Teatro del Seicento – Introduzione
Chi dice Seicento dice barocco; ma chi dice teatro del Seicento non dice propriamente teatro barocco. Il barocco, nel senso deteriore della parola, non potè fare gran presa sui cultori della poesia drammatica che rimasero fedeli, per indole e per educazione, alle forme e al linguaggio ereditati dal teatro del Rinascimento. Perciò quello che fu detto bene il «vizio della parola», nel teatro del Seicento (quello, s'intende, lievitato dalla poesia) appare solo per eccezione: l'abuso delle metafore, il concettismo, e gli altri mezzi o mezzucci verbali che incontriamo nella lirica del secolo, sono quasi sempre assenti. Chi poi volesse trovare in quel teatro il barocco come gusto di un'intera età, dovrebbe volgersi non tanto all'espressione letteraria quanto alle forme sceniche, alla vera e propria scenotecnica, specialmente nei fioriti campi del melodramma e degli spettacoli di corte, e in quelli della commedia dell'arte.
Pressoché immune dal turgore secentistico della parola è, almeno ai suoi inizi, il melodramma, o, come si amava dire circa a mezzo il secolo, l'opera in « musica», un genere d'arte destinato, come tutti sanno, a un grande avvenire, e ad altezze che sono ancora oggi invidiate all'Italia. Il melodramma - è cosa ormai pacifica - non sboccia all'improvviso come un fiore da ignoto seme, ma ha le sue radici ben addentro nei secoli anteriori, e se riesce a trovare le sue forme caratteristiche proprio a cavaliere fra il secolo XVI e il secolo XVII, è perché da un lato il canto monodico si affermava ormai rigoglioso e promettente di contro alla stanca e arida polifonia madrigalesca, e dall'altro gli umanisti della Camerata de' Bardi, movendo dagli studi sulla tragedia greca e sulla musica che l'avrebbe rivestita, erano ormai giunti al principio del « recitar cantando», e quindi a quello « stile rappresentativo» che affiderà alla voce del cantante il compito di esprimere l'individualità drammatica dei personaggi.
Ma dell'origine del melodramma e dei suoi rapporti con la poesia nel Seicento discorre qui appresso Luigi Ronga. A me spetta solo giustificare la scelta dei testi che offro ai lettori, e perciò è da dire subito che degli innumerevoli «libretti» per musica pullulati nel secolo mi sembrano meritevoli di entrare nel nostro volume soltanto quelli del fiorentino Ottavio Rinuccini, il quale può davvero essere chiamato «il primo librettista del teatro moderno». Egli ha infatti, sia pure per gradi, offerto ai musicisti un modulo di rappresentazione teatrale che ebbe immediata fortuna e valse a impostare, se così vogliamo dire, la forma di un « genere» vero e proprio che nemmeno oggi si può dichiarare del tutto esaurito.
Il suo primo tentativo fu la Dafne. ispiratagli nel 1594 dalle discussioni, o, se vogliamo, dalle illusioni della Camerata de' Bardi, di cui egli era tra i più autorevoli e più ascoltati componenti. Tentativo, ripeto, tant'è vero che la favola fu per tre carnevali successivi rappresentata con sempre nuove modificazioni e miglioramenti del testo, e solo il 21 gennaio 1599 raggiunse, nella rappresentazione in casa di Iacopo Corsi, l'assetto definitivo in cui è pervenuta a noi.
Chiari i segni di struttura ancora acerba. Non offre una premeditata divisione di atti veri e propri, ma solo un prologo e sei brevi scene. Il prologo è detto da Ovidio ai principi regnanti (e in particolare a Cristina di Lorena), e trattandosi di cantare una metamorfosi non può dirsi che il personaggio sia scelto male; ma in realtà l'ufficio suo è soltanto di consentire al poeta l'omaggio consueto agli spettacoli di corte. Delle sei scene, la prima non ha a che vedere col mito di Dafne, ed è in sostanza, come argomento, la ripresa di un intermedio rappresentato in Firenze nel 1589 per le nozze di Ferdinando I: cioè il combattimento di Apollo col Fitone; omaggio al gusto dello spettacoloso, che sta a provare - come bene ha visto il Della Corte - che in quel tempo il Rinuccini «non aveva ancora chiare nella mente le finalità del melodramma; prima di giungere al momento lirico egli credette opportuno dilettare la nobile folla [degli ascoltatori] con uno spettacolo meraviglioso».
Anche la seconda scena, con la breve disputa fra Amore e Apollo alla presenza di Venere (donde poi la vendetta di Amore che colpirà con la sua freccia il dio di Delo), potè sembrare a lettori moderni pressoché inutile. Ma è vano cercare in questa «prova» del Rinuccini (e nelle seguenti) una successione logica e stringente di casi drammatici e psicologici dei personaggi. La fisionomia poetica della Dafne è altrove: è nella grazia ingenua e squisita con cui le sue scene sono disegnate, è nel manifesto fascino musicale che emana dai suoi versi fino a farli sentire come già immersi in segrete polle melodiche. Come costruzione drammatica, la Dafne appare una sequela di scene slegate che si succedono in forma di dialoghi tra divinità e tra pastori, e che il coro, a volte, commenta più o meno sentenziosamente: un abbozzo insomma. E come si spiega allora che questo abbozzo affascinò i musicisti del tempo, e non solo il Corsi e il Peri, ma anche, a distanza d'anni, il Caccini e Marco da Gagliano, e altri? La risposta non è difficile: i musicisti, agli albori del melodramma, sentivano la suggestione emanante dalla malinconia lene dei versi del Rinuccini, e li leggevano e li ammiravano e li studiavano a gara, quasi a sorprendervi il segreto del misterioso tessuto melodico su cui parevano fioriti. Si veda a prova, oltre alla celebre descrizione della metamorfosi di Dafne (scena v), il pianto di Apollo nella scena ultima, che è veramente il pianto musicale di un dio, che dalle note umane risale alle divine tramutando in un inno il suo dolore.
La Dafne conta 445 versi. L'Euridice, che la seguì, ne ha 814, essendosi il Rinuccini allargato «alquanto più ne' ragionamenti», come osservò nel 1608 Marco da Gagliano; ossia, come diremmo noi, nei dialoghi. In realtà, l'Euridice, rappresentata a Firenze il 6 ottobre 1600 per le nozze di Maria de' Medici, con le musiche del Peri e del Caccini, ha, rispetto alla Dafne. pur nella somiglianza di struttura (un prologo e sei scene), una maggiore consistenza drammatica anche a prescindere dai «ragionamenti» dei personaggi. L'azione non è più semplicemente narrata, ma, in certa misura, svolta direttamente; e assai più varia è la stessa atmosfera esteriore, offerta al musicista, che dall'ambiente pastorale delle prime tre scene passa a quello infernale della quarta, per tornare al sereno della sesta. Ma nella maggiore elaborazione tecnica, che allontana o svaga dai problemi della parola da intonare, e accentua i valori rappresentativi, o teatrali che dir si voglia, la poesia soffre, e qua e là cede il posto alla retorica, al vacuo sentenziare, persino al secentismo crudo (per esempio, «dove ghiaccio divenne il mio bel foco»). Fors'anche per questo la fortuna musicale dell'Euridice fu inferiore a quella della Dafne. Ma non mancano, come nella Dafne. i passi in cui la segreta vena melodica che era nell'anima del poeta affiora con dolcezza fascinosa: ad esempio, per tacer di altri passi, nel racconto con cui, nella seconda scena, è annunziata la morte di Euridice.
Discorso analogo è da fare per l’Arianna, cui toccò la fortuna delle musiche di Claudio Monteverdi (corte di Mantova, 28 maggio 1608). La tela si è allargata ancora in servizio dello «spettacolo», le scene sono diventate otto, i versi 1115; ma la poesia resta frammentaria, e va cercata, oggi, in qualche nota d'ambiente sottolineata dai cori, e soprattutto nel personaggio di Arianna, il cui lamento splende al centro del melodramma, a riprova dell'altezza a cui può ascendere la vena elegiaca del Rinuccini. Appunto il motivo elegiaco è, come ha visto bene Attilio Momigliano, quello in cui egli fa le sue prove migliori: «una pena d'amore che fa più dolce la voce dell'infelice amante - Apollo, Orfeo, Arianna, Eco e Narciso».
