teatro e lingua
La lingua del testo teatrale è un tipo di ➔ lingua scritta in cui gioca un ruolo primario la dimensione dell’oralità: il testo si realizza infatti nel divenire di un evento, lo spettacolo teatrale, caratterizzato dalla compresenza di due elementi necessari, il pubblico e la scena.
La presenza del pubblico è l’elemento che differenzia quello teatrale rispetto agli altri generi letterari, per l’influenza, tacita o esplicita, che lo spettatore esercita sulla realizzazione ultima del testo: infatti, le modalità espressive che caratterizzano il tessuto dialogico del dramma sono destinate a esercitare una precisa funzione emotiva sullo spettatore, che può rispondere allo stimolo proveniente dalla scena secondo modalità codificate (l’applauso, il fischio) o anche improvvisate. Sulla scena lo spettacolo si realizza mediante una molteplicità di mezzi espressivi, destinati a una fruizione plurisensoriale: la parola, il suono, la mimica facciale, il gesto, l’immagine complessiva, le interazioni e i movimenti degli attori. L’insieme di queste componenti sceniche e delle loro interrelazioni costituisce un sistema di notevole complessità; le ricerche sulla lingua teatrale hanno dimostrato che gli elementi extraverbali che accompagnano l’enunciato, come la mimica, il gesto, i movimenti del corpo, trovano un corrispettivo a livello verbale nell’uso delle interiezioni (➔ interiezione), dei dimostrativi (➔ dimostrativi, aggettivi e pronomi), dei ➔ deittici e in generale di tutti i tratti del parlato (➔ lingua parlata) che attualizzano l’enunciato collocandolo nello spazio e nel tempo. I dialoghi scritti e le didascalie contengono già alcuni di questi elementi, altri vengono introdotti mediante la recitazione dell’attore.
Per la particolare natura della lingua teatrale, tra scrittura e oralità, il testo drammaturgico è stato definito come «scritto per essere detto come se non fosse scritto» (Lavinio 1990: 33) o come «scritto per l’esecuzione orale nella finzione scenica» (Trifone 2000: 17). Nencioni ha invece collocato la lingua teatrale nella categoria del parlato, introducendo però preliminarmente la distinzione tra parlato spontaneo (o «parlato-parlato») e parlato programmato, come quello dei dialoghi nei testi narrativi (il «parlato-scritto»); la lingua teatrale rientra in quest’ultima categoria, ma ne è una ulteriore specificazione a causa della sua funzionalizzazione scenica: è il «parlato-recitato» (Nencioni 1983a: 126-179).
Fino dalle sue origini nelle rappresentazioni medievali, la commedia si è connotata sia per il suo rivolgersi a un pubblico potenzialmente ampio e composito, sia per il fatto di ispirarsi a tematiche variamente legate alla realtà contemporanea; la ricerca di mezzi espressivi verbali dotati di ampia diffusione e comprensibilità ne hanno fatto perciò il terreno privilegiato per l’accostamento e la mescidanza di differenti gerghi e linguaggi, fino al plurilinguismo tipico della commedia rinascimentale (➔ mistilinguismo). La tragedia invece, destinata a pubblici ristretti e di livello culturale elevato, si è distinta dalla commedia per i contenuti storici o mitologici e per l’uso costante dell’italiano letterario in versi della tradizione poetica volgare di ➔ Dante e di ➔ Francesco Petrarca.
Rappresentata alla corte degli Estensi nel 1508, la Cassaria di ➔ Ludovico Ariosto è generalmente considerata come l’inizio del teatro moderno italiano. La sua originalità rispet-to ai volgarizzamenti tardo-quattrocenteschi dei testi classici (➔ volgarizzamenti, lingua dei) si manifestò sul piano linguistico sia nel recupero di aspetti della comicità letteraria, sia soprattutto nell’adozione di un ➔ endecasillabo sdrucciolo, che realizzava «uno strumento espressivo intermedio fra il verso epico-lirico della tradizione italiana e “la prosa” del parlato quotidiano» (Bertinetto 1976: 352). La definitiva transizione alla prosa avvenne alcuni anni più tardi (1513) con la messa in scena della Calandria di Bernardo Dovizi (il Bibbiena), nel cui prologo si affermava esplicitamente la necessità per questo nuovo genere drammatico di accostarsi al parlato spontaneo, al fine di stabilire un efficace rapporto comunicativo con un pubblico ampio e stratificato. In quest’opera l’autore riuscì ad armonizzare forme di ascendenza letteraria con il linguaggio fiorentino a lui contemporaneo, non senza elementi del repertorio popolare e dialettale. L’adozione di un’ampia gamma di varietà linguistiche diventò il tratto caratterizzante la lingua della grande commedia rinascimentale: dalla Mandragola di ➔ Niccolò Machiavelli (1518), nella quale frasi idiomatiche e costrutti vernacolari servivano anche a connotare socialmente e psicologicamente i personaggi, alla geniale contraffazione e ibridazione linguistica della Cortigiana di Pietro Aretino (pubblicata nel 1534), al dissacrante caleidoscopio dei linguaggi nel Candelaio di Giordano Bruno (1582).
