Ingmar Bergman col Sogno di Strindberg nel '70, Chereau colla Solitude dans les champs de coton di Koltès nel '95, il Living nel '65 e nel '75, La Mama di New York nel '72, Bob Wilson nel '76, nell'85 e nel '92. E non manca la drammaturgia più off, secondo i parametri del tempo, ovvero nel '58 Ionesco colle Chaises e La leçon e Beckett con Fin de partie e Acte sans paroles, di cui poi Oh les beaux jours colla Renaud nel '63, Les bonnes di Genet nel '65, Zeffirelli vi porta l'Albee di Chi ha paura di Virginia Woolf? nel '63, le macchine spaziali di Ronconi come Utopia da Aristofane alla Giudecca nel '75, Fo coi suoi Tutta casa, letto e chiesa e Storia della tigre e altre storie nel '79, la scena napoletana con Eduardo nel '50, nel '67 e nell'82, e De Simone nell'81 e nell'82.
48. A tale proposito, per i rapporti controversi tra l'Esposizione d'arte e le mostre a Ca' Pesaro promosse da Nino Barbantini, cf. M. Isnenghi, La cultura, pp. 434 ss. Un episodio significativo può considerarsi la commedia di Domenico Varagnolo, Ebe, Venezia 1933, brillante e ambigua parodia nei riguardi dei mercanti d'arte arricchiti (in questo caso il cavalier Ramponi che in una statua nuda non riconosce la figlia modella dell'artista), per cogliere l'arretratezza del dibattito estetico a livello istituzionale. E l'autore ha dedicato la propria vita alla Biennale stessa, specie dal '28 per il costituendo Archivio Storico delle Arti Contemporanee, di cui nel '73 verrà nominato conservatore lo stesso Dorigo, e inaugurato nella nuova sede a Ca' Corner della Regina nel '76.
49. Cf. Luigi Anicetti, Scrittori inglesi e americani a Venezia (1816-1960), Treviso 1968, p. 173.
50. Per le contestazioni sessantottine alla Biennale, cf. L. Trezzini, Una storia della Biennale, pp. 83-88. Sul riflusso presso l'assessorato locale dell'idea metafora di Scaparro, cf. Paolo Puppa, Il carnevale veneziano. La forza e la forma. L'energia della piazza, "Stilb", 3, 1983, nrr. 14-15, pp. 6-7.
51. Nel '95 Jean Clair per le arti, Hans Hollein per l'architettura, Lluís Pasqual per il teatro. Da notare che nel '95, durante la presidenza di Gian Luigi Rondi, vengono istituiti due nuovi settori, proprio l'architettura e i progetti speciali, mentre di recente quale ultimo acquisto si annette la danza, sezione diretta da Carolyn Carlson.
52. Cf. L. Trezzini, Una storia della Biennale, p. 155.
53. Sulle modalità della critica teatrale italiana attorno e dopo Simoni, cf. Paolo Puppa, De Monticelli e l'educazione dell'attore, in Id., Parola di scena. Teatro italiano tra '800 e '900, Roma 1999, pp. 151-167. Sulle componenti conservative del critico veneto, cf. pure Id., Buzzati critico, ibid., pp. 169-183.
54. È l'antica, settecentesca, gozziana ed elitaria "Gazzetta di Venezia", dal '22 diretta per quasi vent'anni dal veneziano Gino Damerini, ivi già caporedattore, fin quando l'illustre foglio cittadino non verrà risucchiato dal "Gazzettino", cf. Mario Isnenghi, Presentazione a Maria Damerini, Gli ultimi anni del Leone. Venezia 1929-1940, Padova 1988, pp. 11-17. E Damerini riveste tra le due guerre, altresì, la carica di segretario del Sindacato giornalisti nelle Tre Venezie. Poi la "Gazzetta" viene di fatto fusa nel secondo dopoguerra ne "Il Gazzettino", su iniziativa di Volpi, restando per un po' come "Gazzetta Sera".
55. Alla scomparsa improvvisa di Bertolini, nato nel 1901 e morto in un incidente stradale nel '63, il medesimo anno della morte per infarto del suo collega Enzo Duse, pur in tarda età riprende la critica drammatica lo stesso Gino Damerini sino alla sua scomparsa nel '67. Qui subentra Gian Antonio che la regge dal 1974. Gastone Geron tiene la rubrica su "Il Gazzettino Sera" sino al '59, anno della chiusura del foglio.
56. Tra questi copioni, un certo successo arride ai due portati in scena da Micheluzzi, Avanti adagio, quasi indietro, del '52, ambientata nella bottega d'un liutaio e nel campiello appartato d'una Venezia sognante, così come ad Amabile vedova consolabile, dal ritmo boulevardier alla Carlo Terron.
57. Si consideri un attimo questo testo. In un buffet di stazione, tra falliti e beoni, una giovane cocotte veneziana e il suo antico fidanzato trevigiano si ritrovano per caso, di notte, tra avventori, ferrovieri e gendarmi. E si scoprono mutati, irriconoscibili rispetto all'innocenza e alle attese adolescenziali, lei sartina e lui studente di Architettura. Poi Miro, divenuto adesso un malvivente, viene arrestato per le tante truffe in cui s'è lasciato andare. Lei lo assiste in carcere, finché nel terzo tempo, di nuovo ambientato di notte alla stazione, la vediamo colloquiare col fantasma di lui, nel frattempo suicida, tanto da mutar vita e tornare al paese, mentre il naturalismo iniziale sfuma quasi in registri neogotici. Ebbene, quali tracce di una lingua aulica, il facchino così si esprime: "Ci vuole altro che mezzo litro per farmi escire dai sentimenti", mentre Miro, il protagonista, parla di "questa malaugurata notte di disdetta [...] Oh, mi risovvengo bene", e Ada: "M'accontento d'assopire tutti i rimpianti con una parola", cf. Alberto Bertolini, Notturni, "Il Dramma", 35, 1959, nr. 274, pp. 38-39, 42-43 (pp. 36-57).
58. Nel primo anteguerra Zajotti è tentato dalla poesia, dai monologhi per attrici e dalla rivista, e nel dopoguerra dal romanzo e dalla novella (in quest'ultimo ambito e di taglio minimalista cf. Alberto Zajotti, Le piccole cose, Bologna 1924). Ma l'attività primaria resta quella di capocronista e critico teatrale della "Gazzetta", in cui si occupa pure di musica e di arte, oltre che in qualità di inviato speciale. E questo impegno totalizzante, anche per fedeltà parentale, il bisnonno Tommaso Locatelli essendone stato proprietario sino al 1889, passata poi al nonno Paride, dura almeno a tutto il '38, per la malattia che lo spegne l'anno dopo a soli 55 anni, cf. Giuseppe Avon Caffi, Alberto Zajotti scrittore e giornalista, "Ateneo Veneto", n. ser., 7, 1969, nrr. 1-2, pp. 75-91.
59. Perché Zago, anche lui non figlio d'arte, è sulla breccia, come scarrozzante di giro, dal 1871, tra grandi appetiti, piroette da contorsionista nelle piccole parti per farsi notare e ricoveri in ospedale ad aggiustar ossi. Da notare che la sua carriera inizia sotto i Moro Lin e Benini, cf. Eugenio Ferdinando Palmieri, Del teatro in dialetto, a cura di Gian Antonio Cibotto, Venezia 1976, p. 54.
60. E cioè quella di Emilio Zago, quindi la Serenissima, che nel segno della continuità col celebre personaggio galliniano, raduna Albano Mezzetti, Carlo Micheluzzi e Margherita Seglin, Gianfranco Giachetti e Gino Cavalieri, ovvero un gruppo di attori giovani, tranne il primo allevato da Benini, e infine quella diretta da Vittorio Bratti, sotto la cui ala fanno il loro apprendistato Leony Leon e Cesco Baseggio. Dal '19 alla Quaresima del '22 (l'anno comico iniziava dalla Quaresima), dura la Serenissima, che perde in compenso per strada vari pezzi, tra cui Micheluzzi-Seglin nel '20, e la bella e seducente Albertina Bianchini nel '22. Già dall'anno prima s'era formata l'Ars Veneta con Giachetti e tra gli altri Franco Mandich, poi commediografo in proprio, cf. N. Mangini, Il teatro veneto moderno, pp. 245 ss.
61. "Mi hanno impastato su, gli altri, piccolotto, sbiseghìn, ma traccagnotto e sodo", così si autopresenta Emilio Zago, Mezzo secolo d'arte, Bologna 1927, p. 5.
62. Ibid., p. 158.
63. Ibid., p. 160.
64. Cf. Nicola Mangini, Introduzione a Cent'anni di teatro veneto 1870-1970. Mostra organizzata dalla Casa Goldoni, a cura di Id., Venezia 1970, p. 11 (pp. 9-16). E si pensi che nel 1883, negli anni cioè dei trionfi goldoniani di Zago, la città installa la statua del commediografo, opera dello scultore Dal Zotto, nel contiguo campo di S. Bortolomeo.
65. Quest'aura malinconica rifulgeva nell'interpretazione di Pio X, il ritratto un po' agiografico allestito dall'attore commediografo Primo Piovesan nel '24 in Santità, cf. N. Mangini, Il teatro veneto moderno, pp. 270 ss.
66. Cf. Gastone Geron, Chi fu di scena. Attori e autori di ieri, Milano 1982, pp. 7-12, in partic. pp. 8-9.
67Cf. Gino Damerini, Il mezzo secolo di teatro di Cesco Baseggio, "Il Dramma", 39, 1963, nr. 325, p. 38 (pp. 37-44).
68. Collocato nella schiera dei "disertori", e ancora dei "vili che fuggivano", il Bilora di Baseggio agli occhi di Damerini pare appunto godere di un eccesso di solidarietà, in quanto l'attore "dà a cotesto rottame umano un possente risalto pur con una vena di misericordia e filosofica simpatia a cui peraltro sarebbe lecito non consentire", ibid., p. 42. Da precisare che Baseggio l'anno dopo interpreta il Parlamento, e nel '56 la Moscheta, quest'ultima in collaborazione con De Bosio, cf. Nicola Mangini, Il Ruzante di Cesco Baseggio, in Convegno internazionale di studi sul Ruzante, Padova 26-27-28 maggio 1983, a cura di Giovanni Calendoli-Giuseppe Vellucci, Venezia 1987, pp. 211-218.