Con questi suoi «libretti» che, muovendo dalle indagini e discussioni accademiche, costruì sagacemente avendo l'occhio insieme al dramma pastorale e alla tragedia classica, il Rinuccini offrì alla musica del Seicento il dono prezioso di una struttura teatrale destinata, allora e poi, a grandi sviluppi. Ma degli innumerevoli «librettisti» che dopo di lui, e in tutto il Seicento, e ancora più fitti nel Settecento, si misero nel solco che egli aveva felicemente aperto, nessuno ha vero diritto di cittadinanza nella poesia italiana; nemmeno quel Busenello che dette a Monteverdi L'incoronazione di Poppea, e che è parso a qualcuno «geniale». Per ritrovare nel dramma per musica il genio, cioè la poesia, e sia pure una poesia tenue come quella del Rinuccini, bisogna giungere al Metastasio.
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Il dramma pastorale infierisce nel Seicento in proporzioni forse maggiori del melodramma; ma, anche in questo campo, ricchezza di produzione non significa ricchezza d'arte, e arte vera non ci è offerta che dal Pastor fido di Battista Guarini, che è certo l'opera teatrale più letta, più ammirata e più discussa di tutto il secolo, in Italia e fuori. A voler fare i conti con la eronologia intesa in senso stretto, il Pastor fido dovrebbe ritenersi un frutto del Cinquecento perché ne fu iniziata la composizione fin dal 1580, e apparve per la prima volta stampato nel dicembre del 1589; ma a parte il fatto che l'edizione definitiva è del 1602, nessun dubbio che la vita di questa «tragicommedia pastorale» si svolge soprattutto nel Seicento, e che per i suoi caratteri intrinseci - in particolare per il sentimentalismo sensuale che lo ispira - deve dirsi opera secentesca. Ecco perché il Pastor fido.entra di pieno diritto in questo nostro volume, anziché in quello destinato al teatro del Cinquecento.
Il Guarini stesso battezzò la sua opera «tragicommedia pastorale», volendo così significare che nel suo componimento l'elemento tragico e l'elemento comico erano fusi e contemperati col proposito di creare un terzo genere teatrale perfetto. Proposito non privo di audacia, sullo scorcio del Cinquecento; infatti suscitò subito le ire degli aristotelici già avversi alla pastorale cinquecentesca perché convinti che generi legittimi non potessero essere che la tragedia e la commedia. Ne nacque una polemica che, cosa curiosa ma molto significativa, cominciò prima ancora che il Pastor fido vedesse la luce, e ne accompagnò poi per un bel pezzo la fortuna. Vi partecipò vigorosamente lo stesso Guarini, con il Verato primo (1588) e il Verato secondo (1593), violente scritture rivolte in particolare contro Giason de Nores e Sperone Speroni, alle quali poi fece seguire, otto anni dopo, un discorso, assai più sereno, col titolo Compendio della poesia tragica. È giusto riconoscere che egli seppe difendere con molta coscienza critica la sua opera, confutando il moralismo controriformistico degli avversari e affermando l'indipendenza della poesia dalla morale e dalla politica in quanto la poesia ha per fine non l'ammaestrare, ma il dilettare, e il dilettare « imitando» bene qualunque cosa «o buona o cattiva». Per di più egli si appellava a un giudice di poesia ignoto ad Aristotele e ai teorici delle regole, cioè al «consenso universale», e preludeva così a quel concetto del «gusto» che doveva avere tanta parte nell'estetica del Seicento. Per lui, adunque, la poesia è puro diletto e, nel campo del teatro, è il diletto che deve «purgare la mestizia dell'ascoltatore» stanco ormai della tragedia antica, con la sua abusata catarsi del terrore e della pietà, e stanco della commedia classica costretta a ricorrere a macchinosi intermezzi per farsi tollerare. «Chi compone tragicommedie» scrive il Guarini «prende dall'una [cioè dalla tragedia] le persone grandi, non l'azione, la favola verisimile, ma non vera, gli affetti mossi, ma rintuzzati, il diletto, non la mestizia, il pericolo, non la morte; dall'altra [la commedia] il riso non dissoluto, le piacevolezze modeste, il nodo finto, il rivolgimento felice, e sopratutto l'ordine comico.» E le sacre regole aristoteliche? Il Guarini non intende certo respingerle o confutarle, ma, anzi, in certo modo perfezionarle creando un genere drammatico che anche gli antichi avrebbero potuto accogliere senza infrangere i moduli del loro gusto. Ed è da osservare che nel tentativo di rinnovare il teatro muovendo dalla tragedia e dalla commedia classica il Guarini precorre quella teorica del perfezionamento, di cui si farà tanto discorrere nel Seicento.
Sul terreno polemico egli si atteggia a inventore di un genere nuovo, ma già i contemporanei intravidero, e noi oggi scorgiamo chiaramente, che in realtà si muoveva in un solco già ben tracciato e fecondato da altri poeti della sua età; dal quale anzi già era sbocciato un fiore immortale: l’Aminta. E l'Aminta ebbe davanti agli occhi il Guarini facendo e rifacendo il Pastor fido. Egli stesso, in una nota della edizione definitiva del 1602, afferma di avere «cozzato» col Tasso, e bisogna dire che non si limitò a cozzare, cioè a gareggiare con l'amico suo: lo ormeggiò in parecchie situazioni, lo ricordò nella ideazione e nel carattere di vari personaggi, e persino costruì un coro dell'atto v sulle rime stesse del primo coro dell'Aminta. Tuttavia non è possibile considerarlo un imitatore vero e proprio: egli è piuttosto un emulo sagace che, magari con una punta d'invidia, si propose di superare il modello, riuscendovi in pieno agli occhi dei contemporanei, se non proprio ai nostri.
Agli occhi nostri, cioè lungi dalla temperie polemica in cui vide la luce, il Pastor fido non è altro che un dramma pastorale, ispirato al persistente sogno umanistico di una vita svolgentesi nell'Arcadia ideale, fuori dei contatti dell'ingrata realtà cittadina. Se non che l'accorto autore, consapevole di avere tra mani una materia poetica ormai troppo sfruttata, cercò d'infonderle nuova vita ricorrendo a una struttura complicata di più azioni, e ordinandola alla comica anziché alla tragica.
In realtà, checché tentasse di dare a intendere a se stesso, egli non aveva tempra di poeta tragico. Si richiama, bensì, alla tragedia greca con la legge del Fato che, governando l'azione, sovrasta a tutti i suoi personaggi e li trae a particolari situazioni risalenti a esemplari ellenici famosi; ma il suo è un Fato, come dire? posticcio e comodo, non sentito profondamente dal poeta, e neppure dai suoi personaggi. Né l'atmosfera tragica si coglie intensa nelle scene, che dovrebbero essere culminanti, del sacrificio di Mirtillo, dal quale promana (come fu osservato bene dal Tonelli) un terrore piuttosto fisico che religioso; e tanto meno nelle frequenti esortazioni e sentenze rivolte a celebrare la virtù (si veda specialmente il coro dell'atto iv, dove la legge dell'onestà, «Piaccia, se lice», vorrebbe correggere la legge della natura proclamata ne'Aminta, cioè «S'ei piace, ei lice»), perché sono in disinvolto contrasto con i passi più belli del dramma, celebranti liberamente il piacere. Invece l'intreccio delle tre storie d'amore (Amarilli-Mirtillo, Dorinda-Silvio, Corisca-Mirtillo) colle relative peripezie, tutte annodate e risolte con ammirevole abilità, ci riporta in prevalenza a un clima comico, nel quale gli elementi tragici si attenuano e, a volte, si disciolgono. Chi ha detto che il Pastor fido.manca di consistenza drammatica come l'Aminta, ha detto troppo, perché consistenza drammatica non può negarsi né alle scene fra Corisca e il Satiro (atto li, scena in), né a quelle tra Silvio e Dorinda (atto iv, scena I), né al giuoco della cieca (atto III, scene II e III). Già il De Sanctis riconosceva al Guarini anche «un ingegno drammatico», che del resto è attestato non solo da determinate scene comiche particolarmente felici, ma proprio dalla struttura stessa dell'opera, tecnicamente assai superiore a quella dell'Aminta. Si veda, per questo rispetto, con quanto equilibrio e con quanta sapiente cura degli effetti è distribuita nei cinque atti la vasta materia: a un primo atto, destinato al racconto degli antecedenti, seguono due atti densi, in cui la triplice azione si distende e si intreccia in crescenti sviluppi, che paiono condurre, nell'atto quarto, a una inevitabile catastrofe, mentre invece, nel quinto, si risolvono lietamente.
Così non manca certo al Pastor fido quello che suol dirsi l'interesse drammatico.