A questa linea, che potremmo denominare plurilinguismo colloquiale, se ne affiancò un’altra in cui l’area geografica dalla quale venivano tratte le diverse varietà era più ristretta e il linguaggio tendeva a identificarsi con le varianti del dialetto di quell’area. Era la linea che faceva capo all’astigiano Gian Giorgio Alione e che proseguiva nella produzione rusticale dei Rozzi senesi e nelle farse cavaiole del salernitano Vincenzo Braca. Il più importante esponente di questa linea dialettale fu il padovano Angelo Beolco (Ruzzante; ➔ latino macaronico), che, nelle opere centrali della sua produzione, recuperò forme e linguaggi del teatro popolare, opponendo la «snaturalité» dialettale pavana al «fiorentinesco» dei letterati.
Tra il XVI e il XVIII secolo si formò in Italia, ma si diffuse rapidamente anche in Francia, quell’organizzazione di attori professionisti che prese il nome di commedia dell’arte, nella quale, se da un lato si cristallizzavano le componenti dialettali che s’identificavano con caratteri fissi (le maschere), dall’altro si determinava una cruciale apertura nei confronti del parlato spontaneo grazie alla recitazione all’improvviso, affidata agli attori e basata soltanto su un preesistente canovaccio.
➔ Carlo Goldoni, pur rifiutandone le schematizzazioni, i convenzionalismi, gli stereotipi recitativi, colse il valore innovativo insito nell’oralità della commedia dell’arte, rielaborandola nei suoi testi: «Dalla percezione acuta dei valori impliciti nell’improvvisazione linguistica nasce la volontà manifesta di sottrarre questi elementi alla loro contingenza, rendendoli formalmente espliciti» (Folena 1983: 138-139). Nel sincretismo linguistico goldoniano, volto a soddisfare esigenze realistiche e comunicative, lingua e dialetto non si opponevano ma tendevano a incontrarsi, dando luogo a molteplici modulazioni stilistiche, in quella coralità colloquiale concertata che divenne l’affresco linguistico della società veneziana dei suoi anni.
Nel corso del Cinquecento (➔ Umanesimo e Rinascimento, lingua dell’) la tragedia, sia quella composta sul modello greco, come la Sofonisba (1514-1515) di ➔ Gian Giorgio Trissino, sia quella composta sul modello latino, come l’Orbecche (1541) di Giambattista Giraldi Cinzio, restaurò il canone tragico attribuito ad Aristotele e, a livello espressivo, fece propri stilemi poetici danteschi e petrarcheschi che sarebbero poi rimasti costantemente alla base del linguaggio tragico (Sorella 1993: 751). Soltanto tra Settecento e Ottocento la forte personalità di ➔ Vittorio Alfieri ne offrì una rielaborazione innovativa: nella ferma intenzione di distaccarsi dalla cantabilità degli endecasillabi di cui era composta la più fortunata tragedia del Settecento, la Merope (1713) di Scipione Maffei, Alfieri sostenne che la lingua del dialogo tragico dovesse avere «la nobiltà e la grandiloquenza dell’epica senza averne il canto continuato» (Sorella 1993, p. 779), non cessando tuttavia di sostanziare la scabra sintassi dei suoi versi con la lingua della tradizione poetica ‘alta’ di Dante e Petrarca.
Nel corso della prima metà dell’Ottocento (➔ Ottocento, lingua dell’), analogamente a quanto avvenne per la commedia, la tragedia ripercorse le orme dei grandi predecessori, in particolare Vittorio Alfieri, con la sola importante eccezione delle tragedie di Alessandro Manzoni; nel seguito del secolo, tuttavia, si assisté «a un lento declino della tragedia di tipo ‘classico’» (Serianni 1989: 18), nonostante il favore del pubblico.
