Teatro e società
In una sintesi ancor oggi autorevole (v. Dumur, 1965) A. Schaeffner proponeva agli esperti del fatto teatrale una serie di sinonimi - etnodramma, mitodramma, sociodramma primitivo - per connotare plausibilmente, sul piano scientifico, le forme di preteatro che gli studiosi delle prime società umane avevano ravvisato in documenti di inoppugnabile veridicità.Alcune delle prime società umane, le cosiddette società del Paleolitico, hanno infatti lasciato tracce inoppugnabili, in pitture e incisioni rupestri, di figurazioni ambigue (uomini-cervo, uomini-bisonte), il cui zoomorfismo è da ricondursi, per consenso ormai comune, a mimodrammi o pantomime sacrali. Il loro scopo era quello di conciliare gli individui con alcune potenze sovrannaturali ritenute 'difficili': la messa a morte di un animale, con l'intenzione di evitare che lo spirito della vittima futura si rivolgesse contro il cacciatore, non si esauriva in un semplice rito propiziatorio, ma nell'assunzione di un particolare costume-maschera, nell'autorappresentazione di un determinato ruolo attraverso la pittura corporale, l'espressività, gestuale e mimica, la scansione di formule sacrali su un passo ritmato e con l'accompagnamento di un'essenziale partitura musicale (v. Lorelle, 1974). Il passaggio dalle società della caccia a quelle a economia agricola non ha attenuato il fenomeno, ne ha semmai dispiegato (e dunque chiarito) tutta la potenzialità teatrale. Le tecniche del corpo, ma anche quelle estatiche (come quelle della trance e della possessione; lo ha dimostrato M. Leiris - v., 1958 - in un celebre studio) si sono via via arricchite per riattualizzare situazioni mitiche secondo un canovaccio di stretta 'contemporaneità'.
Se ci siamo spinti così a ritroso nel tempo, lo abbiamo fatto per sottolineare l'alto quoziente di socialità che il teatro ha da sempre posseduto, sin dalle prime manifestazioni dell'umano. Né il fatto che il teatro sia da quegli antichi tempi legato al rito e alle sue forme ne snatura la fisionomia. J. Frazer ha sin dai primi del secolo sostenuto che, nel Medioriente antico, il motivo del Dio che muore e i riti che a tale morte venivano associati fossero - al tempo stesso - potentemente religiosi e squisitamente teatrali (v. Frazer, 1907-1915²). Ma anche W. Ridgeway, che nel suo studio, anch'esso d'inizio secolo, sulle forme teatrali e coreutiche presso i non europei non accetta l'ipotesi di Frazer, sostenendo che l'origine del teatro risiede nei riti funerari e che l'attore vi svolge una funzione di medium, non nega, anzi riafferma il nesso rito-teatro, e per questa via, ancora una volta, ne evidenzia all'estremo l'insopprimibile valenza sociale (v. Ridgeway, 1915). Anche E.T. Kirby ha ribadito questa valenza in una sua polemica sintesi d'una ventina d'anni or sono, nella quale propugnava vigorosamente lo stringersi del primo nesso rito-teatro nella trance sciamanica (qui per lui nasce l'"Ur-teatro" o "prototeatro"), e delineava poi il dipanarsi di quel nesso in tutta una serie di passaggi graduali, in cui l'iniziale cerimonia di guarigione e il semplice rapporto paziente-sciamano si trasformano in 'teatro puro', in forme di spettacolo "il cui elemento funzionale è scomparso" (v. Kirby, 1975). R.N. Hamayon, che ha scritto il libro più ricco, a tutt'oggi, sullo sciamanesimo (v. Hamayon, 1989), senza dimenticare che "lo sciamanesimo è una forma elementare di religione, fondata sull'idea di un contatto diretto con gli esseri sopranaturali, nella quale lo sciamano, agente di quegli esseri, esprime corporalmente questo contatto", ha a più riprese sottolineato la teatralità di tale espressione (i balzi, la gesticolazione, le grida, gli ancheggiamenti, i salterelli, lo scalpitare, le scosse del capo all'indietro, sino alla graduale perdita di coscienza, alla trance quasi mortale) e, al tempo stesso, il forte investimento sociale della collettività, che nell'azione sciamanica ha addirittura una parte attiva: "Essa aiuta dapprima a sistemare lo spazio rituale, partecipa alle fumigazioni e alle altre purificazioni preliminari, sostiene lo sciamano nel suo 'viaggio' e nelle sue negoziazioni" con le potenze superne (cfr. Hamayon, Chamanisme et théâtre, in Corvin, 1991, p. 161). Non diversamente, se trascorriamo dalle steppe della Siberia tungusa a Santo Domingo o a Haiti, rimarremo colpiti dall'intensità fortemente socializzante e dal carattere risolutamente teatrale della ritualità vodu. C. Planson, lo studioso che ha maggiormente approfondito le ricerche magistralmente avviate da A. Métraux (v., 1968; v. Planson, 1987), ha scritto addirittura: "L'aspetto teatrale di queste cerimonie colpisce talmente che molti osservatori occidentali si sono sbagliati, credendo d'essere l'oggetto di una 'commedia' che veniva allestita per loro" (cfr. Planson, Vaudou, in Corvin, 1991, p. 859). Agiscono nel rito vodu un sacerdote-regista (hungan) o una sacerdotessa (mambo), degli attori-cantanti-danzatori, un'orchestra di tamburi, uno scenografo che traccia disegni simbolici con farina di mais, un coreografo, un direttore del coro donna (hungenikon). Quanto al pubblico, disposto nei pressi del tempio (humfo) sui tre lati del perystile, un hangar coperto da una tettoia di stoppia o di latta, non è fatto solo di iniziati (hunsi): anzi, è per lo più costituito da spettatori-membri della collettività, che vi assistono in quanto si sentono impegnati in una precisa responsabilità sociale. "La cerimonia - osserva Planson - può durare molto a lungo, in genere l'intera notte, talvolta anche più: ed è interessante osservare che lo spettatore non sembra rammaricarsene, al contrario. Non essendo prigioniero di un posto, si sente interamente libero. D'altra parte, il vodu implica la partecipazione costante del pubblico. In questo senso, esso è all'opposto della concezione brechtiana della 'distanziazione' e s'apparenta semmai a quel 'teatro della crudeltà' vagheggiato da Antonin Artaud" (ibid., p. 860).