Tuttavia è innegabile che l'indole del Guarini è più incline all'effusione lirica che al vero e proprio dramma, e che sono proprio i momenti lirici a fare stacco grande sul fondo composito dell' opera. Perciò non solo abbondano i cori, ma, come ha osservato ancora il De Sanctis, «ciascun personaggio fa esso medesimo ufficio di coro, perché non opera, ma discorre, riflette, effonde i suoi dolori e le sue gioie». Il che, però, non va inteso nel senso che i personaggi del Pastor fido siano tutti privi di sostanza psicologica, pallide proiezioni e variazioni dell'anima del poeta. Pallidi sono certamente i personaggi maschili, in ispecie Mirtillo e Silvio, ma non le figure femminili, Amarilli, Dorinda, Corisca: delineate, le due prime, con la finezza e la sicurezza di tocco che nasce dalla conoscenza dell'animo muliebre, incisa, la terza, con uno scaltro bulino che ne ha fatto una vera creazione. Corisca, la lusingatrice cinica ed esperta, che proclama senza veli il suo sensuale ardore, e pur sa elevarlo al grado di passione, e che poi, delusa, riesce sì a vendicarsi con la calunnia e con l'inganno, ma anche sa redimersi da ultimo davanti alla felicità che l'amato raggiunge, Corisca, dico, è la figura più felice della tragicommedia, e prelude, con la sua complessità psicologica, al dramma moderno. La scena in cui beffa il Satiro brutale è stata definita, a ragione, la più perfetta del dramma; ma si può aggiungere che tutte le volte che Corisca è in scena il poeta drammatico fa le sue prove migliori.
La sapienza dell'analisi psicologica non spiega però da sola il fascino che il Pastor fido continua a esercitare sui lettori. Conviene infatti tener conto anche della ricchezza e varietà dei toni di tutta l'opera, che vanno dal lirico al narrativo, dal descrittivo al drammatico e al comico, a volte urtandosi, a volte fondendosi, a volte sovrapponendosi non sempre opportunamente, ma sempre eloquentemente. Ricchezza e varietà che cercano la necessaria unità in quel tema fondamentale dell'amore, come legge inviolabile della natura, che percorre con insistenza tutto il poema, e si dispiega in un canto languido e squisito, che attinge dolcezze e abbandoni di raffinata sensualità; canto disteso in ritmi di armoniosa architettura e di scoperta melodia che in molti luoghi sembra già musica realizzata, e che, come tale, tenterà invano la fantasia di musicisti grandi, non escluso il Monteverdi.
Opera fortunatissima per tre secoli, il Pastor fido non ha avuto presso la critica moderna la fortuna che merita; tant'è vero che attende ancora lo studioso di alta sensibilità il quale ne descriva l'arte maliosa in un commento puntuale. Solo da siffatto commento potrà uscire la riprova della vitale finezza ed eleganza di una poesia che, pur essendo spesso troppo fiorita e troppo frondosa, o proprio perché tale, ha potuto, disciogliendosi nella musica, improntare di sé tutta la lirica nostra fino al Parini, e, in particolare, il melodramma fino al Metastasio, e oltre.
Vasta e immediata fu la fortuna del Pastor fido. che già nel 1598 veniva imitato, fin nel titolo, da Francesco Contarini con la sua pastorale La fida ninfa. Per tutto il Seicento e oltre, tenne il campo come modello, soprattutto nei riguardi degli intrecci dell'azione, il che non poteva accadere per la semplice tela dell'Aminta. (Ma c'è una pastorale del 1617 scritta da Ercole Pelliciari, che s'intitola I figliuoli di Aminta e di Silvia e di Mirtillo ed Amarilli: chi non pensa ai Figliuoli di Renzo e di Lucia?).
Non è qui il luogo di esaminare quella che argutamente Enrico Carrara chiamò «la progenie del Pastor Fido». Veda chi vuole gli elenchi di titoli e di intrecci nel Seicento di Antonio Belloni, e nel volume sulla poesia pastorale del Carrara medesimo, e si persuaderà subito che il Guarini impose veramente per tutto il secolo la sua poetica, cioè la poetica delle «peripezie» e della «catarsi», al dramma pastorale. Qui dobbiamo brevemente soffermarci sulla Filli di Sciro di Guidubaldo Bonarelli, alla quale abbiamo fatto posto in questo nostro volume.
Se non proprio la più bella pastorale del Seicento è certo, dopo il Pastor fido. la più fortunata, come attestano le numerose edizioni e traduzioni che si susseguirono anche nel Settecento. Ma tanta fortuna è in parte dovuta alla originalità, non dirò della trama, che è contesta dei soliti elementi ormai consacrati dal Guarini e dai drammi pastorali del Cinquecento, per tacere dei romanzi cavallereschi, bensì della protagonista, cioè di Celia, la semplice fanciulla che, salvata dalla violenza di un centauro per l'intervento pronto di due giovani pastori, si prodiga nel curarli delle ferite riportate nella lotta, e si innamora a un tempo di entrambi! E la poveretta è talmente torturata dalla duplice passione che le vieta una scelta, da indursi a cercare la liberazione nel tentato suicidio. Ingegnosamente il poeta pensa poi a liberarla trasformando uno dei due pastori, con una delle agnizioni consuete nel teatro del tempo, in un fratello perduto da Celia nell'infanzia. Così uno dei due amori muta natura, e l'altro arriva alle nozze felici. Noi oggi sorridiamo, ma gli spettatori e i lettori dei secoli XVII e XVIII si commossero e si appassionarono. Verosimile il duplice amore di una giovinetta pura e inesperta come Celia? E, agli effetti educativi, morale o immorale questa passione duplicata? Ne nacquero discussioni che non restarono soltanto orali: i prò e i contro dovettero tradursi in pagine polemiche, in Italia, e poi anche fuori d'Italia. Esse sembrano oggi perdute, ma che ci siano state, e assai presto, è dimostrato dalla necessità, in cui il Bonarelli venne subito a trovarsi, di dettare egli stesso una lunga Difesa del doppio amor di Celia, che, scritta nel 1606, cioè un anno dopo la prima rappresentazione della Filli, apparve per le stampe, postuma, solo nel 1612, a spese dell'Accademia ferrarese degli Intrepidi (alla quale il poeta era stato ascritto col nome di Aggiunto), e per cura di Prospero Bonarelli, il tragediografo fratello di Guidubaldo. La Difesa, che ebbe anch'essa una certa fortuna (se ne contano non meno di sei ristampe), e che ancora nel 1722 veniva da un critico francese, il Baillet, definita «une pièce pleine d'esprit et d'érudition», è in realtà una serie di prolisse orazioni accademiche, tipicamente secentesche, cioè infarcite di citazioni più o meno convenienti, che vanno da Platone e Aristotele giù giù fino al Tasso e al Molina. In esse il Bonarelli un po' «filosofando» non senza acume, e un po' arrampicandosi sui vetri, si illude di dimostrare che il caso della sua Celia è perfettamente verosimile sotto ogni riguardo, e che se è nuovo nella poesia drammatica non è altrettanto nuovo nella lirica d'amore, a cominciare da Ovidio (Am., II). Quanto poi alla moralità, dopo interminabili divagazioni conclude tranquillamente che la « difesa di Celia ha mira di giovar agli amanti sì, ma non agli amori; ella ha da liberare a lor gran prò gli amanti dall'amore ... Ho dimostrato che si può amar più d'uno, non perché più d'un n'amiate, che ciò pur troppo è comune, ma perché mentre intendete che si può amar più d'uno, non vi confidando nella lealtà d'alcuno, non ne amiate niuno».
I lettori del tempo avranno magari inarcato le ciglia davanti alla sottigliezza dei ragionamenti del poeta, ma li avranno certo dimenticati a teatro, dove, purtroppo, la povera Celia avrebbe dovuto, e dovrebbe tuttora, difendere da sé il suo strano caso passionale; avrebbe dovuto, in altre parole, aver in dono dal Bonarelli un linguaggio drammatico veramente adeguato al suo stato d'animo. Invece si veda (atto ni) con quale ingenua superficialità di trapassi e di antitesi ella tenti di rappresentare a sé, e a chi l'ascolta, il lacerante dilemma che ha in cuore. Per fortuna l'interesse artistico della Filli di Sciro non è nella figura di Celia, ma bensì nell'aura di gentilezza e delicatezza di cui l'autore ha saputo circondare gli altri personaggi, e specialmente quelli femminili. Egli non poteva essere il poeta dei casi psicologici di eccezione, ma degli affetti normali sì, e un poeta, se non profondo, sempre aggraziato. Veda il lettore la finezza con cui Ciò ri indaga l'animo di Celia; veda, se non altro, come suoni la nostalgia d'amore sulle labbra della vecchia ninfa Nerea; veda, per accennare anche un personaggio maschile, le melodiose invocazioni dell'innamorato Aminta. Il Bonarelli ha il «pennello delicato», ha detto benissimo il Croce, che cita, in proposito, la pittura di Filli e Tirsi, bimbi alla corte del re dei Traci. Ma altro potrebbe agevolmente citare chi si accingesse a darci della Filli quel commento estetico che ancora manca, come, s'è veduto, manca ancora del Pastor fido. E proprio come il Pastor fido. la pastorale del Bonarelli, nata nelle corti per le corti e le accademie, è un fiore di serra che ha serbato e serba colori ben fusi, e una sua fragranza ancora capace di raggiungere il nostro cuore.