69. Si tratta della traduzione-arrangiamento di Adriano Lami e Guido Perale, su idea di Tilgher.
70. Almeno una decina, in combutta col fedele Carlo Lodovici, a suo tempo vivacissimo e nervoso Arlecchino col nom de plume di Lodovico Ceschi, ed ecco allora Zente alegra, el çiel l'aiuta al Goldoni nel '30. In particolare, nel '52, di Lodovici, Baseggio porta al successo sulle scene milanesi Zente a la finestra.
71. Cf. Giuseppe Bevilacqua, Il teatro veneziano, "Comoedia", 11, 1929, nr. 7, pp. 19-20.
72. Eccolo nel '38 incorporarsi la bella bolognese Isa Pola per La vedova di Simoni, nel giugno del '44 formare compagnia colla forlivese Laura Carli, nel '48 colla triestina Elsa Merlini, e nel '50 colla milanese Cesarina Gheraldi.
73. Non si dimentichi, d'altra parte, che negli anni neri di Salò Venezia ospita maestranze e direzioni di Cinecittà, quasi un suo 'surrogato', cf. M. Isnenghi, La cultura, p. 459. Vi si producono oltre trenta film in diciotto mesi di lavorazione utilizzando spesso quali interpreti gli attori locali. Baseggio, ad esempio, già nel '43 interpreta Canal Grande di Andrea Robilant, dove impersona il vecchio Menego, personaggio galliniano, strenuo difensore della causa dei gondolieri contro i nuovi padroni del trasporto acqueo, i vaporetti, e Il paese senza pace di Leo Menardi, tratto da Le baruffe goldoniane, dove recita nei panni consueti di Fortunato, cf. Piero Zanotto-Cesare Curt Schulte, Filmografia, in L'immagine e il mito di Venezia nel cinema, a cura di Roberto Ellero, Venezia 1983, p. 90 (pp. 68-155).
74. "Dopo di lui il diluvio", così dichiara Gastone Geron, Venezia canta più di Napoli, "Sipario", 18, 1963, nr. 207, p. 17 (pp. 14-20, 39). Ruggero Jacobbi, Con Baseggio muore tutto un teatro, "Il Dramma", 47, 1971, nrr. 1-2, p. 31, pure esaltandone l'interpretazione nel Todero, nelle Baruffe e nel Burbero benefico, "tutto giocato su un minimo repertorio di gesti e d'intonazioni", ribadisce il suo "immediato e istintivo contrasto con la riforma della messinscena goldoniana promossa da Strehler".
75. Della stessa generazione di Baseggio (Giachetti era nato invece nel 1888), essendo nato nel 1895 e spentosi quasi centenario, mentre Baseggio, del 1897, muore a Catania nel '71. Da non trascurare il fratello Gianni Cavalieri, nato a Padova nel 1908 e morto nel '55, più portato alla misura e alla sobrietà ellittica, e mescolato non di rado alle ditte in lingua, come quando sosterrà il ruolo di Polonio nell'Amleto di Gassman, diretto da Squarzina nella stagione '52-'53.
76. Cf. C. Micheluzzi, Sessant'anni di teatro, pp. 120-121. Si pensi ai film di Mario Mattoli, Ore nove, lezione di chimica del 1941 e Voglio vivere così del '42, o a 4 passi fra le nuvole di Alessandro Blasetti del '42, o Avanti c'è posto di Mario Bonnard dello stesso anno.
77. Solo Cavalieri a suo parere può essere considerato "comico dialettale, unico dopo Zago", ibid., p. 115.
78. Micheluzzi nasce nel 1886 a Napoli durante le tournées della famiglia di teatranti, una delle più antiche famiglie d'arte, con antenato nobile nel primo Ottocento, ovvero il conte Francesco Ninfa Priuli. Il padre era il triestino Francesco, capocomico e autore, mentre la madre è Maria Borisi. Micheluzzi muore nel '73. Suo figlio Tonino, nato a Osimo nel '23, prestato spesso alla rivista, muore nel '91. E la dinastia appare allora estinta.
79. Il 6 ottobre del '22, in un'intervista rilasciata a Carlo De Angelis sulla "Gazzetta di Venezia" si vanta di disporre di una compagnia regolare, con tanto di primo attore e prima donna, mentre questo ruolo era riservato un tempo ai due caratteristi.
80. V. l'inchiesta promossa nel giugno del '33 dalla rivista "Il Dramma" contro i residui dialettali, dove di fatto, se si esclude Bragaglia, tutti gli intervistati si allineano a esaltare la svolta accentratrice sancita dal regime, cf. Daniela Bortignoni, Un caso 'Bertolazzi' nel Novecento?, "Quaderni di Teatro", 5, 1982, nr. 17, pp. 124-128 (pp. 121-150).
81. Sotto la direzione di Guglielmo Zorzi e poi di Alberto Colantuoni, la compagnia viene recuperata nel gioco degli aiuti economici, a condizione di non dare novità, cf. N. Mangini, Il teatro veneto moderno, pp. 323 ss.
82. In tale ambito, opera ad esempio Zago che porta in scena El nostro prossimo da Testoni nel '18, e La preson del barba prete dal fiorentino Augusto Novelli, o la Micheluzzi-Seglin che nel dicembre del '22 vara La conquista dell'America da Il successo di Testoni. Qui, Colantuoni fa travasare la sua farsa rusticana I fratelli Castiglioni, al debutto al Goldoni colla Pavlova nel '30, nella versione genovese di Govi nel '31 (non mancheranno altre traduzioni, dalla romanesca di Petrolini del '32 a varie lingue straniere, come la tedesca, sempre nel '32, e l'inglese del '52). E ancora El papà del tenor che Micheluzzi ricava da Forzano il 9 gennaio del '28, o i coevi Balconi sul Canal Grande, poi Canalazzo, da El Fuester davanti di Testoni, che il Teatro Veneto, ovvero la ditta Giachetti-Cavalieri, rielabora il 19 aprile del '28 dopo la prima milanese del 30 marzo del '28. E ancora nella stagione '41-'42 la versione di Pensaci, Giacomino! in veneziano a cura di Emilio Baldanello e allestita da Micheluzzi. Così pure i copioni agili di Morucchio, nato nel 1893, che rimbalzano nel palcoscenico ligure di Govi, da L'indimenticabile agosto del '37 a Pesci rossi del '39, o napoletani come nella farsa politica sui falsi epuratori postfascisti Serafino Lemmi, applicato (cf. "Teatro Scenario", 8, 1953) per la compagnia di Peppino De Filippo nel '53.
83. Cf. Alfredo Testoni, Ricordi di teatro, Bologna 1925, per l'ammirazione verso la gestione perbenista della famiglia Benini, pp. 66-72, 109-119 e 217-225.
84. Cf. Luigi Meneghello, Jura, Milano 1987, pp. 9-15 e la mirabile lezione cafoscarina poi in Il turbo e il chiaro, Venezia 1995.
85. Cf. Cent'anni di teatro veneto, p. 55.
86. Ad esempio, la Sicilia manda tra dicembre e gennaio '21 Giovanni Grasso jr (per distinguersi dal più celebre cugino), il quale colla sua corposa viscerale drammaticità miscela con sapienza le buffonerie de L'aria del continente di Martoglio al passionale Feudalesimo tradotto in siculo dal catalano Angel Guimerà. E subito dopo, in aprile, Angelo Musco, scimmiesco e faunesco, occupa il Goldoni per oltre dieci giorni col suo codazzo di personaggi ossessi e comicamente disturbati, tra cui il Pensaci, Giacomino! pirandelliano. Grasso fa ritorno di novembre con La bilancia, scritta a quattro mani da Pirandello e Martoglio, definita "boccaccesca", mentre Napoli manda nel '25 al Malibran Viviani colla sua Osteria di campagna e Festa di Piedigrotta. Musco rispunta nel '29, poi reinvitato nel '31 in alternanza con Viviani che vi porta alcuni dei suoi cavalli di battaglia, da I pescatori a La musica dei ciechi alla Morte di carnevale, e nel '33 L'ultimo scugnizzo e Circo equestre Sgueglia. Da Genova sbuca Govi sempre nel '31, e nel '33, e quindi nel '40 Miseria e nobiltà di Scarpetta e Chicchignola di Petrolini. E l'ancora unita compagnia De Filippo occupa il teatro quattro giorni ai primi di marzo del '40, e ancora nel marzo del '41 presenta i propri testi. E nel maggio '42 la siciliana Anselmi-Abbruzzo vi porta Liolà e Malìa di Capuana, mentre nel maggio del '46 Trieste mia! di Angelo Cecchelin.
87. Del resto a conferma dei rapporti controversi tra regime e ditte dialettali, il fatto che in pieno clima bellico, dunque in un contesto necessariamente più ideologizzato, il Ministero della Cultura popolare e quello della Guerra se trasformano i Carri di Tespi in Carri grigioverdi incaricano altresì sette compagnie nazionali di provvedere alla circuitazione in tutto il territorio nazionale del loro repertorio brillante ed evasivo, e si tratta proprio di compagnie appunto in gran parte dialettali, da De Filippo a Govi, da Baseggio a Durante, cf. Pasquale Iaccio, Ribalte tempestose, in La guerra immaginata. Teatro, canzone e fotografia, 1940-1943, a cura di Aurelio Lepre, Napoli 1989, p. 40 (pp. 17-111).