Il nesso tra ritualità religiosa, teatralità e reattività sociale si fa stringente e assume una rilevanza e una pregnanza di significato irripetibile nella Grecia antica, e in particolare nell'Atene dell'età di Pericle.Com'è noto, le rappresentazioni teatrali, e quelle tragiche specificamente, si svolgevano all'interno di una delle più importanti feste religiose ateniesi, le dionisie cittadine, ἀϚτιϰά, secondo Tucidide, o grandi, μεγάλα, secondo Aristotele, dal decimo al tredicesimo giorno del mese attico di elafebolione (marzo-aprile), quando la primavera sta per riprendere e, dopo l'inverno, si riaprono i commerci marittimi. Lo Stato era estremamente attento a tali imponenti rituali, sino ad affidarne il controllo al cosiddetto arconte eponimo. Nel corso della ἐξαγωγή (la processione) la statua del dio Dioniso veniva trasferita dal recinto del suo santuario eleutereo (edificato intorno alla metà del VI secolo a.C.) nel teatro, costruito (in epoca difficile da determinarsi) all'interno dello stesso recinto e capace di ospitare da 14.000 a 17.000 persone, e lì veniva esposta su un altare al centro dell'orchestra; il giorno appresso faceva seguito la πομπή, cioè tutta la sequenza dei diversi atti di culto, cui l'intera collettività partecipava con spontaneo fervore. Alla fine della giornata si svolgeva nell'odeon di Pericle il proagon, durante il quale i poeti tragici si proponevano come partecipanti dell'ἀγών, o concorso tragico. Nel V secolo a.C. essi erano tre, e ciascuno doveva presentare al pubblico una tetralogia formata da tre tragedie e un dramma satiresco (tutt'e quattro opere originali, almeno sino al 386 a.C., quando si presero a replicare le opere più famose dei grandi tragici del secolo precedente). I tre giorni delle grandi dionisie, o dionisie cittadine, erano occupati per l'appunto dall'esecuzione delle dodici opere. Al termine, una giuria di dieci persone (a nome delle dieci tribù del demo ateniese) assegnava la corona d'edera al vincitore.
Se ci siamo addentrati nel dettaglio di queste immense manifestazioni annuali, è per sottolineare, ancora una volta, l'intertestualità di cerimonia religiosa e spettacolo teatrale. Ma altrettanto ci preme porre in evidenza il ruolo delle istituzioni statali all'interno di una simile imponente struttura rituale-scenica. Lo Stato, s'è detto, demandava all'arconte il controllo delle grandiose feste annuali. Era lo Stato che sceglieva il corego, un cittadino di classe alta e di ceto particolarmente abbiente, che in forma di liturgia, cioè di una singola prestazione finanziaria obbligatoria, doveva sostenere le spese assai onerose per il compenso del coro, un complesso attorale-coreutico-musicale formato da dodici a quindici persone. Lo Stato, a sua volta, pagava invece gli attori, nel numero più limitato di tre (v. Ghiron-Bistagne, 1976). Tutta particolare era la partecipazione del pubblico allo spettacolo. Ingente per numero, formato da individui della più disparata estrazione sociale e dunque della più diversa cultura (accanto ai σοϕοί e ai δεξιοί, cioè agli intellettuali e agli intenditori, si schieravano i ϕοϱτιϰοί, cioè i grossolani, né mancava, grazie alla ripresa della navigazione, una bella messe di stranieri), il pubblico reagiva con un trasporto che solo in alcune epoche successive sarà dato ritrovare. "Come avessero affittato le orecchie, corrono in giro per le dionisie ad ascoltare tutti i cori, senza mancare né alle cittadine né alle rurali": è il Platone della Repubblica a precisarlo. In un frammento di Eraclide Pontico leggiamo che Eschilo scatenò l'ira del pubblico, tanto da doversi rifugiare presso l'altare, per essersi lasciato andare a qualche rivelazione sui sacri misteri. Il Plutarco del trattato Sull'amore testimonia che Euripide, con una battuta d'apertura della Melanippide sapiente ("Zeus, chiunque sia, lo conosco solo di fama"), suscitò lo sdegno del pubblico a tal punto da dover riscrivere integralmente la battuta stessa. Diogene Laerzio, nelle Vite dei filosofi, racconta che Socrate abbandonò il teatro protestando contro un altro verso dell'Elettra euripidea: "Meglio lasciare le cose come sono, in balia del Destino". Ma la testimonianza più toccante, che ha una sua risonanza propriamente etica, è quella del Plutarco della Vita di Nicia, nelle Vite parallele: alcuni ateniesi, prigionieri dei Siracusani dopo la sconfitta del 413, si salvarono recitando a memoria versi di Euripide, amatissimo allora in Sicilia (v. Albini, 1991).
Questa adesione del pubblico greco al suo teatro, meglio e più che al teatro dei suoi, non è senza un preciso riscontro nella vita civile e financo politica dello Stato greco. Come ha chiarito Vincenzo Di Benedetto in una sua recente sintesi, lo spettacolo tragico aveva una "funzione socialmente stabilizzante". Intanto, per la coesione, ed entro certi limiti, per l'intimità che veniva a stabilirsi tra gli spettatori, tutti insieme partecipi dello stesso rito religioso, tutti insieme gelosamente tutori dello stesso patrimonio "di procedure culturali, e anche di miti che venivano tramandati e facevano parte dell'immaginario collettivo" sino ad approfondire la coscienza storica collettiva e a rafforzare il senso d'una comune identità. Ma poi perché su quelle migliaia di spettatori lo spettacolo tragico - spettacolo di vicende terribili e luttuose - agiva, attraverso i due fondamentali ed elementari sentimenti della compassione e della paura, portando "a compimento la purificazione di tali emozioni". È il celebre passo (1449 b 24-28) della Poetica di Aristotele, che Di Benedetto correla ad altro passo della Politica (1341 b 32 ss.), a proposito di coloro che sono presi dall'entusiasmo, partecipando a canti sacri di particolare natura: "Attraverso dunque la manifestazione concreta dell''entusiasmo' il soggetto perviene - osserva Di Benedetto glossando Aristotele - a uno stato di normalità, in quanto - è da intendere - delle potenzialità emotive presenti in lui hanno trovato sfogo. Un procedimento analogo è dunque da supporre per lo spettacolo tragico: gli spettatori sono presi da compassione e da paura, ma una volta cessata la rappresentazione queste emozioni hanno termine, e il soggetto non ritorna allo stato originario, ma invece è migliorato, ha sperimentato un alleviamento, in quanto quelle potenzialità emotive [...] hanno trovato un loro sfogo" (v. Di Benedetto e Medda, 1997, pp. 315 e 320).