La commedia, caratterizzata da una sostanziale continuità rispetto al modello goldoniano, appariva combattuta tra la necessità di acquisire stilemi dell’uso vivo, per riprodurre realisticamente aspetti della realtà contemporanea, e scrupoli puristici che frenavano l’impulso al rinnovamento. Ancora nella seconda metà dell’Ottocento l’istanza realistica delle nuove correnti letterarie si scontrava con il problema di una lingua italiana per tradizione scritta e non parlata, letteraria e non dell’uso, posseduta dai ceti colti ma, certamente, non patrimonio comune del nuovo Stato unitario.
Agli esordi del secolo, la lezione del teatro goldoniano era ancora viva nei testi di Giovanni Giraud, in quelli di Alberto Nota e soprattutto in Paolo Ferrari che, nella sua commedia Goldoni e le sue sedici commedie nuove (1852), ottenne effetti stilistici di gran naturalezza, proprio mediante il gioco teatrale del recupero goldoniano. Nella seconda metà del secolo, nel quadro dell’unificazione politica in corso, il teatro di prosa riscosse il successo di ampi pubblici anche grazie all’emergere del fenomeno dei grandi attori (Eleonora Duse, Ermete Zacconi e altri) che si esibivano nelle compagnie di giro, nelle loro tournée in Italia e all’estero; fu il periodo della commedia borghese (Trifone 2000: 86-90), largamente debitrice nei confronti dei modelli transalpini, in particolare quello della commedia francese larmoyante. Quanto alla lingua, dominava «un sostanziale eclettismo» (Serianni 1990: 157), entro il quale era presente una linea che insisteva nell’adozione dell’italiano letterario, come nel caso della Morte civile (1861) di Paolo Giacometti, e una linea che si avviava all’acquisizione di modalità dialogiche moderne, in armonia con i propri intenti di realismo borghese. A quest’ultima corrente appartennero autori come Achille Torelli, che nella commedia I mariti (1867) fece ricorso a un uso disinvolto di meridionalismi accostati a fiorentinismi e francesismi, in una mescolanza linguistica adeguata a restituire il tono della conversazione da salotto; Giuseppe Giacosa, autore insieme a Giacomo Illica di alcuni libretti d’opera pucciniani, che nelle sue opere, tra le quali Tristi amori (1887) e Come le foglie (1900), ricorse all’adozione di stilemi del parlato quotidiano; Marco Praga, che dimostrò nei suoi drammi, tra i quali La moglie ideale (1890), una sottile attenzione verso l’attualità e le mode linguistiche, intese come segno di nuovi intendimenti e comportamenti che volgevano verso la modernità.
Tuttavia, il persistente gradimento nei confronti del teatro in dialetto da parte dei pubblici regionali si legò in questa fase alle difficoltà espressive incontrate dagli autori nel misurarsi con un italiano medio colloquiale ancora poco diffuso. Ebbero buon successo perciò autori dialettali come il piemontese Vittorio Bersezio, il milanese Carlo Bertolazzi, il catanese Luigi Capuana e soprattutto il veneziano Giacinto Gallina, che, con la Famegia del santolo (1892), riuscì a modulare il goldonismo e il dialetto delle sue prime commedie in un più moderno realismo psicologico espresso in una varietà linguistica regionale più vicina all’italiano.
L’esigenza di «una lingua duttilmente impura» (Trifone 2000: 90) che potesse coerentemente esprimere le nuove esigenze del verismo narrativo guidò ➔ Giovanni Verga nella composizione dei suoi romanzi e delle sue novelle. Se negli assunti fondamentali il Verga drammaturgo rimase sostanzialmente fedele al Verga narratore (Barsotti 1974), la trasposizione in dramma di alcune novelle, come Cavalleria rusticana (1884) o La lupa (1896), portò lo scrittore a tradurre nella forma del dialogo scenico il ➔ discorso indiretto libero tipico del suo stile narrativo. Questo processo non aumentò il tasso dei ➔ regionalismi ma incrementò la presenza dei fenomeni tipici del parlato, dando luogo a un ➔ italiano regionale comprensibile da un pubblico nazionale, senza che per questo il suo sostrato dialettale venisse artificiosamente censurato.