Delizia di spettatori e di lettori furono per tutto il Seicento le favole pastorali; di preferenza ai lettori dovettero invece rivolgersi le tragedie, che pullularono tuttavia per tutto il secolo muovendo, com'è ovvio, dagli schemi cinquecenteschi dell'imitazione dei classici (Trissino, Giraldi Cinzio, Speroni), non senza particolare predilezione pel modello senechiano, imposto dal Giraldi. Accolte senza più discussioni le tre unità, il coro e la divisione in cinque atti, i tragici del Seicento gareggiano nell'ampliare e arricchire la varietà dei soggetti che attingono non più soltanto alla storia antica e al mito, alla novellistica e ai poemi romanzeschi, ma anche alla storia e alla politica contemporanea (la «ragion di Stato») e in particolare alla storia sacra. Ma la varietà dei soggetti non significa poesia, e proprio di poesia la tragedia del Seicento è poverissima. Grava su di essa, implacabile, il moralismo proprio dell'epoca; e anche nei temi schiettamente religiosi, sempre più diffusi (si pensi al teatro dei gesuiti) e ben intonati allo spirito della Controriforma, troppo di rado l'ispirazione riesce a superare i mortificanti impacci dei limiti e delle censure interiori ed esteriori. Così la storia del «genere» non può offrirci che una scialba teoria di scrittori e di titoli, dalla quale due nomi soli emergono oggi nella luce non peritura dell'arte: Federico della Valle e Carlo de' Dottori.
Singolare il destino di Federico della Valle, del quale i contemporanei non parvero accorgersi, sebbene sia vissuto non pochi anni presso la corte di Carlo Emanuele I, la quale era il ritrovo e la palestra dei begli ingegni del tempo. Fra essi egli si affaccia una sola volta, nel 1595, con la rappresentazione di una tragicommedia, Adelonda di Frigia, che, pur essendo accompagnata, negli intermezzi, dalle note ispirate di un musicista autorevole, il Veccoli, non ebbe risonanza di sorta fuori della corte. In realtà, per quel che si può congetturare dai pochi documenti che possediamo, il Della Valle non fu un vero cortigiano, ma solamente un onesto e apprezzato «impiegato», che non riuscì mai ad elevarsi in dignità e in ufficio tanto da poter sedere accanto a un Marino, a un Guarini, a un Testi ecc. La poesia, alla quale lo chiamavano il nativo ingegno, l'altezza dell'animo e la preparazione culturale, rimase per lui un'attività marginale, forse neanche sospettata dai canori cigni presso i quali gli toccò vivere gli anni migliori: nessuno di essi, infatti, menziona il suo nome, neppure - se ho visto bene - nei carteggi. Così egli restò nell'ombra, e nell'ombra tenne le tragedie (almeno tre) che era venuto scrivendo non tanto per ottenere un pane meno umile e meno scarso, quanto per un irrefrenabile bisogno dell'animo. E solo in età avanzata, quand'ebbe ottenuto un ufficio meno oscuro presso il governatore spagnuolo di Milano, il suo pensiero si volse ai posteri, e nel 1627 pubblicò, probabilmente a sue spese, in Milano, la Iudit e l'Ester in un solo volume, dedicato alla «altissima reina de' Cieli»; e l'anno dopo, in un volume a sé, la Reina di Scozia dedicata a Urbano Vili. Ma egli era un poeta troppo superiore ai suoi tempi e perciò i due volumi giacquero intonsi nelle biblioteche, mentre l'ombra si stendeva più fitta che mai sull'autore e sulle sue creature. Una lunga ombra e un lungo incredibile silenzio di quasi tre secoli, finché un acuto indagatore degli aspetti meno osservati del Seicento, dopo un primo incontro giovanile con la Reina di Scozia, ritornò ad essa nel 1929, e ne scoperse - è la parola giusta - la serietà morale e l'altezza dell'ispirazione. Da allora Federico della Valle cessò di essere un Cameade per apparire uno dei pochi veri poeti del secolo XVII, e, tra essi, forse il più grande.
Il lavoro critico intorno alla sua opera, suscitato dalla rivelazione del Croce, fu subito notevole, e grazie ad esso oggi possiamo veramente riconoscere che il Della Valle è venuto «in primo piano nel quadro della letteratura del Seicento». Ma parecchio resta a fare e nello studio e descrizione della sua poesia, e nel lavoro più propriamente filologico intorno ai suoi testi, per i quali, come del resto per le vicende biografiche dell'autore, ancor oggi un po' misteriose, sono da attendersi possibili scoperte in archivi e biblioteche.
Ad esempio gli studiosi hanno indagato e discusso la cronologia delle tre tragedie, e fino a poco fa si pensava che la prima da lui composta, cioè la Reina di Scozia, risalisse al 1594, in quanto nella Biblioteca Nazionale di Napoli esiste una copia autografa di essa che nella dedica al duca di Parma e Piacenza, Ranuccio Farnese, reca la data 1 gennaio 1595. Ma ecco che recenti ricerche di Bruno Baldis hanno rivelato l'esistenza, nella Biblioteca Civica di Bergamo, di un altro manoscritto apografo della tragedia, il quale nella dedica porta invece la data «1 gennaio 1591». Dal che risulta che, per quanto sappiamo,
Federico della Valle fu il primo poeta nostro che ardì trattare in forma drammatica la fine di Maria Stuarda. Infatti si ricordi che, mentre la decapitazione dell'infelice regina avvenne il 7 febbraio 1587, la tragedia ispirata al Campanella dal truce episodio (e ora perduta) venne composta solo nel 1598, quella di Carlo Ruggeri non fu data alle stampe che nel 1604; e apparirà subito chiaro che l'ispirazione del Della Valle non ha per nulla origini letterarie, ma nacque dalla profonda commozione che l'atroce fatto destò nel cuore dell'uomo e del cattolico. E neppure si pensi a origini cortigiane, anche se, come vedremo, la redazione del manoscritto di Napoli è dedicata con parole cortigianesche a un principotto del tempo. Basti osservare che la redazione del manoscritto di Bergamo, anziché a un principe, è dedicata a una dama, la «illustrissima signora Vittoria Solara», per ora a noi ignota, ad onta delle ricerche del Baldis; e che proprio alla Solara, di cui loda i begli occhi e le belle mani, il Della Valle attribuisce « il pensiero, anzi il comandamento, di far vedere in forma tragica l'acerba morte della Reina Maria di Scotia», allontanandoci così dalle corti e presentandoci se stesso in una luce di galanteria (o forse di sincero amore?) che sorprende, ma non dispiace, in una figura che nell'opera sua appare così austera. Naturalmente non siamo in grado di stabilire con esattezza entro quali limiti vada inteso il «pensiero» o « comandamento»: è però verosimile che si trattasse del semplice suggerimento o consiglio di una bella donna, colta e gentile, a un giovane amico molto promettente nel campo della poesia. È da rilevare che nell'atto stesso di offrire il manoscritto alla nobile signora, il Della Valle afferma, con sicura coscienza, di aver compiuto opera originale, senza possibilità di confronti: egli chiama, infatti, la sua tragedia «poema singolarissimo», nella quale espressione l'aggettivo non può significare se non che nessuno fino allora aveva osato tanto in poesia, in Italia e fuori d'Italia. Di qui la difficoltà del problema - chi volesse proporselo - delle fonti storiche e poetiche di cui egli si servì nella sua ardita impresa. È probabile che abbia letto le prime narrazioni comparse nel mondo cattolico subito dopo la decapitazione della regina, e cioè quella di Adam Blackwood in francese (Martyre de Marie Stuart) che è del 1587, e quella di Antonio de Herrera in lingua spagnuola (Historia de lo sucedido en Escoria e Inglaterra en los cuarenta y cuatro atìos que vivió Maria Estuardo) che è del 1589. Ma poiché i particolari che in queste opere troviamo sulle ultime ore di Maria non corrispondono del tutto a quelli rievocati dal Della Valle, è verosimile che egli abbia avuto sott'occhio anche qualcuna delle varie relazioni anonime che subito corsero manoscritte in tutto il mondo cattolico. Inutile pensare al poema di Lope de Vega (La Corona tràgica - Viday muerte de la serenisima reina de Escoria ecc.), che è del 1627, e al diffuso racconto in latino dello scozzese Giorgio Coneo, che è bensì ricordato dal Della Valle nella dedica premessa alla stampa della sua tragedia, ma con la sicura se pur tacita coscienza di non dovergli nulla, perché apparve solo nel 1624. Possiamo dunque anche noi chiamare la Reina di Scozia «poema singolarissimo», così per la nuova data che possiamo apporgli, come per il posto che occupa nella produzione tragica dell'ultimo Cinquecento, e spiegarci bene l'attaccamento che il poeta ebbe per tutta la vita a questa sua sfortunata creatura, intorno alla quale si affaticò, lungamente e ripetutamente, in un lavoro di lima di cui potremo renderci conto solo quando avremo un'edizione critica che ci dia tutte le varianti dei manoscritti di Napoli e di Bergamo in confronto col testo della edizione da lui data alle stampe prima di chiudere gli occhi.1 Vien fatto di pensare che il Della Valle ebbe la certezza di dover serbare per i posteri un capolavoro che superava la poesia religiosa contemporanea, un capolavoro che, nato dalla commozione di una bella dama, gli parve meritevole, dopo quarantanni, di venire finalmente stampato avendo a fronte il nome del pontefice regnante.