Dobbiamo, com'è noto, al teatro latino la nascita dei teatri nazionali del Rinascimento europeo. Plauto e Terenzio sono alla base della commedia moderna, da Machiavelli a Molière; Seneca con le sue tragedie ha profondamente influenzato l'ispirazione d'uno Shakespeare e d'un Corneille. Non è questione, dunque, di disconoscerne la statura. Ma, sotto l'angolo visuale della nostra trattazione, occorre osservare insieme a una studiosa francese, Florence Dupont, che "a differenza del teatro greco, quello latino non è un'attività civile, non funziona sul piano dell'equilibrio sociale, esaltando gli eroi, o denunciando i traditori sul piano dell'ordine morale. D'altronde, esso vieta qualunque allusione sulla scena a un cittadino ancora vivente. Di conseguenza, il teatro latino non è il luogo di una riflessione morale o filosofica sull'uomo o sulla vita. Le sue origini ludiche ne fanno uno spettacolo musicale [...]. Il testo stesso è scritto al fine di creare una musicalità di suoni e di sensi" (v. Dupont, 1985; tr. it., p. 10). Uno spettatore colto come Cicerone nel trattato Sulla divinazione scrive, non a caso: "Tu vuoi farmi credere alle storie che si vedono rappresentate a teatro? Ti concedo che ci si diverte, ma questo piacere deriva dalle parole, dalle massime, dal ritmo e dai canti, non dalla storia". Anche se praticato con molta frequenza (sotto la Repubblica su 77 giorni all'anno di ludi 55 sono riservati al teatro; durante l'Impero su 165 giorni di feste 101 vanno a rappresentazioni teatrali: v. Veyne, 1976), il teatro non è che uno degli spettacoli cui il pubblico romano assiste. E, contrariamente a certe facili leggende, anche filmiche, non sono gli spettacoli circensi a prevalere: "I giochi pubblici sono divisi in giochi che si svolgono in teatro e giochi che si svolgono nel circo" - precisa, ancora una volta, Cicerone in Sulle leggi. "Nel circo le corse a piedi, il pugilato, la lotta, le corse di carri. Nel teatro il canto, le lire, o i flauti".
Il cittadino romano è fortemente politicizzato (v. Nicolet, 1976) e i 'suoi' spettacoli sono i trionfi, i funerali, i processi. Nella pompa triumphans si articola un doppio spettacolo: "quello della città che si ammira nel proprio esercito vittorioso e quello del trionfatore che si offre all'ammirazione" (ibid.; tr. it., p. 468); con l'imperator sfilano, naturalmente, i senatori, i magistrati, i re prigionieri e le loro truppe in catene. Il funus, cioè il trasporto di un cadavere dalla casa alla tomba, che all'origine si svolgeva di notte, si articolò poi sontuosamente in una processione, in cui istrioni appositamente compensati indossavano le maschere, rigide e annerite dal fumo, degli antenati della famiglia. Gli istrioni, lussuosamente vestiti, sono in piedi su carri, si fermano al Foro e si siedono colà su sedili d'avorio: mentre il morto viene issato verticalmente, il figlio ne tesse l'elogio, ricordando le eroiche imprese, militari e civili, che ha compiuto. "Il risultato è - scrive Polibio nelle Storie - che, essendo questi fatti riportati alla memoria del popolo e messi sotto gli occhi non solo di coloro che vi hanno partecipato effettivamente, ma anche di quelli che non vi hanno preso parte, tutti provano una tale emozione che il lutto cessa di essere limitato alla famiglia e sembra diventare dell'intero popolo". Quanto ai processi, essi sono veri e propri spettacoli che si svolgono nei tribunali del Foro. La Dupont li ha così ricreati: "Dal punto di vista del pubblico un processo romano è fatto da due grandi discorsi che s'intrecciano, due monologhi recitati da avvocati che approfittano dell'occasione per valorizzare la propria persona e i propri talenti, parlando all'aria aperta, alla presenza dei curiosi che sono i futuri elettori. Costoro s'interessano non tanto dell'esito del processo quanto delle prestazioni oratorie dei due avversari. Essi assaporano da intenditori, apprezzando l'ampiezza di un periodo, la melodia di una clausola, gli accenti patetici di una perorazione. L'oratore ostenta chiaramente il disprezzo per i mezzi che sono dell'attore, pur confessando ingenuamente di invidiarglieli. Cicerone riconosce che l'ideale è avere la voce dell'attore tragico e la vivacità gestuale del commediante" (v. Dupont, 1985; tr. it., p. 19).
Un forte moto di riappropriazione del teatro in senso stretto da parte dell'intera collettività caratterizza quella linea, ideale e reale, che collega in vari paesi dell'Europa medievale (Francia, Inghilterra, Germania, Olanda, Polonia, Italia) tre forme spettacolari in continuo rapporto dialettico e in costante evoluzione, che potremmo definire nella nostra lingua (ma in ciascuna lingua corrispondono termini analoghi) 'miracoli', 'misteri' e 'moralità'. I miracoli raccontano le difficili peripezie morali di un individuo, riscattato dalla sua condizione di peccatore dal miracoloso intervento di un santo o della Vergine. Le Jeu de saint Nicolas di Jean Bodel, trovatore d'Arras, evoca la protezione da parte del santo suddetto dei tesori d'un re pagano, protezione rivelatasi tanto efficace che il sovrano si converte al cristianesimo. Siamo verso il 1200: del 1260-1265 è il Miracle de Théophile di Rutebeuf, nato nella Champagne ma vissuto a Parigi, in cui la Vergine, per la prima volta in scena, salva un chierico vendutosi al diavolo (v. Rey-Flaud, 1980). Un manoscritto del XIV secolo, detto 'manoscritto Cangé', ci ha tramandato quaranta Miracles de Notre Dame, che furono allestiti tra il 1339 e il 1382, durante le riunioni annuali della confraternita degli orefici di Parigi (v. Stadler-Honneger, 1926). Ecco dunque emergere un'istituzione (nel caso specifico, il corrispettivo religioso di una corporazione professionale), che decide di allestire, a tutti i livelli di responsabilità, uno spettacolo; di chiederne la stesura a uno scrittore dietro il versamento di un adeguato compenso; di far realizzare e montare su palchi fissi o mobili le varie scenografie; di far disegnare e allestire i costumi, e, quel che più conta, di recitarne i vari ruoli, trasformandosi in una compagnia di attori improvvisati e dilettanti. Va da sé che l'orefice (o lo speziale o l'ebanista o il cerusico) che oggi interpreta un santo (o un apostolo o un peccatore o un angelo) domani, a spettacolo concluso, tornerà alla propria professione o mestiere: dal ruolo teatrale 'eccezionale' trascorrerà daccapo al suo ruolo sociale quotidiano. Ma è proprio questa metamorfosi, o doppio passaggio, dal sociale al teatrale al sociale, a conferire ai miracle plays inglesi, alle fiestas de Corpus Domini spagnole, ai mystères francesi, alle sacre rappresentazioni italiane un peso sociale tutto particolare.B. Faivre, che ha studiato con particolare impegno la commistione di pietas religiosa e festa teatrale in queste varie forme di teatro sacro medievale (v. Faivre, 1988), ha osservato come in esse "la comunità si offre in forma di spettacolo a se stessa, dispiegando la sua forza, la sua coesione, le sue stesse gerarchie (reali o burlesche); ma, ancor più, essa coglie l'occasione di un'emozione collettiva, in cui l'intera assemblea dei cittadini dialoga sulla base degli stessi valori religiosi e sociali" (cfr. Faivre, Le théâtre du Moyen Âge, in Corvin, 1991, p. 578). Questo dialogo non sovverte i delicati equilibri della stratificazione in classi (sono sempre le classi medie e alte a finanziare lo spettacolo), ma certo favorisce il confronto su conflitti etici a forte contrasto, come avviene nel caso, ad esempio, delle 'moralità' (o moralités o morality plays o spelen van sinne olandesi), in cui l'itinerario dell'uomo verso la sua Salvezza o la sua Dannazione oppure l'opposizione frontale dei Vizi e delle Virtù, proprio nel rifiuto d'imitare banalmente la realtà, finiscono per proporre al cittadino-attore-spettatore scelte esistenziali molto rigorose e profonde: cosa, ovviamente, assai stimolante sul piano sociale (v. Helmich e Wathelet Willem, 1981).