Le vicende della lingua teatrale, tra italiano e dialetto, che hanno caratterizzato il secolo scorso (Stefanelli 2006) si sono manifestate con particolare evidenza nelle esperienze drammaturgiche e linguistiche di tre eminenti figure delle scene italiane e internazionali: ➔ Luigi Pirandello, Eduardo De Filippo e Dario Fo.
Allievo di Ernesto Monaci e laureato a Bonn con una tesi sul dialetto di Girgenti, Luigi Pirandello «si è assicurato un posto significativo nella storia della formazione della nostra lingua nazionale» (Altieri Biagi 1980: 162) per aver saputo modellare un efficace parlato teatrale sulle strutture tradizionali dell’italiano. Tuttavia, più che dalla ripresa di tratti sintattici e lessicali del parlato spontaneo, la lingua dei drammi di Pirandello è marcata dalla sapiente orchestrazione dei tratti prosodici e fonetici dell’oralità (Serianni 1990: 63): è una lingua, la sua, che non nasce da un intento mimetico della realtà, ma dalla resa fonica di quelle che lo scrittore chiamava «mosse d’anima». In questa prospettiva, appaiono fondamentali nei suoi testi l’uso della punteggiatura come strumento di articolazione melodica e ritmica, la sintassi dialogica ma, soprattutto, la frequenza di elementi ad alto valore intonazionale come il ➔ vocativo e, in particolare, l’interiezione, «più legata al contenuto che alla forma, alla parola che alla sintassi» (Nencioni 1983b: 246).
Una delle grandi intuizioni innovative di Pirandello stette nel sintetizzare nella propria persona la figura del drammaturgo e quella dell’uomo di teatro che partecipa attivamente alla crescita e alla parziale trasformazione del testo scritto nel testo rappresentato. La sua lezione trovò un seguito e un’originale interpretazione nell’attività di Eduardo De Filippo. L’attività di Eduardo come autore, attore e regista dei propri drammi segnò il definitivo superamento della tradizionale bipolarità lingua-dialetto nel teatro italiano: «l’opzione per il dialetto da parte di Eduardo De Filippo sembra lontana da qualsiasi intento di espressiva contrapposizione all’italiano, ma si realizza con modalità che ripropongono nel testo una gamma di varietà contigue che si riscontrano anche nella realtà» (De Blasi 2006: 106). Il napoletano di Eduardo, che si muove tra varietà dialettali e un italiano regionale di ampia comprensibilità, è diventato a buon diritto lingua della commedia e, insieme, riferimento necessario per le successive generazioni di drammaturghi di area campana, come Annibale Ruccello, Manlio Santanelli, Enzo Moscato.
Nella seconda metà del Novecento, per l’influenza dei mezzi di comunicazione di massa, l’innalzamento dell’età dell’obbligo scolastico e le migrazioni interne, il possesso dell’italiano dell’uso medio si estese fino a raggiungere la maggior parte della popolazione. Questa nuova padronanza linguistica diffusa, assieme all’impatto esercitato su un ampio pubblico dal cinema del Neorealismo, introdusse nel teatro un’ampia gamma di varietà e registri e consentì agli autori di orchestrare con sicurezza la molteplicità dei linguaggi esistenti. Oltre all’➔italiano standard e al dialetto, anche gli italiani regionali, già largamente impiegati nella comicità di parola da Ettore Petrolini, Achille Campanile, Franca Valeri e altri (D’Achille 2009), trovarono piena affermazione sulle scene teatrali (D’Achille 2006): per la varietà milanese valgono come esempi significativi Dino Buzzati con Un caso clinico (1953), ma soprattutto Giovanni Testori con L’Arialda (1960) e La Maria Brasca (1960); per la varietà romana va ricordato Diego Fabbri con La bugiarda (1956); per quella napoletana, Giuseppe Patroni Griffi con In memoria di una signora amica (1963) e Persone naturali e strafottenti (1973); per quella siciliana, Vitaliano Brancati con La governante (1952).