Benedetto Croce, ristampando nel 1930 la Reina di Scozia, volle accostarla alle « sacre rappresentazioni» per taluni aspetti, e collegarla per altri alla « tragedia politica» già sorta con Pomponio Torelli e destinata a fiorire anche nel Seicento; ma è facile osservare che invano si cercherebbe nel Della Valle la fresca ingenuità e il tono popolaresco delle sacre rappresentazioni, e che le massime della ragion di Stato poco hanno a che vedere con le sue tragedie. Il vero è che la intima essenza poetica della Maria di Scozia, come della Iudit e dell'Ester, è quella che il Croce stesso definisce «la larga vena di umanità» che tutte le avvolge, e che deriva solo dal profondo del suo animo. Nella Maria di Scozia il poeta è in ginocchio davanti alla sua eroina, e soffre con lei il martirio per la fede. Egli la accompagna nelle ultime ore di vita leggendo nel suo cuore e nel suo volto le combattute immagini di speranza che l'amorosa vecchia cameriera e le giovani damigelle cercano di suscitare; e poi, scoccata l'ingiusta condanna, scolpisce la regale dignità e la femminea gentilezza della vittima piamente rassegnata, e con lei, adorando, si rassegna all'imperscrutabile volere divino che consente l'ingiustizia e il delitto sulla terra. La tragedia è tutta in Maria e nel suo poeta. E veramente unitaria l'ha sentita nel suo lungo sforzo di meditazione e di revisione questo alto spirito cristiano, liberandola via via da ogni elemento che potesse frangere o deviare la commozione (come l'episodio del soldato amico della regina, che ancora appare nella stesura del 1595), e persino sopprimendo la divisione in atti e in scene a cui si era attenuto nelle due prime redazioni. E forse, meglio che ad un tardivo ritorno allo schema della Sofonisba del Trissino e a quello della tragedia greca (a cui pure ci richiamano il prologo e l'uso del coro), è qui da pensare al desiderio di rendere lineare e concentrata al massimo la rappresentazione del martirio, anzi dell'agonia della regale vittima di una regale ingiustizia.
Questa tragedia, così tesa e scarna, con un solo vero personaggio (ché la cameriera, il maggiordomo e lo stesso coro sono rifrazioni dell'animo di Maria, e ombre gli altri), non fu mai rappresentata - che si sappia - vivo l'autore, e non può certo dirsi destinata neanche oggi - ad onta di qualche tentativo non proprio sfortunato - a reggersi sulle scene. Non monotona, come fu detto, ma certo immobile nel nucleo centrale dell'ispirazione, densa di meditato e sofferto pathos religioso, essa richiede, piuttosto che spettatori, dei lettori preparati e pensosi.
Discorso un po' diverso può farsi invece per le altre due tragedie del Della Valle, che ci appaiono più «teatrali» nel senso della loro possibile rappresentazione scenica. La più riuscita per questo rispetto, e non per questo solo, è la Iudit. Qui c'è forse minor penetrazione di anime, ma più varietà di scene, e ricchezza di contrasti, e potenza di colorito. Per l'azione, il Della Valle si è naturalmente attenuto al racconto biblico, ma limitandolo, in omaggio alle regole, alle ultime ventiquattro ore del soggiorno di Iudit nel campo assiro: dalla notte del quarto giorno alla notte del quinto. Così il dramma si inizia nelle tenebre rotte dai bagliori delle armi che avvolgono il campo di Oloferne, e termina nelle tenebre rotte dalle faci agitate sulle mura di Betulia, a cui rispondono i lamenti di Vagao e del coro davanti allo scempio scoperto nella tenda di Oloferne. Ma fra il notturno orrore dell'inizio e quello del tragico finale splende la poesia, sempre presente sulla scena quando vi si muovono e parlano Giuditta, Oloferne e Vagao, i tre personaggi del Liber Iudith, di cui il Della Valle ha fatto tre creazioni. Iudit è sì l'eroina che si sente destinata da Dio a un'atroce impresa per liberare il suo popolo, ma è anche la donna che ha coscienza della propria bellezza e del fascino da essa irradiato, e che sa di poter compiere, coi mezzi umani di cui Dio l'ha adornata, la sua missione. Perciò è sempre donna, e compiuto lo scempio, trova, per darne notizia ad Abra, parole misurate in cui la sua femminilità ha come un fremito profondo: « Fu pria Oloferne del mio amor ferito; - or il misero è morto.»
Donna, non virago; e pia, ma non predicatrice, ella nasconde nell'intimo del suo cuore la lotta fra l'umana pietà per la vittima designata e l'impeto religioso che la sospinge all'atroce missione. E l'umanità è salva anche in Oloferne, che non è solo il gigante conquistatore di città e di regni, ma l'uomo capace di elevare la «voglia» dei sensi a un sentimento che quasi non osa chiamare amore, ma che all'amore si avvicina. E umanità c'è nel suo servo e confidente Vagao, l'eunuco che appena si affaccia nel racconto biblico, e che qui appare scaltro prosseneta, dipintore eloquente delle bellezze di Iudit, ambizioso di potenza, ma incapace di penetrare nell'animo della fascinatrice, pur sapendo innalzarsi a considerazioni morali e politiche.
Parte importante ha nella tragedia il coro, che non si limita a farsi portavoce dell'inevitabile ma non insistente moralismo controriformistico dell'autore, ma partecipa all'azione e la vive, e la commenta, dividendosi a volte sagacemente in coro e in semicoro. Né trascurabili i personaggi minori, come Abra, e i capitani di Oloferne, tra i quali ha giusto rilievo Arimaspe, il solo che sembra avere come una intuizione della tragedia imminente, tanto che vorrebbe l'immediato assalto a Betulia; ma poi cede anche lui al fascino di Iudit. E su tutto e su tutti il Della Valle getta i colori sfarzosi di un oriente barbarico che non è presente solo nelle vesti, nelle armi, nel fasto dei padiglioni, nel linguaggio dei guerrieri, ma è nell'atmosfera stessa che avvolge tutte le scene. Potente la descrizione del convito fatale, posta in bocca a un servo, e, non meno ricco d'efficacia drammatica, il ditirambo degli ebbri capitani che se ne vanno cantando vittoria mentre già « Betulia tutta si è mossa». Mirabile la sagacia tecnica con cui il poeta ha superato le difficoltà sceniche del finale; a ragione il Momigliano ha osservato che «dal convito in avanti la tragedia è tutta una serrata alternativa di fatti rappresentati e di fatti riecheggiati sulla scena: i più violenti sono confinati in uno scorcio, o in un riflesso, ripudiando i mostruosi effetti della poetica giraldiana». Così «un senso vago di grandiosità non turbato da un fisico orrore, prende l'animo dello spettatore e lo incatena fino alla fine, meravigliato da tanta abilità costruttiva e suggestiva».