88. Si potrebbero citare almeno Marina Dolfin, figlia della cantante lirica Toti Dal Monte, a volte utilizzata dal palcoscenico veneto, e Luisa Baseggio, nipote di Cesco, ossia due varianti garbate di attrice giovane. Si potrebbero menzionare Elsa Vazzoler e Cesare Polacco, presto saliti nelle ditte in lingua e reclutati dagli altri media, apprezzata spalla la prima in sceneggiati televisivi, e il secondo sequestrato dalla pubblicità per il cranio pelato. Quali epigoni, la coppia formata da Wanda Benedetti e Toni Barpi, e ancora Giorgio Gusso e Mario Bardella. In particolare, Mario Valgoi, misurato e finissimo protagonista di importanti regie goldoniane firmate da Massimo Castri, e Alvise Battain dalla voce suadente. Tra i giovani, i più interessanti sembrano Stefania Felicioli, Piergiorgio Fasolo e Marta Richeldi.
89. Il testo può oggi essere letto nell'edizione accurata di Giorgio Padoan, La Veniexiana, Venezia 1994. Nel secondo dopoguerra, il testo avrà diverse messinscene, locali con Giovanni Poli e Arnaldo Momo, e nazionali tra cui quelle di Maurizio Scaparro e di Giancarlo Cobelli.
90. E tutto il teatro galliniano è stato ristampato da Varagnolo, cf. Giacinto Gallina, Teatro completo, a cura di Domenico Varagnolo, I-XVIII, Milano 1922-1930. Nato a Venezia nel 1882, impiegato alla Camera di commercio locale e poi assistente alla segreteria della Biennale, ossia di Antonio Fradeletto, professore cafoscarino di Letteratura italiana, parlamentare conservatore e dal '96 appunto segretario generale della Biennale, Varagnolo valorizza anche l'Archivio Storico della Biennale, varato nel '28. Fondatore della Società degli Amici di Goldoni, è autore altresì di due studi significativi, Ferruccio Benini ed Emilio Zago, Milano 1939 e Giacinto Gallina, a cura del Comune di Venezia, Venezia 1952, e di commedie in lingua. Muore tragicamente nel '49.
91. Così, per esempio, rimprovera nel 1920 l'amico Facco De Lagarda, trasferitosi a Milano: "Parcossa ti ga tradio Venezia? Come ti fa a star in quela bolgia de Milan?". Cf. Ugo Facco De Lagarda, Profilo di Domenico Varagnolo, in Domenico Varagnolo, Opere scelte di poesia e di teatro in dialetto veneziano, Venezia 1967, p. XI (pp. VII-XIII).
92. Domenico Varagnolo, Le parlate de le mascare. Sei monologhi veneziani e altre poesie in dialetto veneziano, Venezia 1967, pp. 48-49.
93. Ibid., p. 66.
94. U. Facco De Lagarda, Profilo di Domenico Varagnolo, p. X.
95. "Composizioni che partono, tutte, dalla riva del morbido", così in termini icastici sentenzia E.F. Palmieri, Del teatro in dialetto, p. 86. Altrove lo definisce "tradizionalista amabile", ibid., p. 151.
96. Varagnolo esordisce a teatro il 20 febbraio del 1911, collaudato dalla compagnia di Ferruccio Benini col bozzetto Matina de nozze. E il 24 aprile del '13, sempre Benini porta al Goldoni I quadri o La dote di Gigeta, ennesimo apprendistato galliniano sulla clonazione da "poareti ma onesti", con puntuale lieto fine, ossia l'autorizzata mésalliance tra nobili e piccola borghesia, sulla contesa della roba, in forma di quadri. L'intento etico, sollecitato dalle angosce della guerra imminente, si evidenzia nel fortunato Per la regola!, che Benini porta all'Apollo romano il 30 gennaio del '14, sulle peripezie e contrasti, entro un'azienda, tra Cesare, il giovane industriale che introduce macchinari moderni (omaggio al protagonista omonimo del Tramonto di Simoni, interpretato sempre da Benini), e il vecchio impiegato fedele e di idee conservatrici quanto a tecnologie, alla fine richiamato come socio, dopo aver rintuzzato i bollori modernisti del giovanotto. Per la regola! è stata tradotta in genovese e recitata da Gilberto Govi. Cf. U. Facco De Lagarda, Profilo di Domenico Varagnolo, p. XII. Non manca qualche prudente contiguità al futurismo e pirandellismo, come ne L'omo che no capisse gnente, inaugurata col titolo Ogni amor ga el so color dalla compagnia Baseggio al Garibaldi di Treviso il 14 ottobre del 1926, lavoro più significativo basato, secondo Mangini, sulle tensioni tra padre impiegatuccio, ma ambizioso sul figlio che intende promosso socialmente dalla laurea, e quest'ultimo depresso per gli eccessi del genitore studente di legge, cf. N. Mangini, Il teatro veneto moderno, p. 283. Poca fortuna hanno altri testi, come La casa dei scandoli, che Benini inaugura il 23 gennaio 1915, San Crespin, da Zago portato al Goldoni il 17 gennaio 1917, Da l'altana al magazen del 1921, inedita in scena, El Sangue no xe acqua, 8 luglio 1927, Mi so pitor per Giachetti del 5 novembre '29.
97. Cf. Domenico Varagnolo, El goloso, in Id., Le parlate de le mascare. Sei monologhi veneziani e altre poesie in dialetto veneziano, Venezia 1967, pp. 73-84.
98. Il 29 maggio del '14 Benini porta in scena al Diana di Milano El sol sui veri.
99. Rocca nasce a Mantova nel 1891 da una famiglia feltrina. Nel '14 è tra i fondatori del "Popolo d'Italia", quindi critico drammatico ivi e più tardi su "Comoedia", da lui cofondata, sin dal '19, nel '25 eletto nel direttorio della Federazione Italiana Fascista degli Autori del Teatro e del Cinematografo, e nel '28 nel direttorio del Sindacato Autori Drammatici. Nel '30 vince il premio Bagutta col romanzo Gli ultimi furono i primi, nel '31 è consigliere S.I.A.E. nella commissione per l'arte drammatica, e dal '32 collabora con "Scenario" di D'Amico, e con "Il Dramma" dal '28 al '40. Muore nel 1941, dopo aver subito l'amputazione d'una gamba. Per le notizie biografiche v. Carlo Manfio, Introduzione, in Gino Rocca, Tutto il teatro, a cura di Carlo Manfio, I, Venezia 1997, pp. LIII-LXXXII.
100. Il romanzo L'uragano del '19 apre il filone del reducismo (su basi autobiografiche la ferita alla gamba che lo porterà all'amputazione e alla morte precoce nel '41) declinato poi nella sua drammaturgia sia in lingua che dialettale, basti considerare l'elegiaco Su da noi del '31.
101. Si pensi che nel solo 1929, a Milano, vanno in scena sei sue commedie, v. C. Manfio, Introduzione, p. LXIV. All'inizio della carriera, per Le liane del '20, dispone della Talli-Melato-Betrone, così come alla fine, nel '40, per Volo a vela utilizza la prestigiosa Tofano-De Sica-Rissone.
102. Per esempio, nel '25 Gandusio vi porta Le pecorelle sul povero bibliotecario irretito dalla fatalona e poi rientrato nel grigiore quotidiano, montato su Tignola di Benelli, mentre Almirante vi allestisce Gli amanti impossibili, equivoco erotico tra ricco gaudente e nobile ungherese decaduta, marivaudage con un pizzico di pirandellismo.
103. Debutta al Filodrammatici di Milano il 27 novembre del '26, e viene consacrato al Goldoni l'11 maggio del '27 dalla Compagnia del Teatro Veneto, con Giachetti (Momi), Cavalieri (Bortolo Cioci), Emilio Baldanello (Piero Scavezza). La trascrizione filmica della commedia, rigorosamente in lingua a partire dal titolo, Se non sono matti non li vogliamo, regia di Esodo Pratelli, riunisce un parterre de rois, appartenenti al gotha italiano e veneto del teatro di quegli anni, da Ruggeri a Gandusio, dalla Paolieri a Stoppa e Falconi, colla supervisione di Simoni, nel 1941. Nel '66 la RAI registra un'edizione con Baseggio, Tofano e Cavalieri, per la regia di Lodovici, cf. Gino Rocca, Tutto il teatro, a cura di Carlo Manfio, III, Venezia 1997, p. 1619.
104. Per la vastissima produzione in lingua, per le cui note sono indispensabili i cinque volumi di G. Rocca, Tutto il teatro, rimando a Paolo Puppa, Prudenza di Rocca, in Id., Parola di scena, Teatro italiano tra '800 e '900, Roma 1999, pp. 31-45 e al volume Gino Rocca. Atti del convegno, a cura di Fabio G. Budel, Feltre 1993, con contributi di Nicola Mangini, Paolo Puppa, Anna Barsotti, Giorgio Pullini, Rosita Tordi, Carmelo Alberti, Nella Giannetto, Mariateresa Zoppello, Silvio Guarnieri e Mario Isnenghi.
105. Varata a Brescia il 29 dicembre del '28, dalla Compagnia del Teatro Veneto, con Giachetti, Cavalieri, Micheluzzi, Baldanello, Polacco, al Goldoni il 17 aprile del '29, la commedia si offre subito disponibilissima a traduzioni in altri sistemi regionali, si pensi alla versione napoletana di Eduardo, 'O padrone songh'io, in scena al Sannazzaro di Napoli nel '32, ridotta altresì in genovese da Emanuele Canesi per Govi, in romanesco da Checco Durante, e ancora in bolognese, sloveno, ecc., v. G. Rocca, Tutto il teatro, III, pp. 1628 ss.
106. Un baso (17 giugno del '24), L'imbriago de sesto (12 luglio del '27) e La scorzeta de limon (10 aprile del '28) vengono riuniti per la prima volta il 28 aprile del 1928 da Giachetti e Cavalieri, interpreti anche al debutto.
107. Da citare pure La vecia insempiada il 25 marzo del '31, da Il solco del '28, con Baseggio e Micheluzzi. E ancora Checo del '32 con Cavalieri e Mustaci de fero sempre del '32, dove Baseggio impersona una sorta di vantone di provincia dal cuore tenero.
108. Cf. Gino Rocca, Se no i xe mati, no li volemo, in Id., Tutto il teatro, a cura di Carlo Manfio, III, Venezia 1997, p. 1236. Attorno a simili creature "traspira una voluttà di annientamento [...] all'ombra di un piacere deridente e tormentante", come nota Gian Antonio Cibotto, Elementi per una storia del teatro veneto, in Teatro veneto, a cura di Id., Bologna 1960, p. XCIII (pp. VII-XCVIII).