Un teatro radicalmente opposto, non agito e partecipato, entro certi limiti, a tutto campo sociale, ma piuttosto gestito dall'alto, con precise intenzioni di esaltazione del potere, è quello che caratterizza le corti, grandi e piccole, d'Italia, Spagna, Inghilterra, Francia tra Cinque e Seicento. La corte (e si veda il caso dell'Italia a Urbino, Ferrara, Mantova, Firenze, Roma, Napoli) favorisce dapprima la nascita dei generi teatrali regolari in volgare, invitando i suoi intellettuali-funzionari a trascorrere gradualmente dalla messinscena di testi latini alla loro traduzione-riduzione, fino alla stesura di testi originali in italiano (il caso più rappresentativo in questo senso è quello dell'Ariosto, regista della compagnia della corte estense a Ferrara e poi drammaturgo della medesima, in regime d'esclusività della cosiddetta 'opera dell'ingegno'). Ma diventa presto evidente che il teatro tradizionalmente affidato ai due generi canonici - commedia prima, tragedia poi - riesce poco efficace per una trasmissione altisonante di valori quali il lusso, il prestigio, la potenza economica, la forza militare, tipici di una cultura curtense. Già la favola mitologica o quella pastorale (dal Poliziano dell'Orfeo al Tasso dell'Aminta, sino al Guarini del Pastor fido, sempre per restare soltanto in Italia) meglio si prestavano, per le allusive valenze dei miti in esse contenuti, a far da supporto a questo o a quel messaggio simbolico che la singola corte committente intendeva affidarle. Ma, più generalmente, le corti ambivano a un assai meglio assortito 'eclettismo' spettacolare. Era a una vera e propria 'traversata' dei più diversi generi scenici che esse si affidavano, per riaffermare, in tutto il suo fulgore, il loro spicco su corti amiche o avversarie (v. Marsan, 1980).
Nel maggio 1589 si sposano a Firenze il granduca Ferdinando de' Medici e Cristina di Lorena. Nel cortile di palazzo Pitti, appositamente allagato, viene offerta agli ospiti una Naumachia, spettacolo allegorico che ha il suo apice narrativo in una battaglia di navi sulle quali sono, ovviamente, ospitati eroi ed eroine di una più o meno corrente mitologia equorea. Nel salone degli Uffizi, che tre anni prima l'architetto-scenografo-apparatore Bernardo Buontalenti aveva decorato, una molto stimata compagnia di gentiluomini dilettanti, gli Accademici Intronati di Siena, recita una commedia in cinque atti di un buon drammaturgo loro concittadino, Gerolamo Bargagli, La pellegrina (1568), in cui, attraverso le peripezie dell'eroina eponima (la gentildonna Drusilla alla ricerca del marito scomparso) si celebrano il coraggio e la nobiltà d'animo d'una 'tipica' giovane d'alto lignaggio. Tra un atto e l'altro venivano offerti al nobile pubblico quattro Intermezzi composti di versi, musica e danza (il cui libretto sarebbe stato edito di lì a poco e donato ai riguardanti, a loro futura memoria). Ideati da Giovanni de' Bardi e allestiti dal Buontalenti stesso, gli Intermezzi mostravano l'evolversi graduale, nella scenografia, di una veduta d'insieme della città di Pisa (luogo d'ambientazione della commedia) in visioni celesti in cui cavalieri divini solcavano nuvole, si aprivano squarci di giardini edenici, Lucifero e una corte di demoni compivano minacciose evoluzioni. Ma la musica (le musiche erano dello stesso Bardi, di Luca Marenzio e di Cristofano Malvezzi, i testi del Rinuccini, dello Strozzi e di Laura Guidiccioni), come forza armonizzante dei quattro elementi dell'universo (terra, aria, acqua e fuoco), riconduceva tutto a un ordine superiore, con trasparente allusione all'armonia e all'ordine del recente connubio.
Nella Madrid imperiale di Filippo IV, dove per volere della corte sono attivi, sin dal 1584, due teatri, il Corral del Principe e il Corral della Croce, giunge notizia, nel giugno 1625, che la città olandese di Breda è stata sottomessa dagli Spagnoli dopo nove lunghi mesi d'assedio. Il conte-duca Olivares, che di lì a poco avrebbe fatto costruire per il suo monarca il fastoso palazzo del Buen Retiro, ideale luogo di rappresentazioni d'eccezionale opulenza, invita Pedro Calderón de la Barca, uno dei due grandi drammaturghi del secolo d'oro spagnolo, a scrivere L'assedio di Breda, da rappresentarsi a corte non oltre il 5 novembre. Nel frattempo si viene ad apprendere che la città brasiliana di Bahia, già caduta nelle mani degli Olandesi, era stata riconquistata dagli Spagnoli. Olivares invita stavolta a scrivere l'altro grande drammaturgo del tempo, Félix Lope de Vega, che termina per fine ottobre Il Brasile riconquistato, allestito a corte il 6 novembre. Per uno dei saloni del Buen Retiro il conte-duca commissiona con adeguato anticipo dodici tele di grandi dimensioni dedicate ad altrettante vittorie spagnole: due di queste raffigurano La resa di Breda, dipinta dal Velásquez, e La riconquista di Bahia, dipinta dal Maino. Stiamo evocando alcune occasioni spettacolari e figurative d'una corte i cui registri contabili comprovano spese, dal 1622 al 1638, per almeno cinquecento allestimenti nel cosiddetto salón de comedias dell'Alcazar (v. Greer, 1991).