Note profonde di umanità risuonano anche nella Ester, che tuttavia è tragedia assai più lenta e assai meno concentrata della Iudit. Il poeta si attiene anche qui al racconto biblico, ma con maggiore libertà, specialmente nei riguardi della protagonista, la quale ha tratti di gentilezza femminile che mancano nel Liber Ester. Così ella non attende, come nel racconto della Bibbia, l'ordine di Mardocheo per presentarsi al re, ma affronta di sua iniziativa il tremendo rischio di morte, sottolineato con particolari suggeriti al poeta dalla sua fantasia. E l'Ester vittoriosa non è la biblica eroina che tripudia con il suo popolo per lo sterminio dei nemici, ma la pietosa che vuole reso il corpo di Aman alla moglie e ai figli. Il pio poeta non dimentica che Ester, come Iudit, sono, per la sua fede cristiana, preannuncio di Maria.
Non direi, come pur fu detto, che la figura di Ester sia «soprafatta» da quelle di Aman, Zares e Dagan, ma certo il limitato motivo tragico offertogli dalla Bibbia spinse il Della Valle a delineare con larghezza le altre figure di contrasto e di contorno. Aman è l'antagonista superbo e feroce, che crede di lottare con Mardocheo e non si accorge che il suo avversario è Dio; Zares è la moglie ambiziosa, crudele-e cieca, che aprirà gli occhi solo alla catastrofe e chiuderà il dramma invocando la morte con una commovente lamentazione. Personaggio non biblico e non necessario all'azione è Dagan, l'amico veritiero di Aman, come lui greco, e a lui «in patria congiunto». Personaggio di comodo, interprete del moralismo del Della Valle che, modesto uomo di corte, gli presta volentieri i sentimenti e i giudizi forse da lui stesso vissuti. Il moralismo risuona naturalmente anche sulle labbra del giusto Mardocheo e, a tratti, del coro, ma senza luce di poesia; mentre sono invece alta poesia le lamentazioni di Mardocheo avvolto nel sacco, e quelle ripetute e sparse del coro, che è continuamente in scena, e finisce da ultimo col trarre la morale dell'azione ammonendo:
e stolto e cieco sei,
o tu ch'ai gioghi de le reggie arrivi,
se le cadute e i precipizii rei
col piano passo d'umiltà non schivi!
In complesso una tragedia che verrebbe voglia di definire piuttosto un « poema», come la Reina di Scozia, e che, come già avvertimmo, è certo più adatta alla lettura che alla rappresentazione.
Rappresentata fu invece sicuramente l'Adelonda di Frigia, tragicommedia, cioè tragedia a lieto fine, recitata, come già vedemmo, alla corte di Carlo Emanuele I nel 1595, in occasione della visita del cardinale arciduca Alberto d'Austria (17-27 novembre). Più che di opera d'occasione, deve trattarsi di lavoro, almeno relativamente, giovanile. Non si dimentichi che nel '95 il Della Valle aveva già nel cassetto la Reina di Scozia da oltre quattro anni. Voglio dire, con questo, che l'Adelonda può essere stata scritta, o, se non altro, ampiamente abbozzata, anche prima della Reina, e rispolverata, e compiuta frettolosamente, nel 1595 per invito di Carlo Emanuele. Il fatto che ci sia giunta solo in una stesura lacunosa, edita da un nipote dell'autore, dice pur qualche cosa. Certo è composizione di livello artistico assai inferiore a quello delle tre tragedie, e si stacca da esse non solo, com'è ovvio, per il genere, ma anche per la tecnica piuttosto ingenua, pur ispirandosi, come osservò subito il Croce, alla Ifigenia in Tauride di Euripide, la quale è però imitata, o se così vogliamo dire, travestita, non senza intenti controriformistici di cristianizzazione del mito. Eppure il componimento non può trascurarsi nello studio del Della Valle poeta. Acutamente il Momigliano ha osservato che nei primi tre atti c'è già «l'aura di tranquilla e profonda malinconia» che respiriamo nella Reina di Scozia, anche se il peso delle riflessioni e del sentenziare mortifichi «l'ispirazione affettuosa». Adelonda, finché soffre senza speranza e confida il suo soffrire a una fida ancella, può ben dirsi una sorella minore di Maria Stuarda; e di questa parentela suggestiva abbiamo ora una riprova nelle date che sono da attribuire ai due componimenti. Ma l'Adelonda nei due ultimi atti esce dalla poesia per entrare nel romanzesco caro ai tempi.
Piacque questa tragicommedia alla corte di Torino? Per le testimonianze che ci sono giunte, la risposta non può che essere affermativa, ma forse fu molto applaudita perché i personaggi erano tutti impersonati dalle dame di corte e perché gli intermedi di cui venne arricchita dal Della Valle (e dal duca stesso, come ho dimostrato altrove) erano stati musicati da Pietro Veccoli, insigne compositore di madrigali. Quello che pare sicuro è che non ebbe altre rappresentazioni, come dimostra di per sé la ricordata edizione postuma del Parona tratta da un « copione» malconcio e non riveduto dal poeta. Evidentemente nella sua alta coscienza di artista il Della Valle sentì tutta la distanza che separa l'Adelonda dalle tre tragedie, distanza che apparirà grande quando della Reina di Scozia, della Iudit e dell'Ester avremo quel commento estetico puntuale che si meritano e che dovrà tener conto anche della lingua e dello stile.
A temperie d'arte ci solleva pure la tragedia del Dottori, Aristodemo. Più fortunato di Federico Della Valle, Carlo de' Dottori ebbe per questo suo lavoro le lodi dei contemporanei; ma la sua fama venne attenuandosi nei secoli successivi, le ristampe cessarono e la polvere del tempo si accumulò sull'Aristodemo come sulle altre sue opere. Ai dì nostri gli studiosi dei «generi», come il Bertana, stroncarono addirittura la sua tragedia. Però anche per lui, come per l'Astigiano, venne l'ora della giustizia, e ancora una volta per merito del Croce, il quale, prima in alcune pagine della sua Storia dell'età barocca in Italia, e poi nell'introduzione a una sua accurata ristampa dell'Aristodemo (1948), ne assunse le difese proponendosi di dimostrare, con una analisi rapida, ma acuta, che si tratta di una vera opera di poesia fra le più notevoli del Seicento.
Fortemente discorde da quello del Croce è invece il giudizio di Attilio Momigliano nella sua Storia della letteratura italiana. Pur ammettendo in partenza che l'Aristodemo è «forse l'unica tragedia che, dopo quelle del Della Valle, abbia qualche merito poetico», gli attribuisce «un aspetto incerto tra la poesia ingegnosa e sensuale e l'atteggiamento severo e moralistico della tragedia del tempo». Giudizio che manca di giustificazione, e che ad ogni modo colpisce solo alcuni tratti non salienti del dramma. Si direbbe che il compianto critico, di solito così fine e penetrante, sia qui preoccupato soprattutto di problemi strutturali e cronologici, e si lasci sfuggire la poesia. Altrimenti come spiegarci la sua strana asserzione che «l'unico tratto commovente della tragedia è la storia di Arena», cioè un episodio, anzi un racconto del tutto secondario e marginale? E che indugi per giunta, con apposita nota, sulla «lambiccata situazione secentistica emergente alla fine»? In altre parole, è lecito pensare che proprio i problemi esterni delle fonti classiche, degli schemi tradizionali, senechiani e non senechiani, dell'intreccio romanzesco, pur non imponendosi alla sua trattazione, gli abbiano più o meno consciamente velato il finissimo gusto togliendogli la visione di tutto ciò che nell'Aristodemo supera il Seicento e prende e prenderà l'animo dei lettori spregiudicati. Non c'è dubbio che abbia visto bene il Croce, seguito - persino con qualche esagerazione - dal Sapegno e dal Flora: la poesia di questa tragedia si accentra nella persona di Merope, la fanciulla di alto sentire che alla vigilia delle nozze desiderate e sognate deve offrire la sua vita alla patria. Ella è la vera protagonista della tragedia, e non il padre Aristodemo, che arso dall'ambizione di regnare vuol farsi del sacrificio della figlia scala al potere e la truciderà lui stesso quando le pie menzogne della madre e dello sposo di Merope lo indurranno a crederla impura. Carattere torbido, torbidamente concepito ed espresso. Trasparente invece, e delicatamente reso, l'animo di Merope, sia davanti alla sorte che può, designandola vittima sacra, stroncarle l'esistenza (e invece designa Arena), sia nel conseguente suo risorgere alla vita con una profonda mutazione interiore: «Qualcosa di irreparabile è in lei accaduto;» scrive il Croce « non le è lecito più amare con abbandono, con fiducia, con ardore, le cose del mondo; e più non si sente pari, adeguata e armonica con lo stesso suo sposo, che ama sempre profondamente, ma come colei che può essere comandata da un istante all'altro a distaccarsi da lui, a lasciarlo solo e a voler che si rassegni a rinunziare a lei, e a continuare senza di lei il dovere della vita», È un raccolto, malinconico presentimento. Viene la condanna ed ella « deve vincere la sua interna battaglia contro la disperazione dello sposo, contro tutti gli affetti che vogliono ritenerla sulla terra, per raccogliere in sé la forza di entrare serena nella vigilia della morte, nel tremendo rito religioso che le è imposto dalla patria e che ella accetta, conformandovi il proprio animo, costringendo al silenzio ogni voce diversa, altrui e sua». E quando nell'istante supremo ella scoprirà nel carnefice il proprio genitore, solo un gemito le uscirà dal petto:
Con un gemito sol rispose all'empio
premer del padre; e i moribondi lumi
in lui rivolti, ed osservato quale
il sacerdote inaspettato fosse,
con la tenera man coprissi il volto
per non vederlo; e giacque.