109. Guido, nato a Milano nel '28, e morto giovanissimo nel '61, debutta a Milano nel '56 con I coccodrilli colla compagnia Proclemer-Albertazzi e vede Una montagna di carta varato al Piccolo colla regia di Virginio Puecher.
110. La vita è così mutata, al punto che "i zovanoti ancuo i varda molto poco. Co i pol i toca", cf. Guido Rocca, La marcia su Roma, in Teatro veneto, a cura di Gian Antonio Cibotto, Bologna 1960, p. 1185. In un paese del Veneto la famiglia di un vecchio edicolante viene scombussolata dalla notizia che la nipote, vinto un concorso di bellezza al Lido, s'è avviata alla professione di star cinematografica. E sarà a Roma che la carriera della stellina si mostrerà ben presto lastricata di compromessi e umiliazioni, tra produttori spasimanti, giornalisti desiderosi di scandali e tentativi di suicidio. Così la bella Maria, che mai si mostrerà in scena, tornerà al suo paesello come nipote prodiga, nonostante la madre della mancata stellina non si rassegni al rientro in provincia. Maria così verrà riacciuffata dal vecchio Piero, paralizzato alle gambe ma allo stesso tempo gonfio di energia moralista e conservatrice, misto di Paron 'Ntoni verghiano e di nonno galliniano, e in più verrà accettata dallo spasimante benzinaio, in un primo tempo rifiutato dalla famiglia perché sospettato di essere comunista per via della tuta rossa.
111. "Un paese de ebeti che in do mila ani ga prodoto: un milion de contadini, quatro organisti per la ciesa, un pitor de manifesti e qualche farmacista", ibid., p. 1209.
112. Rodigino nato nel 1901, a suo tempo anche giornalista sportivo e critico drammatico della "Gazzetta" fin dagli anni '30, a conferma della abituale contiguità tra giornalismo e drammaturgia tipica della scena italiana a cavallo dei due secoli e anche oltre. Partito tra vivaci circuiti dopolavoristici con Favola senza morale nel '32, eccolo nel '37 a Milano dove i suoi Ladri, dati da Febo Mari, storia di madri corrotte e riscattate nell'incontro inopinato col figlio galantuomo, commuovono Simoni.
113. Così il fiabesco romanticume de Le zitelle di via Hydar scritte nel '34, portate alla ribalta da Besozzi nel '49. E anche Poker d'amore, scritto nel '54, e l'anno dopo portato al successo dalla ditta Gioi-Ninchi-Scelzo e due anni dopo dalla Adani-Ninchi, dove marito e moglie si fingono amanti clandestini, tra anticipazioni pinteriane, ma per la verità sviluppo di temi crepuscolari come Il fiore sotto gli occhi di Martini del 1921.
114. Cf. Enzo Duse, Una famiglia in prosa, in Id., Le commedie (Cocktail al circo-Ca' de Bo-Una famiglia in prosa-I normali, questi travestiti), Venezia s.a., p. 115.
115. "Delizioso ravissement ottocentesco", così la definisce Gastone Geron, Ricordo di Enzo Duse e di Alberto Bertolini, "Ateneo Veneto", n. ser., 2, 1964, nr. 1, p. 121 (pp. 120-123).
116. Cf. Enzo Duse, Quel sì famoso, in Id., Le commedie (Virgola-Quel sì famoso-Bona fortuna, Piero-Carte in tavola), Venezia s.a., p. 58. La battuta della nipote diviene in bocca alla nonna: "No ve spaco l'ombrela in testa perché dopo no posso stuar la luce", ibid., p. 60.
117. Cf. Id., Bona fortuna, Piero, ibid., p. 65. E il personaggio auspica, nel finale grondante ottimismo, una "internazionalizzazione delle razze. Chissà che in t'un mondo de bastardi no se sentimo finalmente fradei e podemo agiutarse ne le desgrazie", cf. ibid., p. 72.
118. Certo, c'è chi come il critico Alberto Zajotti arriva a scorgere nella parlata veneta di Duse articolazioni socio e cronolinguistiche francamente eccessive: "Così, mentre Virgola che ha cinquant'anni parla come cinquant'anni fa, la Rossa, ch'è una giovane operaia, parla come le nostre moderne tabacchine, e come le nostre nonne parla l'ottantenne contessa di Valbruna mentre la nipote Marina usa il linguaggio dei nostri giorni", cf. E. Duse, Virgola, ibid., p. 6 (pp. 3-6).
119. "Monumento funerario di una casta così nobilmente scolpito", cf. G. Geron, Ricordo di Enzo Duse e di Alberto Bertolini, p. 121.
120. "Ma la note, quando xe scuro e nessun me vede, sbasso el ciufo, cussì, e me fasso tanto pecà", cf. E. Duse, Virgola, p. 32.
121. Emilio Baldanello, morto non ancora cinquantenne nel '52, è stato un mite e pur impegnato capocomico. Era il figlio di Dora, primattrice di Zago e poi di altre ditte venete tra il '26 e il '36.
122. E. Duse, Virgola, p. 9.
123. Ibid., p. 11. Altrove si dichiara: "Presente e assente; ecco la mia bandiera", ibid., p. 13. E alla notizia della morte del fratello, che rischia di destarlo dall'apatia deresponsabilizzante, eccolo lamentarsi: "El scusa se so un poco nervoso. Ma xe la prima volta che mor mio fradelo", ibid., p. 16.
124. Margherita Meneghetti Obici, a lungo compagna del commediografo, lo definisce "antifascista per tradizione e volontà" nella commossa Presentazione a Enzo Duse, Ca' de Bo, Venezia 1980, p. 7 (pp. 5-9).
125. A dimostrazione della vastità degli interessi drammaturgici di Duse, sta la riduzione de L'avaro, da Plauto e Molière, il cui copione dattiloscritto è stato esposto alla mostra "Cent'anni di teatro veneto", v. catalogo alla n. 64.
126. Segnalato al premio Gallina del '49, col titolo originario Tuta colpa de quel benedeto balon, allestito nel '52 da Micheluzzi diviene il copione di maggior successo nazionale del dopoguerra, tradotto in altri dialetti, cf. N. Mangini, Il teatro veneto moderno, p. 365. Nel 1970, ha già superato le 650 repliche, cf. Oscar Wulten, 1-X-2, in Id., Commedie, Padova 1971, p. 83. Nel '53, il regista Carlo Campogalliani ne ricaverà il soggetto per il film Se vincessi cento milioni, con Ugo Tognazzi, Tino Scotti, Mario Carotenuto e Checco Durante, a riprova della perfetta interdialettalità nazionale del plot.
127. Così, ad esempio, Dona Pasqua, dall'omen goldoniano, si esprime a proposito del carovita: "I mesi xe tropo longhi. Per andar megio, coi stipendi de la giornata, bisognarìa che i fusse fati, sì e no, de una quindesena de giorni. E i sarìa anca massa", in O. Wulten, 1-X-2, p. 93, e più avanti lucidamente: "Ma se el governo stà su perché el ga el balon", ibid., p. 100.
128. Ovvero col "fluido psipsichichico", ibid., p. 120, con inevitabili conseguenze fisiologiche, ossia "le mutande petae dai suori", ibid., p. 121, salvo poi scoprire che la morta evocata è ben viva.
129. Ibid., p. 130.
130. Il copione debutta colla compagnia del Teatro del Ridotto, diretta da Cavalieri, nel '64.
131. "Quando a uno ghe càpita una malora, dove valo? A zogar al loto!", cf. Oscar Wulten, El boteghin dei sogni, in Id., Commedie, Padova 1971, p. 158. E si ascolti pure Iride descrivere la propria abitazione: "El sofito fa acqua, el camin fa fumo, el magazen xe pien de pantegane e i scuri no se sera", ibid., p. 189.
132. Eccolo, ad esempio, vantare la propria condizione parassitaria: "E po', mi so feliçe anca senza cravata, e ringrazio Dio de quelo che el me ga dà: do muger e un goto par desmentagarme de tute do. E una salute de fero", ibid., p. 186. E, da copione, Bepi è una cornucopia di proverbi: "Le done xe come i canestreli: ghe ne basta uno par copar l'ocio", e più avanti "diseva giusto mio pare: ti xe nato nuo e ti morirà despogià" e ancora, rivolto alla ragazza, "a la to età ghe vol poco par essar feliçi: una còdega a tola e un baso sul stramasso", ibid., pp. 193, 195 e 217.
133. E del resto Iride, nel suo modo involontariamente parodico, stigmatizzava il legame tra i due ragazzi: "Ma anca Alvise andarsi a incaratare co una tosa cussì, senza antenati", ibid., p. 184.
134. Premiato col Gallina nel '53, il testo va in scena a Treviso il 25 maggio del '55 colla compagnia di Gino Cavalieri e Leony Leon Bert.
135. Il suo motto è "El mio prossimo me xe perfettamente estraneo", e più avanti così si confessa: "Perché tuto finisse e mi go sempre avuo paura de le robe che finisse", cf. Oscar Wulten, El rospo, in Id., Commedie, Padova 1971, pp. 26 e 32. E così gli altri subiscono con disagio lo sguardo di "quel muso da rospo, da rospasso, de quei neri che pissa nei oci", ibid., p. 61.
136. Ibid., p. 79.
137. Di questa tendenza canterina, parla appunto G. Geron, Venezia canta più di Napoli, pp. 14-20.
138. Ad esempio, Ma s'el gato te magna el formagio? di Nando Vitali e Salvatore Allegro, commedia musicale portata in scena da Giachetti nel '30, e nel '32 ripresentata al Malibran il pomeriggio per i bambini.
139. Cf. Arturo Rossato, El pare de Venezia, Milano 1934. Quanto a Le prime giosse, come ad altri copioni veneti, rimasti inediti, purtroppo non resta traccia, come lamenta N. Mangini, Il teatro veneto moderno, p. 251.