A Londra, alla corte degli Stuart, il re Giacomo I, la regina Anna e, più tardi, Carlo I e la regina Enrichetta Maria trovarono un'occasione di adeguata celebrazione della loro sconfinata potenza nel masque (scritto dapprima mask o maske), cioè nella più sontuosa forma di spettacolo di corte che la poesia, la danza, la musica, la scenografia, la costumistica potessero concorrere a formare. Ogni masque veniva eseguito un solo giorno e una sola volta. A un'estremità del salone sorgeva il palco, all'opposta estremità il baldacchino col trono del re; lungo i due lati, su immense gradinate, tutta l'aristocrazia di corte, secondo la gerarchia dei gradi nobiliari; al centro, un enorme tappeto per le danze. Assistere al masque era un grande privilegio, perché in tal modo si potevano verificare, istante dopo istante, le reazioni del sovrano, vicario di Dio in terra, allo spettacolo: ma privilegio massimo era parteciparvi come masquers, come interpreti nei vari ruoli, mitologici o allegorici, che il copione prevedeva. Il grande creatore - come scenografo e costumista - dei masques di casa Stuart è il figlio d'un tappezziere londinese, divenuto architetto e dal 1615 sovrintendente dei palazzi reali, Inigo Jones. Jones ha compiuto almeno tre viaggi in Italia, forse nel 1597-1603, nel 1607, nel 1613-1614: ha visto al lavoro i grandi allestitori fiorentini, come il ricordato Buontalenti e il Parigi, e nel terzo viaggio ha ricevuto in dono dallo Scamozzi i disegni suoi e di Palladio. Dal 1605 al 1631, in collaborazione con un eccellente drammaturgo del tempo, Ben Jonson, in veste di librettista, Jones sforna - sempre in un clima di tensione e d'attrito con il collega - un'enorme sequenza di masques: e ciascuno è più complesso, raffinato, sontuoso e, naturalmente, costoso dell'altro. Con lui le scene si muovono e si succedono di continuo: nel Masque d'Imene una macchina rotante offre agli astanti la visione del globo terrestre che poi, dopo un'ampia conversione, si trasforma in un altare mastodontico (v. Orgel e Strong, 1973). P. Thompson ha così condensato l'estro metamorfico di Inigo: "Nel corso degli anni Jones avrebbe aggiunto alla magia delle macchine [...] il palcoscenico inclinato alla Serlio; i portelli scorrevoli su quinte, che, chiusi, creavano un nuovo retroscena e, aperti, rivelavano un ulteriore spazio scenico (la scena ductilis); l'arco posto alle spalle di uno stretto proscenio, per dare definizione alla prospettiva e per nascondere le apparecchiature; le quinte parallele per guidare lo sguardo e celare i punti di giunzione; i complessi macchinari per i voli e gli effetti di luce" (cfr. Thompson, English Renaissance and restoration theatre, in Russell Brown, 1995; tr. it., pp. 214-215). Inutile dire che Giacomo I Stuart giunse a spendere per un solo masque, come quello di Oberon del 1611, più di ventimila sterline, oltre metà delle quali investite in costumi d'uno sfarzo considerato, presso le altre grandi corti europee, impareggiabile.
Abbiamo parlato degli eccessi, anche economici, della politica propagandistica degli Stuart a teatro. Ma corre l'obbligo di procedere narrativamente a ritroso, per fare almeno brevemente cenno all'apogeo del rapporto teatro-società, rappresentato dal regno di Elisabetta e dalla civiltà scenica che dal suo nome viene detta elisabettiana. Elisabetta è il sovrano che ribadisce, sulle orme di Enrico VIII, la centralità della monarchia nello Stato: godendo di un maggiore consenso, e persino della complicità della larga maggioranza dei suoi sudditi. Sotto Elisabetta il teatro inglese tocca il suo vertice non solo per la quantità e la qualità prodigiosa dei drammaturghi che lo rappresentano (da Shakespeare a Marlowe al già citato Jonson, da Peele a Kyd, da Beaumont e Fletcher a Dekker, da Marston a Chapman, da Heywood a Middleton, da Webster a Tourneur, da Massinger a Ford), ma anche per il gran numero di teatri e di compagnie attive a Londra (e in provincia) e per la composizione del pubblico, che davvero aduna e condensa le sei categorie di cui sir Thomas Smith nel suo Della repubblica inglese (1560) aveva fornito la descrizione e il modello: il re, la nobilitas maior o aristocrazia (dai principi ai baroni), la nobilitas minor o gentry (cavalieri, esquires e gentiluomini), i citizens o borghesi di città, gli yeomen o proprietari terrieri, i lavoratori (artigiani, commercianti, operai, piccoli coltivatori). Nel 1576 nasce a Londra il primo teatro commerciale, il Burbage Theatre. Nello stesso anno Richard Farrant tramuta una sala del convento dei Blackfriars (ordine religioso disciolto, come gli altri, da Enrico VIII) in un teatro privato, in cui potranno recitare i fanciulli della cappella reale. Nasce così la prima childrens company, e teatro privato d'élite e teatro commerciale e pubblico entrano in una fitta concorrenza. I teatri, in cui recitano le compagnie di attori adulti professionisti (composte di soli maschi, giacché le donne non potevano calcare le scene), si moltiplicano: il Globe, lo Swan, il Rose, il Fortune, lo Hope, il Red Bull (al Globe, costruito nel 1599 per i Chamberlain's Men, cioè la compagnia di Shakespeare, vennero messe in scena tutte le opere di questo autore scritte dopo tale data). Si è calcolato che la frequentazione media dei teatri londinesi in questo periodo fosse di un milione di spettatori all'anno: una cifra eccezionale, se si tiene conto che la città contava, all'epoca, da centocinquantamila a duecentocinquantamila abitanti. Un teatro pubblico come il Globe poteva contenere sino a tremila posti, mentre un teatro privato, come il Blackfriars, ne ospitava un migliaio. Si è potuto dimostrare che, intorno al 1595, le due principali compagnie attive a Londra, cioè i già citati Chamberlain's Men e gli Admiral's Men, totalizzavano da sole qualcosa come quindicimila biglietti venduti alla settimana. Il che lascia supporre da un lato l'esistenza di un vero pubblico di habitués, dall'altro la necessaria 'creazione' di un nuovo spettacolo ogni quindici giorni, fermo restando che ogni giorno veniva messo in scena un dramma diverso. Gli Admiral's Men, proprio nel corso della stagione 1594-1595, sulla base d'una media di sei rappresentazioni alla settimana, allestirono trentotto drammi, di cui ventuno erano novità assolute.
Nei teatri privati il prezzo dei posti, piuttosto elevato, rendeva relativamente ristretto l'uditorio, ma al Globe, o negli altri teatri pubblici, la gamma molto articolata dei prezzi faceva sì che gli spettatori fossero veramente rappresentativi di tutte le classi sociali, salvo le più povere. Il penny con cui si aveva diritto a entrare a teatro era l'ottantaquattresima frazione del salario settimanale di un operaio londinese: e corrispondeva a quanto quest'operaio spendeva per un piccolo boccale di birra (tre pence costava allora una pipata di tabacco, e sei pence la cosiddetta six-penny damnation, la prestazione d'una prostituta). Secondo i nemici giurati del teatro, i puritani, che si battevano per una riforma integrale dei costumi secondo i dettami di Calvino, il pubblico del Globe non era costituito altro che da loschi individui, ladruncoli, ragazze di cattiva reputazione, sospetti giovinastri. Le preziose testimonianze racchiuse nei rapporti diplomatici dei funzionari delle due ambasciate più solerti, quelle di Venezia e dell'Aia, ci riferiscono invece di un pubblico realmente eterogeneo: prentices, cioè giovani apprendisti dei diversi mestieri, artigiani, negozianti, cittadini, ricchi provinciali di passaggio, ospiti stranieri, avvocati, magistrati e studenti della facoltà di Legge (Inns of court), gentiluomini, aristocratici di corte, spesso con il loro seguito, con cui avevano traversato il Tamigi su una piccola flottiglia. Né mancavano le spettatrici di buona condizione sociale, giacché allora l'Inghilterra era giudicata sulle gazzette straniere il paradiso per le donne (v. Bentley, 1971 e 1984; v. Gurr, 1992; v. Melchiori, 1995).