«Con la tenera man»: è una carezza. Il poeta presta a Tisi, che narra la fine di Merope, la propria commozione. Merope non è nata dalla filosofia stoica, né dalla leggenda pausanica, né dalle pagine dei tragici greci, ma proprio dal cuore del poeta. Perciò vive e vivrà anche se pur gettando sprazzi della sua luce su altri personaggi (Anfia, Policare, la Nutrice) non riesce a dare alla tragedia quella unità per cui, ad esempio, è un capolavoro la Iudit di Federico Della Valle.
Il Lo Priore, nel suo saggio sull’Aristodemo, ha posto opportunamente in rilievo le ragioni grazie alle quali anche per il Dottori si può parlare di tragedia «politica», in quanto nella persona del truce epitide il poeta ha configurato una vittima della ragion di Stato.
F. proprio alla ragion di Stato, cioè alla politica, oltre che alla morale, chiesero ispirazione altri scrittori del secolo con alcuni drammi costituenti un genere al quale non furono poi estranei i tragici del Settecento, Alfieri compreso. Poiché lo spazio non consente di darne esempi nel nostro volume, mi limito a ricordare il Solimano di Prospero Bonarelli, e la Cleopatra di Giovanni Delfino, quest'ultima studiata e postillata proprio dall'Alfieri quando compose la sua Cleopatraccia.
*
Nel vasto campo della commedia, che, se non proprio inesplorato, appare insufficientemente percorso e studiato dagli storici del teatro, trascegliamo tre soli componimenti, fuori dalle secche della commedia classicheggiante o erudita che andò anfanando per quasi tutto il secolo dietro ai modelli cinquecenteschi, e lungi dai solchi grassi, ma torpidi, della commedia spagnoleggiante e della commedia «ridiculosa», la quale tentava innesti infecondi della commedia dell'arte sulla letteraria. Non si tratta, per continuare la nostra immagine, di querce poderose che abbiano sfidato e sfidino le bufere dei secoli, ma di alberi e alberelli leggiadri, al cui rezzo lo studioso ha l'impressione di trarsi fuori dall'afa del barocco letterario, respirando un'aria agreste, pura e vivificante. Si tratta, per uscir di metafora, di tre commedie che chiameremo risolutamente dialettali, benché la prima sia opera di un accademico della Crusca, e le altre due abbiano parti in lingua letteraria e parti in vernacolo. Sono: La Tancia di Michelangelo Buonarroti il Giovane, I consigli di Meneghino del Maggi e il Cont Piolet del Tana.
La Tancia,
Rappresentata con gran successo alla letteratissima corte medicea, la Tancia dovette allora piacere anche per i precedenti letterari a cui si riallaccia, sia nel territorio della favola pastorale (Aminta), sia in quello contiguo della poesia rusti- cale: Lorenzo de' Medici, Luigi Pulci, il Berni della Catrina e il teatro dei Rozzi. Ma che le sue radici non fossero semplicemente letterarie mostra il fatto che il successo fu duraturo: numerose le ristampe nei secoli successivi, ma non poche anche le rappresentazioni. Per la sua fragranza agreste, per la umanità dei personaggi, la semplicità dell'intreccio, la vis comica di alcune scene, la musicalità delle sue ottave, e degli intermedi, la Tancia, sia pure con qualche taglio sapiente, ha ripetutamente resistito anche in tempi recenti, in scene all'aperto, a Fiesole, a Boboli, davanti a un pubblico di gusti elevati.
In altre aure ci trasporta, alla fine del secolo, un altro accademico della Crusca, il Maggi. Questo geniale milanese, dottissimo di greco, di latino, di ebraico, giureconsulto insigne, vigile e benemerito difensore dei diritti del suo paese contro i soprusi della Spagna, trovò il tempo di volgersi anche al teatro, al quale dette in giovinezza melodrammi e componimenti tragici subito giustamente dimenticati. Ma negli ultimi anni della sua vita tornò alle scene con quattro commedie in dialetto lombardo, che ebbero meritata fortuna: Il manco male, Il barone di Burbanza, Il falso filosofo, I consigli di Meneghino. In questi componimenti siamo lontani dagli scopi linguistici del Buonarroti, anche se appaia evidente l'intenzione di elevare il dialetto a piena dignità letteraria. Non per nulla il buon accademico, nel secondo prologo dei Consigli di Meneghino, immagina che alla concessione di una corona d'alloro proposta in Parnaso per la sua musa Baltraminna si opponga «... certa gent che a nun pover Lombard - butta crusca in di oeugg».
Il Maggi amò ed ammirò da artista il dialetto appreso dalle labbra materne, e se ne fece un duttile e spesso armonioso e squisito strumento, ad esprimere il suo mondo interiore nelle numerose rime e nel suo teatro, onde è difficile negargli il vanto di iniziatore della letteratura vernacola milanese. Ma nelle commedie altre finalità lo sorressero felicemente. Egli sentiva sazietà e noia del teatro comico contemporaneo, sia del superstite teatro erudito, sia di quello spagnoleggiante che tuttora imperversava dilettando gli spettatori «coi meravigliosi nodi degli strani avvenimenti». A questo diletto - destinato a sparir subito perché sorgente dall'inverosimile - pareva al Maggi (cito da una sua lettera) doversi anteporre quello che « nasce dall'affetto e dal costume ben imitato». Pittura di affetti e di costumi sono infatti le sue quattro commedie, e, naturalmente, volte al bene:
art che no iutta al ben,
o che 'l mal no corresg,
l'è perdiment de temp, se no l'è pesg.
Così egli afferma, nel grazioso Concorso de' Meneghini (una scena, piuttosto che una commedia in un atto), con parole che - come ha giustamente osservato Ireneo Sanesi - «non sono un puro e semplice riecheggiamento teorico deH'«omne tulit punctum, qui miscuit utile dulci»,... ma hanno qualche cosa di più intimo, di più veramente sentito, di quasi direi, appassionatamente vissuto, e rivelano un convincimento profondo, e manifestano un operoso ed energico bisogno spirituale».
Delle quattro commedie noi abbiamo scelto per il nostro volume I consigli di Meneghino, che è generalmente considerata la migliore, e che è forse la più idonea a mostrare l'onestà, anche artistica, del commediografo. Sulla semplice trama della contrastata vocazione religiosa di un giovane, unico figlio di un ricco mercante, il Maggi dipinge con fresco pennello scene e figure del tardo Seicento milanese, con un tocco e con toni che direi tra portiani e manzoniani. Facile osservare che una innegabile parentela lega donna Quinzia alle celebri « damazze» del Porta, quali donna Fabia Fabron de' Fabrian e la marchesa Paola Travasa; ma è altrettanto giusto osservare che il piccolo mondo ritratto dal Maggi, con quei mercanti arricchiti desiderosi di parentele patrizie, con quei nobili decaduti ma pieni di albagie, quei cavalieri sempre pronti a inviare cartelli di sfida, salvo poi a svignarsela in qualche modo, e soprattutto con quei monasteri femminili pieni di pettegolezzi, di intrighi, di miseriole umane, ci fa pensare - perché no? - ai Promessi sposi. Ben inteso, il quadro di costumi offerto dal Maggi in questa e nelle altre sue commedie è visto con l'occhio del contemporaneo arguto e indulgente, non con l'occhio dello storico profondo e severo che allargherà la sua visione agli aspetti tragici di quel mondo; ma il richiamo è suggestivo e prova che a più di un secolo di distanza la linfa morale dal Maggi introdotta nel teatro comico era ancora viva e valida, e capace di alimentare le meditazioni e le ispirazioni di un grandissimo poeta. Ma al Maggi - come tutti sanno - non è stato accostato solo il nome di Alessandro Manzoni, bensì anche quello di Carlo Goldoni. E non a torto, perché dirlo precursore del Veneziano nelle commedie di carattere e di costume, è dir giusto. Basti qui richiamare l'attenzione del lettore su personaggi come donna Quinzia, già ricordata, Tarlesca, la serva delle monache (figurina vivacissima che già appare nel Barone di Burbanza) e, naturalmente, Meneghino. Si tratta di veri «caratteri», e non di tipi tradizionali; e occorre appena ricordare che il Meneghino del Maggi - qualunque sia la sua discussa origine prima - parve agli spettatori e ai lettori milanesi una figura così ben colta sul vivo, così umana e sincera, così felice nei suoi tratti di popolano buon senso, di fondamentale rettitudine e generosità d'animo, mal velata dal ridanciano spirito satirico, da meritar di divenire il rappresentante dello stesso popolo ambrosiano, prendendo un solido posto fra le maschere che il popolo nostro ancora sente, ama e applaude.