140. Da notare che "Uno qualunque" era il nom de plume adottato dallo stesso autore nei suoi articoli focosi pubblicati sul "Popolo d'Italia". E non si dimentichi che Rossato firma nel '20 un ritratto di Mussolini tra l'epico e l'irriverente, visto quale coacervo di contraddizioni "colle sue ferocie da tiranno e le sue esitazioni di bimbo [...] c'è in lui quanto occorre per far rivivere Masaniello o Bonaparte, Cola di Rienzi o Marat", cf. Arturo Rossato, Mussolini. Colloquio intimo, Milano 19235, pp. 12 e 47 (pp. 5-47).
141. Cf. Id., Uno qualunque, "Sipario", 13, 1958, nr. 152, p. 17 (pp. 17-24).
142. Ibid., p. 18.
143. Ibid., p. 19.
144. Sentiamola, la sposina, allora: "Vàrdime. No te basta quelo che go fato par ti? Xela colpa mia se fra tuti i dolori che go soferto, no ghe xe quelo del piàvolo? E ti va a çercar el piàvolo da un'altra? No. Ormai ti xe mio. Da le scarpe a la cravata. (Toccandolo, affannata, appassionata). Questo xe mio. Questo xe mio. Quest'altro xe mio. Anca 'sto rider. Anca 'sti oci da macaco xe roba mia. Te go dà tuto per creder de averte messo al mondo mi, e de averte fato mio fin che moro, e anca dopo", ibid., p. 21.
145. Ibid., p. 24.
146. Pertanto, in un finale che cita quasi alla lettera la situazione del collega Ciampa del pirandelliano Berretto a sonagli, dal '17 e dal '23 in giro per l'Italia rispettivamente nella versione siciliana e in quella italiana, eccolo prima gemere sulla sua situazione di paria, restato com'è "senza muger, senza uficio, senza pension, senza nome, senza la me feliçità de bestiola indormenzada sottotera", ibid., per poi esplodere proprio nella recita della follia, a rovesciar suppellettili, a ballare un sabba parossistico, dando pugni sulla porta, e gridando, ridendo e invocando il ricovero nel manicomio locale: "Viva San Servolo! Vegna San Servolo!", ibid.
147. Tra i numerosi libretti di Rossato, almeno Giulietta e Romeo del '22 e I cavalieri di Ekebù del '25 per Riccardo Zandonai, La tempesta shakespeariana per Lattuada nel '22. Da ricordare l'aspra testimonianza sulla guerra in L'elmo di Scipio del '19 (cf. il finale, collocato a Caporetto, in Arturo Rossato, L'elmo di Scipio, Milano 1934, p. 269: "Il cranio mi urla fra le pugna, irto di denti e rotto da due occhiaie. Se vi pesto il pugno su, il forsennato risuona come un elmo. Ah! La maschera rabbiosa di questo elmo feroce [...] Voglio uscire. Ah! Ah!... Uscire senza elmo, giovane libero coi miei vent'anni. Capoposto vigliacco!... Apri. Maledetto tu. Maledetto il mondo! Ah! Ah! Ah! Ah! Ah! Ah!"), e la versione veneta di Catullo.
148. In realtà al testo contribuisce pure il giornalista e scrittore padovano Giovanni Capodivacca, in arte Gian Capo, così come preziose risultano le musiche del fratello Enrico Giachetti.
149. Per la precisione come ricorda l'Enciclopedia dello Spettacolo, VIII, Roma 1961, alla voce relativa redatta da Mario Morini, p. 1216 (pp. 1216-1217), la sera del 3 aprile del 1926 raggiunge la bellezza di 1.283 repliche. Come ricorda Danilo Reato nella sua presentazione (pp. n.n.) ad Arturo Rossato, Nina, no far la stupida!, Venezia 1986, il regista Malasomma ne trae un film nel '37, interprete Gino Cavalieri. Si ricordi che nel '24 a Roma Giachetti porta al successo il testo all'Argentina mentre Micheluzzi è al Manzoni col medesimo testo.
150. "Vint'ani a ghe go messo a scriverla... Vint'ani xe che speto perchè i me la rapresenta", A. Rossato, Nina, no far la stupida!, p. 20.
151. Ibid., p. 3. Da notare che la scena costituisce una precisa citazione da quella goldoniana de La bottega del caffè.
152. Così si lamenta il povero Todero: "Inamorà come un toso de vint'ani", ibid., p. 85. E più sotto, a Corallina così Momoleto meneur du jeu si raccomanda: "Tienli in oca ancora un pocheto", ibid., p. 136.
153. Ibid., p. 4. E più avanti, il coro rammenta a personaggi e pubblico che: "Co se va in grìngola-ti sa anca ti, / se se desméntega-el no pel sì", ibid., p. 71.
154. In tal senso, quasi un riferimento autoironico nel ritornello finale: "Andiamo sull'orme dei nostri bisavoli, / noi siamo una ronda di poveri diavoli", ibid., p. 148.
155. Ma non mancano citazioni ulteriori da L'illusion comique di Corneille, col padre spettatore ingenuo delle peripezie del figlio interprete.
156. A. Rossato, Nina, no far la stupida!, p. 99.
157. Ibid., p. 100. E negli a parte relativi, così si sfoga la donna, durante la predica: "Ciapa su, vilan, tangaro, martufo, malignazo", ibid., p. 101.
158. Così, ad esempio, "To nona imbriaga" abbassa bruscamente l'aura dei "Oh, Numi! Oh, stelle ingrate! Oh, rio destino!", tradotto a sua volta da Buganza, regista in anticipo sui tempi, in "ma varda un poco cossa me va a capitar", ibid., pp. 118-119.
159. "La ga una çerta figureta de contrabasso, che va ben per un maestro de musica", ibid., p. 162.
160. Cf. Alberto Colantuoni, La sagra dei osei, Milano 1931, p. 16.
161. Cf. "Magnifico. Roba da museo. Lo mandaremo a Venezia", ibid., p. 50, dice il Conte a proposito del buffo ciarlatano Briseghel.
162. Ad esempio, "Viva viva sti loghi dove tuto xe festa; / che se vien de fora qualche pansa foresta, / co sti monti che sluse, co sto çiel che no sbaglia / par che i zighi:-Inzenocite; qua scominçia l'Italia", ibid., p. 22. E più avanti, i pennuti si contrappongono tra quelli allenati a sibilare inni al Kaiser e quelli a Garibaldi, ibid., p. 105.
163. V. le accelerazioni impresse dalla parola "transustanziazione", ibid., pp. 32 ss.
164. Alludo al personaggio di Ampelio Briseghel reso con straordinaria goffaggine da Giachetti.
165. Anche la lettera elegiaca che il povero Menego lascia a Zogieta, carica com'è di ipercorrettismi verso l'italiano, costituisce un'ulteriore fonte di spiazzamento contro la lingua alta: "Cuanto tempo che sono mandato via geri sera e mi parono due secoli co un strangolone di pianzere che no mi vane sune giù", ibid., p. 131. Da notare che il lessico mescola con astuzia venetismi a vocabolari friulani.
166. Eccone una litania di Menego: "Aseno, stupido, scarpion, sangue da naso, çimese, mulo, bacalà", ibid., p. 57.
167. "Un fringuelo gripiopeo-cicioghogheo-barbacicibeo-gripiocichcich!! [...] Ma quelo g'avarà un pìo-pìo, un cocodè, un papagà co le buganze", ibid., pp. 98-99.
168. "Parussole bele! / Pacagnozi bei! / Lodole e lodoline! / Scazacogole! / Finchi e zavatoi! Becafighi e tordine! Avanti! / Capie, chebe, pantiere e bachetine", questi sono i titoli che rimbalzano da un venditore all'altro, ibid., p. 156.
169. Ibid., p. 154.
170. Ibid., p. 174.
171. Lo stesso Rossato, sempre col partner Gian Capo, firma una manierata Biondina in gondoleta, in prima al Manzoni di Roma il 13 agosto 1925, un po' travolta dal protagonismo interpretativo di Cavalieri che ingrandiva il ruolo d'un notaio sino a squilibrare l'economia del testo.
172. "Burla modellata sulla galliniana Mia fia", così la definisce E.F. Palmieri, Del teatro in dialetto, p. 84.
173. Danilo Reato nella Presentazione ad Arnaldo Fraccaroli, Ostrega che sbrego!, Venezia 1980, p. 16 (pp. 5-16) ci ricorda la trascrizione filmica ad opera di Mario Camerini, col titolo mutato in Figaro e la sua gran giornata del 1931, grazie al quale debutta nel cinema lo stesso Giachetti. Fraccaroli, per quarantasette anni collaboratore del "Corriere", inviato speciale sul fronte, biografo di musicisti, è autore di pièces brillanti affidate all'estro della Galli, di Gandusio e della Melato, come La foglia di fico del '13 e Non amarmi così del '17.
174. Tant'è vero che in tempo di guerra, nel '41, dai rilevamenti S.I.A.E. risulta il primato degli incassi a favore del teatro di rivista, di gran lunga il più apprezzato rispetto a tutte le altre scene, cf. Pietro Cavallo, Riso amaro. Radio, teatro e propaganda nel secondo conflitto mondiale, Roma 1994, p. 32.
175. Così ad esempio la vicenda crepuscolare e ansiogena del reduce cieco, spiazzato in tempo in Quei che torna del padovano Attilio Frescura in collaborazione col filosofo del diritto Widar Cesarini Sforza del 1922, portato a Verona da Giachetti nel '22, e prima ancora la denuncia del pescecanismo in Richeze d'ancuo del milanese Giovanni Cenzato e del veneziano Giovanni Battista Biolo. Ma lo stesso Frescura, pur incalzato dai fantasmi della guerra e dalla polemica contro gli alti comandi, ripiega subito dopo sul ludismo disimpegnato di 9, 21, 37 per tutte le estrazion, scritto assieme a uno dei protagonisti della scena brillante come il bolognese Gherardo Gherardi nel '22 e Din don le campane de Montarton, omaggio alla moda vaudevillesca, con musiche di Enrico Giachetti, nel '25.