Nel Settecento - hanno scritto di recente P. Holland e M. Patterson - il teatro acquisisce "nell'Europa continentale una funzione sociale che non aveva dai tempi della Grecia. Da spettacolo di corte o di piazza divenne per la borghesia un luogo di dibattito politico, oltre che un punto di riferimento per l'identità nazionale, e persino per la rivoluzione. Non più formale e stilizzato, né volgare e grossolano, il teatro approdò a un nuovo livello di realismo: cominciò a cercare l'autenticità e a riflettere in modo nuovo la vita quotidiana degli spettatori. Iniziò a discutere la propria estetica e a evolversi da mestiere ad arte. Gli attori e le attrici non furono più messi sullo stesso piano delle prostitute e dei giocolieri, diventarono membri privilegiati della società, e i drammaturghi cominciarono a essere pagati adeguatamente per il loro lavoro" (cfr. Holland e Patterson, Eighteenth century theatre, in Russell Brown, 1995; tr. it., pp. 269-270). Il Settecento è il secolo in cui viene portato a conclusione quel processo di rivoluzione dell'architettura teatrale, iniziato a metà Seicento, che consiste nella costruzione dell'edificio e della sala teatrale pubblica, così come siamo ancor oggi abituati, d'istinto, a concepirla. È la cosiddetta 'sala all'italiana' (e non entreremo qui nel complesso e delicato dibattito di quanto essa sia da ricondurre al genio italico e quanto sia da attribuire a lontane tradizioni 'spaziali' dei singoli paesi europei): un emiciclo - sia esso a U, o a ferro di cavallo, o a campana, oppure a ellisse - chiuso dal fronte del palcoscenico, con la sua larghezza, profondità e altezza, e costituito da una sala o platea e da un sistema di palchi a più piani, che la circondano e la concludono. "Si guarda dai palchi - ha scritto Fabrizio Cruciani (v., 1992, p. 13) - e si guardano gli spettatori nei palchi: lo spazio della sala si realizza come luogo dello sguardo in tutte le sue possibili implicazioni, esiste come 'interno', mondo autonomo e separato per la vita extraquotidiana dello spettatore, luogo popolato di presenze potenziali prima di essere riempito: significante prima degli spettacoli". In questo "mondo autonomo" si formano un nuovo spettatore, un nuovo pubblico, una nuova società teatrale. Non è dunque un caso, né una pura moda se il cosiddetto 'teatro all'italiana' si diffonde a raggiera in tutta Europa: esso "è uno spazio di relazione, interno e assoluto, un ambiente che deriva e fonda - citiamo ancora una volta Cruciani - una forma mentis del teatro". Ad Amsterdam sorge lo Schouburg, a Vienna l'Opera è più volte rifatta, così come il Drury Lane a Londra. Si dotano di teatri con la morfologia che abbiamo descritto Parigi, Berlino, Bayreuth, Mannheim, Dresda, Monaco, Lione, Metz, Montpellier, Bordeaux. C.N. Cochin osserva nel 1749 che "il teatro è diventato uno dei principali oggetti di curiosità per coloro che compiono il viaggio in Italia", e tra il 1760 e il 1770 G.P. Martin Dumont sente il dovere di pubblicare in dispense un Parallelo delle piante delle più belle sale di spettacolo d'Italia e di Francia. Nella preziosa ristampa che ne ha curato a New York B. Blom nel 1968 si ammirano il Teatro Argentina di Roma (G. Theodoli, 1732), il primo San Carlo di Napoli (G. Medrano, 1737), il teatro della reggia di Caserta (L. Vanvitelli, 1751-1758): e più tardi avrebbero avuto buon diritto di entrarvi il Teatro alla Scala di Milano (G. Piermarini, 1776-1778) e La Fenice di Venezia (G. Selva, 1790-1792).
In queste sale viene educandosi, sera dopo sera, un nuovo pubblico a pagamento, che rifiuta istintivamente un'idea di teatro elitario, depositario di astrattamente raffinate invenzioni allegoriche o simboliche, e che al tempo stesso prova un esplicito fastidio per le varie forme di teatro 'povero' (quali i cascami dell'ormai languente commedia dell'arte, degradatasi a livelli di vistosa volgarità). È un pubblico costituito dalla media e alta borghesia che in Francia, in Inghilterra, in Germania (a Parigi, a Londra, ad Amburgo) pretende che il teatro 'comunichi', che si faccia cioè propositore di una realtà morale e sociale a lui contemporanea: un pubblico che sente come un proprio diritto inalienabile quello di mostrarsi criticamente attivo non solo verso il singolo drammaturgo e la sua opera, ma anche, e soprattutto, verso lo spettacolo e i suoi interpreti, dando prova di una spiccata competenza in merito all'allestimento e all'interpretazione. È sull'impulso di un pubblico come questo che nelle numerose sale teatrali parigine - come la Comédie Française o il Théâtre Italien - si guarda con particolare attenzione alla scelta del repertorio e alla preparazione culturale degli interpreti: una mademoiselle Clairon (1723-1803) o un Lekain (1728-1788), cioè i due primattori francesi del secolo, sono dei veri e propri intellettuali. È per questo pubblico, attento, esigente e colto, che David Garrick (1717-1779), il più grande attore londinese del tempo, matura quel modello di 'naturalezza recitativa' che è l'esatto opposto della pomposa enfasi, dell'oratoria retoricheggiante, dominante nello spettacolo seicentesco di corte (v. Nicoll, 1980). La grande e trionfale tournée che Garrick compie praticamente in tutt'Europa, tra il 1763 e il 1765, non è senza influenza su uno dei due più originali e profondi dialoghi sull'arte scenica del Settecento: il Paradosso sull'attore dell'illuminista Denis Diderot (scritto nel 1773 e rimaneggiato nel 1778), in cui due interlocutori discettano sulla 'paradossale' mancanza di sensibilità dell'attore, che sola lo renderebbe grande (v. Jourdain, 1921). L'altro trattato profondamente innovativo è la Drammaturgia d'Amburgo di Gotthold Ephraim Lessing, scritto tra il 1767 e il 1769. Non è, si badi, un libro nato a caso: è un libro nato per il pubblico, in qualche modo preteso dal pubblico. I borghesi commercianti della vitalissima città tedesca si quotano perché vi venga costruito un nuovo teatro, lo inaugurano il 22 aprile 1767, ne affidano la direzione a Iohan Frederick Loewen, mentre il Dramaturg, cioè il responsabile del repertorio, sarà lo stesso Lessing. Lo scrittore nella sua opera propugna con estremo coraggio una nuova responsabilità del pubblico, chiamato a esercitarsi criticamente sullo spettacolo: giacché il teatro è lo specchio morale d'una nazione, ed è l'istituzione pedagogica che, con gli strumenti dell'arte scenica, può rinnovare le coscienze e aprirle a una nuova sensibilità, democratica e progressiva.