Nel corso degli stessi anni, si impose la personalità di Dario Fo, che portò alle estreme conseguenze di un camaleontismo scenico foriero di una sorta di babele plurilinguistica quella scrittura d’attore già sperimentata da Pirandello e sviluppata da Eduardo (Trifone 2000). Fino dalle prime commedie (Gli arcangeli non giocano a flipper, 1959), Fo seppe adattare alle scene l’italiano regionale lombardo innestandovi la parodia dei gerghi della società contemporanea, come il ➔ burocratese o il politichese (➔ politica, linguaggio della). Ma già nella commedia La colpa è sempre del diavolo (1965), ambientata tra il XIII e il XIV secolo, faceva la sua comparsa un personaggio (Brancalone, cioè il diavolo) che parlava un dialetto veneto arcaico d’invenzione. L’ambientazione medievale della commedia giustificava in questo dramma quel ritorno alle origini, anche linguistiche, portato poi a compimento in Mistero buffo (1969) mediante l’uso creativo di una lingua mescidata che contaminava diversi dialetti lombardo-veneto-friulani con la memoria della lingua dei giullari medievali. Proprio in una parte di questo dramma, intitolata La fame dello Zanni, Fo oltrepassava la mescidanza dialettale per introdurre quella lingua asemantica eppure fortemente comunicativa che è il ➔ grammelot.
Negli ultimi decenni del XX secolo si affermarono scritture teatrali caratterizzate dall’impiego delle diverse varietà diatopiche e diafasiche dell’italiano (➔ variazione diatopica; ➔ variazione diafasica), che contraggono tra loro in alcuni casi un rapporto di alternanza, in altri di mescidanza.
La «forte volontà di riconquista di una parola degradata, ridotta dal repertorio vernacolare fiorentino a una pura ipotesi di comicità» (Calamai 2004: 19) impronta la produzione del toscano Ugo Chiti. La lingua delle sue commedie più celebri – che compongono i cicli La terra e la memoria (1987-1994) e La recita del popolo fantastico (1996-2003) –, quella cosiddetta lingua chiantigiana creata in scena insieme agli attori dell’Arca Azzurra Teatro, non è altro che l’espressione sanguigna di una realtà regionale legata alla campagna e alla terra nella quale si mescolano i registri delle formulazioni magico-scaramantiche, dell’imprecazione, dell’essenzialità contadina. Una scelta consapevolmente antiletteraria caratterizza anche la lingua di Antonio Tarantino: fino dai suoi primi drammi, come Stabat Mater e Passione secondo Giovanni (1993), il drammaturgo opta «per un parlato programmaticamente “basso”, impastato – in interferenza con un italiano sporco, diruto – di dialetti diversi […] in funzione non mimetica e antirealistica» (De Angeli 1997: 10).
Nella sua vastissima produzione drammaturgica, Giuseppe Manfridi sperimenta sulle scene un’ampia tastiera di varietà e registri: dalla scrittura in versi agli stereotipi della conversazione quotidiana; dal romanesco infarcito di slang giovanile in La partitella (1995) (Giovanardi 2006: 111-112) al napoletano antiquato di Antonio Ranieri in Giacomo, il prepotente (2002); pur nella difficoltà di individuare direttrici linguistiche fondamentali, si può affermare che nella sua opera
vi è una linea “alta”, in cui molto spesso la rarefazione del linguaggio è pari all’inusualità del tema e della trama; e vi è una linea “bassa”, da commedia (se non addirittura da pochade), spesso intrisa di dialetto e affidata a personaggi tutt’altro che illustri, magari semplici ragazzotti o tifosi da stadio (Giovanardi 2009: 154)
Un fenomeno non insolito nel teatro italiano, ma in graduale ascesa nel corso degli ultimi anni, è rappresentato dalla presenza in scena di un unico attore (detto anche «performer monologante»: Puppa 2003: 200-209), che in genere è anche l’autore del testo: è il cosiddetto teatro di narrazione, linguisticamente orientato all’accoglimento pieno dei diversi italiani regionali, sempre fortemente marcati dai tratti del parlato spontaneo. Il suo rappresentante più noto è Marco Paolini che nei suoi spettacoli usa un italiano regionale veneto di ampia comprensibilità. Per la realizzazione di questa tipologia di testo teatrale è stata fondamentale la lezione di Dario Fo: infatti, a causa della mancanza del tradizionale tessuto dialogico, ma anche per l’ampio margine lasciato consapevolmente all’improvvisazione scenica, sono soprattutto le doti prosodiche, mimiche e gestuali dell’attore a conferire piena plausibilità alla lingua dei monologhi. L’adozione di un italiano regionale parlato, spesso sensibilmente declinante verso il dialetto, caratterizza la lingua di giovani e affermati esponenti del teatro di narrazione, come il romano Ascanio Celestini, il milanese Giulio Cavalli, il leccese Mario Perrotta e il palermitano Davide Enia.
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