176. Lo stesso Rossato si ripete nel 1925, con La fabrica dei piàvoli, affidata alla Commedia Veneziana, ovvero Micheluzzi-Seglin-Baseggio.
177. Cf. Nicola Mangini, Schede per una storia della drammaturgia veneta: Eugenio Ferdinando Palmieri, "Otto/Novecento", 7, 1983, nrr. 3-4, p. 161 (pp. 161-175). Nel 1931 Palmieri ottiene il premio Viareggio per la poesia.
178. Cf. Eugenio Ferdinando Palmieri, Strampalata in rosablu, in Id., Commedie in veneto, Padova 1969, pp. 112-113. Il volume contiene i testi principali, ma sottoposti a revisione.
179. Fa eccezione lo sfortunato Le pecore, il cui rifiuto da parte delle ditte primarie è forse alla base della successiva interruzione dell'attività drammaturgica di Palmieri, che dal '40, dal tempo della prima di Scandalo sotto la luna sino alla morte del '68, ufficialmente rinuncia alla produzione teatrale attiva.
180. Cf. Eugenio Ferdinando Palmieri, Nota a 'La corte de le pignate', in Id., Commedie in veneto, Padova 1969, pp. 270-271. Edita nel '32, e in scena per qualche sera ad opera di un gruppo filodrammatico polesano, respinta dalle compagnie di Giachetti e di Baseggio, perché accusata d'essere poco teatrale e troppo letteraria, e poi entrata senza esito nel '48 in un progetto registico di Simoni per la ditta Micheluzzi, La corte de le pignate viene rifiutata dall'autore, ormai in piena palinodia verso la propria produzione.
181. La fumara viene portata al successo a Verona nello stesso anno dalla compagnia Giachetti-Micheluzzi, coi due attori che si distribuiscono i ruoli del vecchio, l'uno un po' rifatto sul verghiano Paron 'Ntoni e l'altro il malizioso e giocoso Ranocio.
182. È Micheluzzi che la porta in scena nel '35, con ottimi riscontri. Ripresa poi, sia nel '36-'37 da Gino Cavalieri, sia nel '44 da Emilio Baldanello e da Gianni Cavalieri, in pieno clima depressivo bellico.
183. Si legga ad esempio in Remengo, l'epitaffio canterino rivolto a questi masnadieri innocui nel ritmo di una veneta Spoon River Anthology, "O Bussoleto Menego, del fu / Pasquale, o me compagno d'ostaria / morto imbriago, te ga portà via / drento la cassa, la me gioventù. / O Bussoleto Menego, furfante, / o ladro de polastri, sborsarolo, / te geri nato per fare 'l brigante / co fà mi. Te sì morto, e mi son solo", cf. Eugenio Ferdinando Palmieri, Remengo, Venezia 1932, p. 167.
184. Cf. Id., I lazzaroni, in Id., Commedie in veneto, Padova 1969, p. 397. E questi furfanti dall'omen ruzantino costituiscono una sorta di metafora proiettiva dell'impotente ribellismo adolescenziale-letterario ma anche esistenziale rispetto al fascismo vissuto in provincia.
185. Così Pendon minaccia di fare allorché viene a sapere che Rosalia è incinta di un altro: "Vogio el nome del so amante. - fora! Ho sete di vendetta. Vogio inondare la provincia col sangue del mio rivale. Vogio farve noare in quell'oceano di sangue. Vedarì la fine del mondo. Buto par aria tuto - le case e i omeni. Ciapo a sberle i campanili, rebalto i monumenti, distrugo la citadinanza, ghe cavo le braghe al sindaco e le mudande a so mugére", ibid., pp. 425-426.
186. Ibid., p. 430.
187. Ibid., p. 452.
188. Ibid.
189. Ibid., p. 442.
190. "Ne xe andà sbusa anca la domanda par el confino - là, almanco, i te dà qualche soldo e, se i te sgnaca in un'isola, fai la cura de l'aria", ibid., p. 446.
191. Ibid., p. 454. Eppure, qualcosa di questo spirito trascorrerà trent'anni dopo nella comicità fanfaronesca e demenziale de I soliti ignoti di Monicelli, film del '58.
192. Cf. Eugenio Ferdinando Palmieri, Le pecore, Bologna 1935. Nella storia del conte Bepi Bolasco e di sua moglie, N. Mangini, Schede per una storia della drammaturgia veneta, p. 168, ravvisa più di una traccia del Tramonto di Simoni.
193. Così si esprime ingenuamente dall'America il cugino in arrivo: "Il casto fiore delle nostre fanciulle [...]. I contadini vigorosi curvi sotto il sole", cf. Eugenio Ferdinando Palmieri, Quando al paese mezogiorno sona, in Id., Commedie in veneto, Padova 1969, p. 477.
194. Ibid., p. 504. Ripresa più volte dalle compagnie di Cavalieri e Baseggio, la commedia piace alla critica e insieme viene stroncata come lesiva del Veneto, coperta di lodi e accostata al più livido pirandellismo de L'uomo, la bestia e la virtù, di fatto rimossa, cf. ibid., p. 522.
195. Si chiama Salvatore costui, uscito da una costola del cavaliere napoletano del Campiello goldoniano, ma reso piccoloborghese dal clima de Le miserie di monsù Travet di Bersezio. Fa altresì la corte sia alla madre che alla figlia, mentre a sua volta viene corteggiato dal capo di casa perché chiuda un occhio su disinvolte dichiarazioni del reddito.
196. E.F. Palmieri, Quando al paese mezogiorno sona, p. 511.
197. Portata a un mese dal debutto milanese grazie alla compagnia Baseggio al Goldoni per soli due giorni, 8 e 9 aprile 1940, la commedia nondimeno trionfa per quasi vent'anni, riproposta a lungo dalla ditta Baseggio, cf. ibid., p. 604.
198. Cf. Enzo Duse, E.F. Palmieri e il suo mondo paesano, "Teatro Scenario", 15, 1952, nr. 5, pp. 39-41.
199. E questo, nonostante i ben tre premi Gallina, nel '51 con Campielo del miracolo, nel '52 con Strasseossi, che poi Cavalieri porterà in scena nel '55, e nel '54 con I sassi ne le scarpe. Il premio Gallina in questione viene istituito dall'E.N.A.L. (Ente Nazionale Assistenza Lavoratori) nel '48, e riservato a commedie dialettali venete, con una commissione presieduta nei primi due anni da Renato Simoni, cf. N. Mangini, Il teatro veneto moderno, p. 363. E in Strasseossi costruiva una efficace e arguta figurazione Leony Leon Bert, specializzata nei ruoli di servetta e di comare.
200. Cf. Francesco Mandich, I sassi ne le scarpe, "Sipario", 13, 1958, nr. 152, p. 40 (pp. 39-53).
201. Ibid., p. 41.
202. Ibid., p. 42. E più avanti: "Le cause xe ben altre! I orori, le soferenze ga scavà a fondo in ste generazioni disgraziae... Le guere no distruge solo le case", ibid., p. 53.
203. Ibid., p. 45.
204. "Ai Sabioni ghe ne xe un çimitero", ibid., p. 50.
205. Cf. Ettore Capriolo, Un repertorio quasi segreto, "Sipario", 18, 1963, nr. 207, p. 5, sostiene appunto che a questo teatro "gli è mancato un Pirandello e gli è mancato un Viviani: non ha avuto cioè né il commediografo decisivo né l'attore-autore di genio che impone il proprio repertorio con la forza delle proprie qualità istrioniche".
206. Il responsabile dell'iniziativa, Ludovico Toeplitz De Grand Ry, dichiara di puntare al "mimo" e alla "commedia improvvisa", utilizzando gli scenari Scala e Biancolelli, i manoscritti della Corsiniana, del Correr e della Nazionale di Napoli.
207. Sugli esordi di Gianfranco De Bosio e sulla sua esperienza assieme a Ludovico Zorzi nel Teatro Universitario padovano, cf. Claudio Meldolesi, Fondamenti del teatro italiano. La generazione dei registi, Firenze 1984, pp. 416 ss. Il teatro in questione, sorto dall'eroica équipe di docenti universitari distintisi nella Resistenza, da Egidio Meneghetti a Concetto Marchesi, è animato dal fervore talentuoso di Gianfranco De Bosio, che importa giovanissimo le ricerche sperimentali sul corpo e sul mimo di Décroux e Lecoq, oltre a scoprire, primo in Italia, attraverso i contatti con Bentley, l'opera di Brecht, e a rilanciare in chiave arcaica-espressionista la drammaturgia di Ruzante tramite appunto il decisivo apporto di Ludovico Zorzi. Nondimeno, il lavoro di De Bosio a Padova si chiude praticamente nel 1953, pur disponendo dell'attenzione affettuosa da parte del Piccolo di Milano, e viene travolto dalle mutate condizioni politiche emerse negli anni Cinquanta. Sul contesto universitario patavino, cf. Mario Isnenghi, Archivi del tempo presente. Rettori fascisti e rettori partigiani. Documenti di vita universitaria a Padova fra regime e dopoguerra, "Venetica", 8, 1987, pp. 94-161.
208. Arnaldo Momo, nato a Venezia nel '16, a suo tempo insegnante e poi docente all'Accademia di Belle Arti veneziana, studioso apprezzato specie nel versante goldoniano (cf. soprattutto Arnaldo Momo, Goldoni e i militari, Venezia 1973, e Id., La carriera delle maschere, Venezia 1992) è stato ed è tuttora regista, assieme alla moglie Sara, sua attrice prediletta, entro un repertorio sia veneto che novecentesco, animatore di apprezzate letture alla Casa di Goldoni. Ma la sua carriera di uomo di palcoscenico è risultata penalizzata, più di altri, dalla mancanza di una sede teatrale specifica.