Non stupisce se il seme, profondamente innovativo, gettato dalla nuova razionalità settecentesca sia combusto, con esiti propriamente politici, nella grande fiammata rivoluzionaria. Gli spettatori parigini, che avevano assistito nel 1784, con sentimenti di viva partecipazione, a Il matrimonio di Figaro di Pierre-Augustin Caron de Beaumarchais, nel 1789 erano in qualche modo naturalmente disposti a fremere di giusto sdegno dinnanzi al Carlo IX o la scuola dei re di Marie-Joseph Chenier e a partecipare con la debita tensione emotiva al più colossale 'spettacolo politico' della Rivoluzione: il processo, nel novembre 1792, a Luigi XVI, conclusosi con l'esecuzione capitale del monarca. Ma, esauritasi la vampata, il cosiddetto 'delirio spettacolistico' che tra il 1789 e il 1793 aveva caratterizzato feste, cerimonie e cortei della Parigi rivoluzionaria tende ad attenuarsi sino alla sua progressiva normalizzazione. Il pubblico farà comunque tesoro di quella breve, folgorante esperienza quando, intorno alla fine degli anni venti dell'Ottocento, divamperà un'altra fiammata rivoluzionaria, tutta e soltanto letteraria, epperciò incruenta: quella del dramma romantico. Quando, la sera del 25 febbraio 1830, va in scena alla Comédie Française Ernani di Victor Hugo, il pubblico, che sia classicista e dunque conservatore, o romantico e dunque progressista, è ancora socialmente coeso: è ancora il pubblico culturalmente consapevole che il secolo dei Lumi ha modernamente forgiato. Altrimenti non si spiegherebbe la violenza delle polemiche sui due fronti (il 'liberale' Armand Carrel, che sta dalla parte della grande borghesia degli affari, invece di ostentare la più cinica indifferenza verso quei giovani intellettuali 'dai gilè rossi', che blaterano di libertà dell'arte e della sua utilità estetica, sente il diritto-dovere di scrivere quattro furibondi articoli contro la malaugurata creatura victorhughiana). Ma la grande vague romantica, in tutta la gamma delle sue variazioni (da Hugo a de Vigny, da de Musset a Mérimée) dura in tutto e per tutto vent'anni. Quando Alexandre Dumas père investe i cospicui guadagni dei suoi romanzi per fondare il Théâtre Historique e rappresentarvi le riduzioni delle sue avventure di cappa e spada (1847-1853), il romanticismo è già bell'e svanito (v. Meldolesi e Taviani, 1990).
Il trentennio che va dal 1850 al 1880 segna (a Parigi come in tutte le capitali teatrali europee) una progressiva diversificazione, e vorremmo dire una divaricazione del pubblico in due couches culturali molto nette, che corrispondono a due classi sociali precise. Per restare - per pure ragioni di esemplificazione - nella capitale francese, la piccola borghesia degli impieghi e il popolo del commercio minuto, dell'artigianato, del lavoro dipendente affollano i teatri come l'Ambigu-Comique, la Gaîté, la Porte Saint-Martin, Les Funambules, in cui trionfano i lions du mélodrame, i mattatori di un genere teatrale avventuroso e 'nero', in cui un Malvagio (traditore della fiducia e idolatra della menzogna) viene opposto a un Buono, un eroe disinteressato che agisce solo in nome della buona fede e del rispetto della verità. Tra i due, spesso, una vittima designata, per lo più una giovane innocente e perseguitata che tuttavia riuscirà, grazie all'accorta tutela del Buono, a godere a un tempo del riscatto morale e d'una salvifica sistemazione, economica e coniugale. La media borghesia delle professioni e degli impieghi pubblici (è da quest'area che provengono, sia detto per inciso, i migliori scrittori della seconda metà del secolo) si svaga per lo più negli stessi teatri, ma dinnanzi a tutt'altro genere teatrale, molto più malizioso e, nei suoi migliori rappresentanti, sofisticato: il vaudeville. Se nel mélodrame gli spettatori d'animo più semplice e ingenuo ravvisano in forme avvincenti, tra sorprese e colpi di scena, una loro possibile metaforica catarsi, nel vaudeville, sulla base di tutt'altro genere di imprevisti e qui pro quo, per lo più domestici e sessuali, un pubblico più smaliziato e scettico contempla l'inevitabile degrado dell'istituzione cardine della società, il matrimonio. Due scrittori-principi del vaudeville, Labiche e Feydeau, porteranno le rispettive macchine teatrali, ruotanti sempre intorno al ben oliato perno dell'adulterio sottaciuto, della reputazione difesa a ogni costo, del benessere recuperato a qualunque prezzo, a esiti di un assurdo così frenetico e sconvolgente da tranquillizzare, sotto il velo dell'improbabilità, anche il più cocciuto benpensante.
Questa duplice stratificazione sociale di un pubblico che non si rassegna più a mostrarsi, nelle sue scelte, univoco e omogeneo conoscerà una ancora più variegata frammentazione nel cinquantennio di sperimentazione teatrale che accomuna la vita dell'intera Europa, tra il 1880 e il 1930 all'incirca. Naturalismo e simbolismo nel ventennio di fine secolo in Francia, Italia e Germania, e, a partire dal secondo decennio del Novecento, futurismo, cubofuturismo, espressionismo e poi, in rapida sequenza, dadaismo e surrealismo ribaltano la situazione di esemplare compattezza e coerenza che si era venuta formando, per quanto concerne il rapporto teatro-società, nelle platee delle più avvertite città d'Europa, tra illuminismo e romanticismo. Da un 'teatro per la società', la quale a sua immagine lo pretende e lo forgia, lo asseconda e lo condiziona, nei contenuti come nelle forme, nella tematica come nell'interpretazione, l'Europa delle varie nazioni si va adattando all'idea di tante 'microsocietà' teatrali quante sono le forme della sperimentazione scenica. In queste microsocietà, per ragioni che sono evidenti, il confine tra autore, interprete e spettatore si fa sempre più sottile, anzi rischia decisamente di annullarsi.