Ci resta da aggiungere che nelle commedie del Maggi gli endecasillabi e i settenari, liberamente alternati, suonano fluidi, armoniosi, semplici (di una semplicità sorvegliatissima), e danno a tutti i personaggi un linguaggio che prende anche il lettore moderno. Debole invece la parlata dei personaggi che, per varie ragioni, evitano il dialetto (Anselmo, per esempio); ma in compenso stupendi e originali i discorsi in cui i suoi personaggi più solenni contaminano il vernacolo e la lingua letteraria italiana nel rivolgersi, con spagnolesca boria e degnazione, a inferiori o giudicati tali; nel che lo seguiranno poi il Porta, il Belli, e gli scrittori vernacoli piemontesi.
Appunto a un piemontese facciamo posto, da ultimo, nella nostra raccolta: al marchese Carlo Giambattista Tana d'Entraque, gentiluomo addetto alla corte sabauda. Egli è l'autore di una gentile commedia in dialetto piemontese, il Cont Piolet, dimenticata da tutti gli storici del teatro italiano, ma non dagli spettatori e dai lettori. Composta, a quel che pare, nell'ultimo scorcio del Seicento (il Tana visse dal 1643 al 1713) forse per gli spassi di corte, e certo per quelli dell'aristocrazia, fu più volte rappresentata con successo anche da dilettanti di notevole cultura (per esempio, in Torino, dagli alunni del Collegio Universitario delle Provincie), ma rimase inedita, e affidata solo a copie manoscritte, fino al 1748, quando della genialità del lavoretto si accorse un letterato che si nascondeva sotto l'arcadico nome di Velandro Cleoneo A. di F., il quale riuscì a ritrovare il manoscritto originale, e a stamparlo a Torino in buona edizione. Naturalmente la fortuna teatrale della commedia ne fu ulteriormente agevolata, e le rappresentazioni continuarono nell'Ottocento, non sui grandi teatri, ma nei teatrini degli istituti di istruzione. Mi raccontava il compianto Carlo Calcaterra di aver assistito a una rappresentazione del Cont Piolet in seminario. Commedia rosea da dilettanti? Non precisamente, o se mai, nel senso in cui si dicono «da dilettanti» talune commedie del Goldoni. In realtà il Cont Piolet è un'opera d'arte che resisterebbe bene anche oggi sulla scena, se recitata da bravi attori di professione davanti a un pubblico preparato a capire le finezze del suo linguaggio vernacolo. Nulla di complicato, nulla di nuovo nel suo intreccio; ma, di nuovo, la grazia, spesso squisita, dei particolari, e soprattutto quella dei sentimenti, freschi, ingenui, avvolti come in una atmosfera di idillio agreste. Non la tenue vicenda ci afferra, ma il come la vivono i personaggi; in altre parole, come la trasfigura poeticamente l'autore. Ha visto bene il Croce, che è il solo critico moderno il quale si sia occupato del Tana: «la commedia nasce da un sorriso e effonde sorriso di consenso e di serena gioia alle immagini della sempre operosa e costante bontà, e di consenso e come di incoraggiamento a quelle dei naturali e innocenti palpiti giovanili di amore, e di benevola ironia alle altre dell'egoismo e delle tentate prepotenze che si distruggono da se stessi, e giungono, seguendo la logica di se stessi, al contrario delle prime intenzioni ed azioni, e, guidati dagli stessi motivi loro proprii, fanno omaggio nel fatto alla virtù con l'accettare la propria sconfitta, e, dimenticata ogni amarezza, col partecipare e cooperare alla comune gioia». E ancora: « Una sorta di candore regna in tutta la rappresentazione, senza che nessun particolare strida, senza nessuna accentuazione che sia troppo forte.» Un altro studioso aveva già mostrato di accorgersi dell'importanza del Cont Piolet almeno nella storia del teatro piemontese, ma con un giudizio piuttosto contradditorio, e comunque non giustificato criticamente: alludo a Delfino Orsi, e al suo libro (una tesi di laurea) intitolato II teatro in dialetto piemontese, che risale al 1890. Nelle sue pagine però trovo un rilievo che merita di essere qui riportato: l'avere notato che questa commedia dovette essere in origine accompagnata dalla musica, o, almeno nelle intenzioni del Tana, scritta per essere accompagnata dalla musica. Non è difficile aggiungere argomenti a quelli indicati in proposito dall'Orsi: oltre alle ariette, disposte come nei melodrammi giocosi, ci sono veri «duetti» indicati come tali (cfr. atto III, scena II, e scena VIII), e possibili «concertati» (come nella baruffa che chiude l'atto II, e nel coro finale dell'atto III).
Ma della musica nessuna traccia; se mai fu scritta, dovette perdersi assai presto. L'editore della commedia, il diligente accademico Velandro Cleoneo, che pur fece ricerche dopo cento anni dalla nascita del lavoro fra le carte della famiglia Tana, la ignora in pieno. Evidentemente la commedia camminò subito con le sole sue gambe; altrimenti il ricordo della musica avrebbe accompagnato quello delle prime rappresentazioni. Per sopravvivere e giungere fino a noi bastò alla leggiadra composizione la musica dei suoi versi brevi, che riescono per virtù propria a spezzare e ad ammorbidire l'originaria durezza del vernacolo: si vedano soprattutto le parole che fioriscono sulla bocca di quella commovente figura di ingenua innamorata che è Rosetta.
E non è senza significato che il nostro quadro del teatro del Seicento, iniziato con la dolce melopea del Rinuccini, si chiuda con le dolci note elegiache e pastorali di Carlo Tana.
Antonio Belloni, II Seicento,2 Milano, Vallardi, s. a. (1929), cap. V, pp. 344-444; Emilio Bertana, La tragedia, Milano, Vallardi, 1905, pp. 110 sgg.; Ireneo Sanesi, La commedia,2 Milano, Vallardi, s. a. (1954), i e II; Enrico Carrara, La poesia pastorale, Milano, Vallardi, 1908; Silvio D'Amico, Storia del Teatro drammatico, Milano, Rizzoli, 1939, 11; Mario Apollonio, Storia del Teatro italiano, Firenze, Sansoni, 1946, iii; A. Lisoni, Gli imitatori del teatro spagnuolo in Italia, Parma 1895; a. Lisoni, La drammatica italiana del secolo XVII, Parma 1898; L. Rasi, I comici italiani, Firenze 1905; B. Croce, Storia dell'età barocca in Italia, Bari, Laterza, 1929.
Sui teatri del Seicento:
L. N. Galvani, I teatri musicali di Venezia nel secolo XVII, Venezia 1879; C. Rìcci, I teatri a Bologna nei secoli XVII e XVIII, Bologna 1888; A. Ademollo, I teatri di Roma nel secolo XVII, Roma 1892; A. Paglicci-Brozzi, Il teatro di Milano nel secolo XVII, Milano [1892]; B. Brunelli, I teatri a Padova dalle origini alla fine del Secolo XIX, Padova 1921; B. Croce, I teatri di Napoli dal Rinascimento alla fine del secolo XVIII, Bari, Laterza, t9263; B. Croce, Cultura spagnuola in Italia nel Seicento (nel volume Uomini e idee della vecchia Italia, Bari, Laterza, 1927).
Per le bibliografie sugli autori raccolti nel presente volume si vedano, a loro luogo, le introduzioni premesse a ciascuno di essi.
1 [L'edizione critica integrale delle opere del Della Valle è uscita ora, a cura di Pietro Cazzani (Milano, Mondadori, 1955).]