209. Sul dibattito culturale a Venezia nel tempo della Liberazione e sugli inizi della carriera di Poli, cf. Carmelo Alberti, L'avventura teatrale di Giovanni Poli, Venezia 1991, pp. 11-24, con un'utile appendice di scritti di poetica del regista. Cf. pure Dieci anni di un teatro universitario. Cronaca degli avvenimenti scenici e delle ricerche estetiche del teatro universitario, a cura di Giovanni Poli, Venezia 1959, che reca in calce un'antologia della critica agli spettacoli. Sull'esperienza complessiva del teatro di Ca' Foscari, cf. Paolo Puppa, Il teatro universitario di Ca' Foscari, in Venezia e le lingue e letterature straniere, a cura di Sergio Perosa-Michela Calderaro-Susanna Regazzoni, Roma 1991, pp. 111-127.
210. Poli, vicentino, nasce in provincia di Vicenza nel '17 e muore nel '79, dopo aver lavorato come regista di prosa e di opera lirica presso i più autorevoli Stabili nazionali, e aver diretto dal '64 per quattro anni il Teatro Studio di palazzo Durini a Milano. È stato anche docente di Storia del teatro al Conservatorio di Padova.
211. Ecco allora Cavalcata a mare di Synge, Sulle acque tenebrose di Yeats, e La pesca di O'Neill. Poco dopo, nel '51, si torna a una rappresentazione effettiva con un testo prelevato dall'area inglese, e irrorato di L'importanza di chiamarsi Ernesto, poco adatto, secondo le memorie lasciate dallo stesso Poli, alle corde acerbe dei giovani interpreti. Quattro anni dopo rispunta però l'America di Roosevelt colle sue accorate tranches, colle sue lagrime speranzose, e di nuovo allora le letture declamano riduzioni da elegie truculente o populiste, come Il mio cuore sugli altipiani di Saroyan, Uomini e topi di Steinbeck e La brava gente di Irving Shaw.
212. Si pensi al 1960, anno in cui Poli riceve per La Commedia degli Zanni il Premio I.D.I. e il Prix du Théâtre des Nations a Parigi, mentre Gian Campi ottiene la Noce d'Oro per il suo primo Zanni nel medesimo spettacolo.
213. Ad esempio, per l'area russa la lettura de Le tre sorelle cechoviane nel '51, di Oblomov di Gončarov nel '55 e La cimice di Majakovskij; per la francese, Il malato immaginario al Ridotto nel '51 e il capriccio demussetiano Con l'amore non si scherza nel '54. In ambito tedesco, si persegue un filone espressionista, con struttura a stazioni, tramite allestimenti di Da mezzogiorno a mezzanotte di Kaiser nel '57 e del brechtiano (senza ideologizzazioni o mitologie alla Strehler) Tamburi nella notte nel '58. Per il settore ispanico, nel '63 il dittico grottesco costituito dall'intermezzo di Cervantes La sentinella all'erta e l'esperpento di Valle Inclán Gli abiti del defunto.
214. Tra i premiati e messi in scena, da ricordare almeno Il baratto di Giorgio Fontanelli nel '57, Gli alberi e la città di Sandro Bajini, Il bersaglio di Luigi Ferrante nel '58, e Le notti al rogo di Vincenzo De Mattia nel '60, copioni intrisi di clowneries filosoficheggianti, nella misura un po' della tradizione absurdista di quegli anni.
215. Nella scuola, gli iscritti salgono sul palcoscenico dopo un breve tirocinio. Si crea così una compagnia stanziale, per quanto minuscola, in grado di sopperire alla dispersione continua delle forze teatrali, attirate spesso da altri centri per assicurarsi una carriera professionistica più allettante. E sì che nella cavità cafoscarina sono transitati interpreti del valore di Maria Pia Colonnello e di Gian Campi, di Virgilio Zernitz, di Alvise Battain, di Roberto Milani e di Donatella Ceccarello. Ma ai bordi della stessa, con espansione a Mestre, si sviluppa nel territorio delle maschere dell'arte per gli anni Ottanta, il T.A.G. di Carlo Boso. Tra i gruppi teatrali veneziani, il più coraggioso nel repertorio appare il Teatro Modo, attivo negli anni Ottanta, e diretto da Giuseppe Emiliani, poi regista affermato allo Stabile Veneto, con interpreti come Leonardo Alecci (morto in macchina ancor giovane) e Susanna Costaglione.
216. Così avviene nel '60 con Personae, cimiteriale evocazione di larve ghignanti e goffamente impegnate in mostruosi rondò.
217. La Venexiana, con tagli vistosi relativi alle sequenze più erotiche, viene data nel '50 in Aula Magna e nel '53 nel cortile di Ca' Foscari. Di Goldoni, Gli innamorati nel '52, Le donne gelose nel '53, La finta ammalata nel '56, sino agli importanti montaggi Le storie di Arlecchino e La Venezia di Goldoni nel '57. E questo repertorio si incrocia idealmente e si doppia negli allestimenti del suo scorbutico rivale, ossia L'augellin belverde del '54 e I pitocchi fortunati del '60.
218. L'alfabeto dei villani, panorama storico-sociale sulla condizione del contadino veneto cinquecentesco, ricavato da Ruzante e altri autori, debutta nel XXVI ciclo di spettacoli classici all'Olimpico di Vicenza nel settembre del 1971, edito poi nella collana del "Teatro a L'Avogaria", 3 (Venezia 1971).
219. E non si dimentichi, del resto, il forte impatto provocato a Venezia dallo spettacolo, a cura di Luigi Squarzina, Luciano Salce e dello stesso Vito Pandolfi, che firma pure la regia, La fiera delle maschere, ospitato alla Fenice per la Biennale teatro, il 20 agosto del '47, reduce dal Festival della gioventù di Praga, dove le maschere della commedia dell'arte venivano riproposte in una sorta di caotico e surreale Hellzapoppin, cf. C. Meldolesi, Fondamenti del teatro italiano, pp. 363-364.
220. Dietro la lezione di Copeau, visibile nello spazio dell'Avogaria, è agevole rintracciare l'eco dell'animatore francese Léon Chancerel e della sua dialettica tra spirito di celebrazione e spirito di derisione, cf. Léon Chancerel, Panorama du théâtre des origines à nos jours, Paris 1955 (trad. it. Storia del teatro, Roma 1967). Per la definizione delle due categorie antitetiche, per lo spirito di celebrazione, cioè il sacro originato dal ditirambo dionisiaco ibid., pp. 41-106, e per lo spirito di derisione, vale a dire il comico sorto dall'impulso parodico ibid., pp. 123-188.
221. Così, si hanno nel '56 le Laudes Evangeliarum (antologia dei testi perugini del XIV secolo), e poi De Jerusalem celesti et de Babilonia infernali da Bonvesin de la Riva e Giacomino da Verona nel '70.
222. Tra gli spettacoli più eclatanti, sia per goliardismo intellettualistico che per l'adozione di moduli eccentrici, ecco nel '64 il Reso, attribuito a Euripide, vivacizzato in stile Kabuki, nel '71 la messinscena musicale dell'eliotiano The Waste Land curata da Claudio Ambrosini e una libera trasposizione ad opera di Gino Sitran dal Maestro e Margherita di Bulgakov. Ancora, nel '73 si ha l'inventario alchemico-artaudiano di Michele De Marchi, La pietra filosofale, poi accolto a Parigi, ospite del Centre Franco-Italien de Pratique Dramaturgique, grazie all'iniziativa di Mario Baratto che avrebbe promosso in quell'occasione pure un incontro tra italianisants e operatori teatrali su Goldoni.
223. Nel '65, colla supervisione di Cesare De Michelis, il dittico di Sografi Il matrimonio democratico e Le nozze in latino, un'antologia sulla Venezia giacobina nel primo caso, e la satira degli anni duri e travagliati di Campoformio, nel secondo. Nel '66 forse la regia più travolgente di Padoan, una "momaria" antica dal titolo emblematico Questo xe lo dose se ve piase, cerimoniale restituito in tutto il suo sontuoso décor ad evocare le incoronazioni dogali. Nel '67, con un salto vertiginoso, ci si trasferisce nelle polemiche recenti pro e contro lo sviluppo industriale della città con Non molto lontano dalla basilica. E nel '74, a coronamento di tale erudizione carnevalescamente riutilizzata, esplode sul palcoscenico la falloforia surreale e scanzonata de La tariffa delle cortegiane di Vinegia, affresco rubato ai dipinti di Carpaccio e alle fantasie del Marquis de Sade, inno libertino alla coppia romantica di eros e thanatos.
224. Ad esempio, l'allestimento dei due atti unici di Alberto Moravia, Omaggio a James Joyce, ovvero Colpo di Stato, e L'intervista, torbide allegorie su dittature da operetta e sulla sindrome golpista, presentati nel '71.
225. Nel '67, si ha un vero e proprio scoop giornalistico: grazie alla mediazione di fuoriusciti si ricostruisce, sotto forma di teatro documentario-oratorio, l'interrogatorio a Daniel Siniaskij, divenuto I figli della Cimice e declamato con accenti di commossa partecipazione. Nel '70 viene messa in scena Torotumbo del guatemalteco Asturias, da poco insignito del Nobel, alla presenza dello stesso autore in una soirée grondante magiche etnie e infocate denunce dello sfruttamento coloniale.
226. Fa parte del manifesto, a firma di Marinetti, Boccioni, Carrà e Russolo, Contro Venezia passatista del 27 aprile 1910, ora in Filippo Tommaso Marinetti, Teoria e invenzione futurista, a cura di Luciano De Maria, Milano 1968, p. 34.
227. Le tredici commedie sveviane sono tutte di datazione inesistente, tranne che Un marito, che reca in calce al dattiloscritto 1903: dunque possono oscillare tra gli anni Ottanta e gli anni Venti.
228. Cf. Italo Svevo, Una commedia inedita, in Id., Commedie, Milano 1969, p. 129. D'altra parte, non mancano negli scritti minori di Svevo straordinarie pagine vedutiste sulla laguna, come nei racconti Marianno, Cimmuti e in Serenella, o nell'ariosa limpida apertura di Corto viaggio sentimentale.
229. Sulla recente narrativa di Scabia e sul rapporto colla sua drammaturgia, cf. Silvana Tamiozzo Goldmann, Giuliano Scabia. Ascolto e racconto. Con antologia di testi inediti e rari, Roma 1997.
230. Per un inquadramento generale dell'animazione teatrale, anche in rapporto al territorio veneto, rimando al capitolo da me scritto sull'Animazione per La storia del teatro europeo, a cura di Roberto Alonge-Guido Davico Bonino, di prossima uscita.
231. Nato a Belluno nel '56, dopo un tirocinio vario e controverso che lo spinge nelle piccole scene di New York o in Oriente alla ricerca della danza Katakali, Paolini si costituisce una piattaforma culturale precisa, orientata verso l'affabulazione memorialistica presso il laboratorio torinese del Teatro Settimo, coordinato da Gabriele Vacis e al fianco di interpreti narratori come Laura Curino. Qui partecipa alla scrittura e all'allestimento di madeleines ironiche e delicate, ovvero la serie degli Album, tra il '90 e il '95, vero e proprio Bildungsroman teatrale, diario pedagogico e insieme affresco sull'infanzia e adolescenza di uno sguardo provinciale, tra locuzioni dialettali. Vi aleggia intorno una fragranza leopardiana, in quanto un interprete adulto rivive il proprio mondo passato, dalla scoperta del mare a quella dell'amore, dal calcio al palcoscenico, dal fumo alla voglia di amicizia.
232. Si potrebbe tracciare un inventario del suono veneto affermatosi nell'ultimo decennio su scala nazionale. Un posto autorevole lo occupa nell'ultimo decennio il ritmo rap e scanzonato del gruppo Pitura Freska, in cui precipita l'immaginario di una generazione venuta su a fumetti e videogiochi, spinelli e discoteche, su cui anche gravitano pure i romanzi inchiesta del mestrino Gianfranco Bettin e le cannibalesche surrealtà del veneziano Tiziano Scarpa.
233. Lo spettacolo ottiene nel '95 il Premio speciale U.B.U. per il teatro politico, e quello I.D.I. l'anno dopo per la migliore novità italiana, così come l'Oscar TV per il suo passaggio nel '97.
234. Tra questi Album, sceneggiati assieme alla Curino, e poi collo stesso Vacis, e in seguito in piena autonomia, ecco Adriatico del 1987, sulle colonie marine degli anni Sessanta, la riscrittura del meneghelliano Libera nos del 1989, Tiri in porta del 1990 sui campetti di calcio limitrofi all'asilo di suore, Liberi tutti del 1992 (all'origine spettacolo destinato ai bambini) sulla scoperta del teatro brechtiano in parrocchia, e Aprile '74 e 5 nel 1995, sul prete operaio sospeso a divinis perché favorevole al divorzio e poi arruolatore d'una squadra di rugby. Da notare che dal '90 la sigla produttiva dei suoi spettacoli appartiene alla Cooperativa Moby Dick-Teatri della Riviera, diretta da Cristina Palumbo.
235. Di Paolini oggi sono reperibili Il racconto del Vajont -9 ottobre 1963, Milano 1997, firmato con Gabriele Vacis, Quaderno del Vajont, Torino 1999, scritto con Oliviero Ponte di Pinto, Bestiario veneto. Parole mate, Pordenone 1999, e L'anno passato, Pordenone 2000. Dal 1990 colla citata Cooperativa Moby Dick-Teatri della Riviera produce Il racconto del Vajont 1956/9 ottobre 1963. Seguono Appunti foresti (1996), Il Milione quaderno veneziano (1997), la ricerca sui Bestiari che finora ha portato alla creazione di Bestiario Veneto in riviera (1998), Bestiario Veneto. Parole mate (1998), Bestiario Veneto. L'orto (1998) e Bestiario Veneto. I cani del gas (1999). L'ultima sua produzione teatrale è Stazioni di transito. Album di Storie (1999). Per il cinema ha partecipato tra l'altro a Caro Diario di Nanni Moretti (1993), Il toro di Carlo Mazzacurati (1995), I piccoli maestri di Daniele Lucchetti (1998).
236. Cf. Predrag Matvejevic, Mediterraneo. Un nuovo breviario, Milano 1991 (l'edizione originale dello studioso è del 1987).
237. Anche se non si tratta più di utopie rivoluzionarie come al tempo di Fo. Nondimeno, non si ha nelle serate di Paolini il riflusso deideologizzante provocato dalle rockstar che interagiscono con pubblici straripanti di stadi e fiere estive. No, qui il pubblico è scelto, competente, motivato, e segue fedele questo menestrello affabulatore con dignità e serietà consapevoli. Di modo che queste serate risultano civili, nel vero senso della parola.
238. L'innesto viene operato nel Bestiario veneto. L'orto, all'esordio nel Teatro Olimpico di Vicenza nel settembre del '98.
239. Si può dire che Paolini fa proprio il motto dell'amato Noventa, là dove il poeta spiega la scelta linguistica in Parché scrivo in dialeto, cf. Giacomo Noventa, Versi e poesie in Id., Opere complete, I, a cura di Franco Manfriani, Venezia 1986, p. 84: "Parché scrivo in dialeto...? / Dante, Petrarca e quel dai Diese Giorni / Ga pur scrito in toscan. / Seguo l'esempio", utilizzato nel Bestiario Veneto. Parole mate, contributi di Daniele Basso-Carlo Cavriani, Pordenone 1999, p. 65. E si potrebbe risalire sino agli inizi del secolo per ritrovare tale fierezza dialettale. Emilio Zago, nelle sue memorie, citava la lettera di un illustre collega, Ernesto Rossi, a favore del veneziano: "Mi pare che Dante lasciasse scritto: che la lingua italiana avrebbe potuto essere la veneziana", al punto che, assistendo a commedie in quel dialetto, Rossi dichiarava nella lettera di non essersi accorto "che si parlava in dialetto" (cf. E. Zago, Mezzo secolo d'arte, pp. 103-104).
240. Il 5 giugno del '99, ecco, in tal senso, in piazza S. Marco, nell'ambito di una rassegna organizzata da Daniele Del Giudice, quel che poi diverrà Stazioni di transito, in cui si spinge verso la poesia e il racconto extraregionali, da Campana a Di Giacomo sino alla poesia americana. Qui, il puntuale collage di 'amarcord' aneddotici sulla provincia retrò degli anni '70-'80 sulla propria e altrui giovinezza, e di bozzetti generazionali, viene scandito dal treno, sia quello degli emigranti e degli innamorati, sia quello ancora delle bombe sull'Italicus, il vero trait d'union del montaggio, siglato alla fine da una bonaria parodia di Carmelo Bene.
241. Cf. Mary McCarthy, Venice Observed, London 1961, cit. in Luigi Anicetti, Scrittori inglesi e americani a Venezia (1816-1860), Treviso 1968, p. 230.
242. Potremmo, sia pur con indubbio azzardo, risalire sino al secolo XV, ai Contrasti giustinianei, quale illustre precedente in tal senso, confortati dalle parole di Giorgio Padoan, là dove lo studioso sottolinea che "pur non essendo certo composti per la recita rivelano un senso innato della teatralità", cf. Giorgio Padoan, La commedia rinascimentale veneta, Vicenza 1982, p. 24.
243. V. il mirabile dialogo tra un vecchio e un cane randagio di Calzavara El can tratto da Parole Mate, Parole Pòvare, dove sia la vicenda che il titolo dell'opera complessiva assurgono a metafora di questa scena, e Dei do déi, tratto da Versi e poesie di Giacomo Noventa, in cui il poeta nobile fa il verso al carismatico senatore Benedetto Croce, identificandosi eticamente col mondo degli umili, cf. M. Paolini, Bestiario Veneto, pp. 30-32 e 65.
244. Ma si rileggano pure poesie come Le fondamente nove del '25, in cui il dialetto si illimpidisce e si svuota per sottrazione progressiva sino a diventare pulviscolo emotivo, minimalismo percettivo e umorale. Il veneziano qui viene utilizzato con tagli fulminanti, quasi inevitabile per brusche impennate sentenziose, oppure scivola nel melò, come ne El delito de cale Cordoni, dove un gondoliere cornuto vendica il proprio onore: "La mora solfegiando fa le scale / e st'altro, dopo averla ben vantada, / ghe verze el cuor de giazzo col cortelo", cf. Ugo Facco De Lagarda, Poesie scelte (1918-1978), Venezia 1979, p. 245, o ancora si fa arguzia irriverente come nel monologo malizioso che movimenta la Confession de la vedova, con ritmi portiani: "Dies'ani in luto; ma 'l luto no toca / né viso e brassi, né peto, né colo. / Me vardo in specio: gò rossa la boca... / Son [...] rossa perché me consolo. / Vien da la cale un gran coro de mati: / verzo la porta, po' scondo i ritrati", ibid. p. 251.
245. Id., Cronache cattive, Milano 1962, p. 89.
246. Ibid., p. 81.
247. Ibid., p. 82.
248. Ibid., p. 83.
249. "Per cui l'ultima cosa leggiadra che il vecchio conte poté intravedere in quella sua estrema stagione fu certamente il corpo seminudo, abbandonato nel caldo, di una donna riconoscente e bella. (Allungare il braccio non avrebbe potuto, perché già da qualche mese la vita gli si era pressoché tutta raccolta nei piccoli occhi arguti)", ibid., p. 84.
250. In tale ambito si possono inserire gruppi molto diversi, ma egualmente vitali, come il veneziano-genovese Andrea Liberovici, a ridosso delle partiture di Edoardo Sanguineti, e ancora il teatrino operistico per marionette de La fede delle donne, con sede in Giudecca, guidato da Margot Galante Garrone, o la rete dei pub e dei bistrò, affollati da jazzplayers e da giovani performers, comici e non, tra cui quello di Marghera Al Vapore, dove operano i Do Roversi, composto dai promettenti Betty Andriolo, Barbara Eforo, Massimiliano Cortivo e Fabio Pausani, ultimo prodotto del risorto Teatro Universitario, presieduto da Sabina Tutone, architetta friulana trapiantata in laguna. Ma a Marghera opera altresì, quale coordinamento a livello nazionale dei teatri off, La Nave, con Francesca D'Este.