André Antoine, a seguito della sua fervida adesione ai principî del naturalismo di Émile Zola, fonda a Parigi il Théâtre Libre, inaugurato il 30 marzo 1887. Ma quella che viene considerata la culla del naturalismo e il grembo della moderna regia è, per la verità, la saletta di una ex compagnia di filodrammatici, e il pubblico di habitués che segue lo strenuo lavoro di Antoine, ex impiegato del gas, è quello stesso che gli fornisce i copioni: sono, in senso lato, gli amici delle serate di Médan (tra cui Maupassant), i due fratelli Goncourt, Alphonse Daudet, e vari scrittori oggi giustamente dimenticati, come Jean Jullien, Ferdinand Icres, Georges Ancey. Non vogliamo sminuire in nulla la portata rivoluzionaria d'una delle più audaci avventure teatrali della modernità: vogliamo solo dire che essa nasce e si sviluppa all'interno di un ben determinato e circoscritto clan intellettuale e che questo clan, deliberatamente, non comunica con gli altri strati della società parigina, e tantomeno francese (v. Chothia, 1991).
Dalla saletta a pochi passi dalla place Blanche emigra un attore ventunenne, che è stato tre anni con Antoine, Aurélien Lugné-Poe. È molto amico dei pittori nabis (Vuillard, Bonnard, Denis) e simpatizza fortemente per la letteratura simbolista. Insieme a un poeta-ragazzo, Paul Fort, mette in piedi il Théâtre d'Art e allestisce Pelléas et Mélisande di Maurice Maeterlinck, atto di nascita della drammaturgia simbolista, il 17 maggio 1893. Se ci avventuriamo a studiare le condizioni concrete della messinscena, ci rendiamo conto che il Théâtre d'Art esisteva come mera formula intenzionale, che non possedeva una sala, e per l'occasione fu affittata una sala privata e in orario di matinée per maggior risparmio: la piccola platea era tutta formata da prosatori, poeti, musicisti simbolisti (da Mallarmé a Debussy), alcuni dei quali avevano contribuito con le proprie mani all'allestimento. Pelléas et Mélisande è e resterà un capolavoro: ma siamo, al suo esordio, ancora dinnanzi a un'élite teatrale che si identifica quasi totalmente, persino sul piano delle cifre, con un'élite sociale (anche in questo caso un gruppo fortemente connotato di intellettuali, adepti rigorosi di una stessa poetica).
Ciò spiega bene, vorrei dire che addirittura anticipa il significato della riforma attuata, tra il 1924 e il 1929, dal più sensibile 'apostolo del nuovo teatro' del Novecento, Jacques Copeau. Nel 1913 Copeau, a trentaquattro anni, digiuno di teoria e pratica teatrale, ma sdegnato dalla bassezza culturale e morale della scena ufficiale francese, fonda una sua compagnia e la fornisce d'una sala, il Vieux Colombier. Ha imposto ai suoi giovani attori una disciplina di rigore etico, prima che artistico: li ha persuasi a mettersi interamente al servizio dell'arte. Cinquantotto classici poco noti e ventisei novità commissionate a scrittori giovani impongono la sua troupe all'attenzione dell'ambiente intellettuale francese. Ma nel 1924 Copeau decide di chiudere il Vieux Colombier e di trasferirsi in una grande fattoria in Borgogna. Una trentina di attori entusiasti lo segue. Ciò che egli vuole attuare è una vera e propria 'comunità', umana e teatrale al tempo stesso, in cui esigenze morali ed estetiche siano parimenti rispettate: lavoro collettivo d'analisi di un determinato testo, progetto d'allestimento in comune e all'atto dell'andata in scena, e nel corso delle repliche, scambio paritario di tutti i ruoli. Nascono così i Copiaus, che recitano in cittadine, paesi e villaggi della Borgogna (una regione sprovvista di sale al chiuso), su palchi ogni volta ricostruiti all'aria aperta, testi del teatro antico, ma soprattutto medievale, in chiave 'popolare': il che per Copeau vuol dire secondo un'essenzialità e intensità lirica quasi primitive. L'esperimento dei Copiaus dura cinque anni, sino al 1929. Ma nella riflessione successiva dei primi collaboratori e futuri maestri (Louis Jouvet e Charles Dullin), nell'ammirazione stupefatta di decine e decine d'attori routiniers, l'idea, duplice e complementare, di 'vita comunitaria' e di 'comunione paritaria' del lavoro ha attecchito profondamente nel fragile e sempre smosso terreno della vita teatrale europea (v. Aliverti, 1997).
Il secondo dopoguerra ha segnato indubbiamente in Europa una forte ripresa delle attività artistiche, culturali e teatrali, che in quest'ultimo settore hanno visto l'ingresso, con una fisionomia di vero e proprio mecenate, dello Stato centrale e delle istituzioni pubbliche regionali, provinciali e cittadine. È dalla propulsione finanziaria della pubblica amministrazione che hanno preso sviluppo i teatri stabili in Italia (dal primo, e ancor oggi autorevole, Piccolo Teatro di Milano, istituito nel 1947), i centres dramatiques nationaux in Francia e gli Stadttheater in Germania. A queste protostrutture a capitale pubblico si sono poi affiancate, almeno nel nostro paese, varie altre strutture - a capitale misto pubblico e privato, a capitale privato - germinate dalle prime per filiazione, mentre si sono moltiplicate le forme di teatro sussidiarie come, per limitarci a un filone, i centri di produzione teatrale per la gioventù e l'infanzia (v. Sanguanini, 1989; v. Trezzini, 1991).
Questa grande rete di produzione teatrale (che in Italia giunge a conglobare oltre trecento formazioni, ovviamente di diversa fisionomia, struttura e creatività ) 'serve' circa l'ottanta per cento del pubblico, che potremmo definire 'tradizionale': e tradizionale è, fatte tutte le debite distinzioni, il prodotto scenico che tale rete offre (con un divario enorme, s'intende, a livello espressivo, tra lo spettacolo di un grande teatro pubblico nazionale e quello di una piccola compagine di provincia).Il restante venti per cento è fatto di ricerca e sperimentazione: e qui il modello che di nuovo si propone a questa ristretta area marginale e alternativa, in Italia come in Spagna, in Francia come in Inghilterra, è quello dell'istituzione 'comunitaria' e del lavoro collettivo e paritario. Tadeusz Kantor, Peter Brook, Jerzy Grotowski, Eugenio Barba, Ariane Mnouchkine, per limitarci a cinque nomi di strenui 'sperimentatori' a livello europeo, hanno, ognuno con forme del tutto peculiari, ripercorso le orme e realizzato le strutture di vita e ricerca che Jacques Copeau aveva per primo escogitato nella Francia degli anni venti (v. Cruciani, 1985). Scenografo e pittore polacco, nel 1955 Kantor fonda nella natia Varsavia, a quarant'anni, il Cricot 2, un 'laboratorio perenne' di artisti, attori, musicisti che, come eterni viandanti con le loro logore valigie, o sdoppiati in spettrali manichini che essi stessi recano sulle spalle, compiono un incessante e sfibrante itinerario nei meandri della memoria, tra amore e morte, come in un'esigua zona di confine. Dopo aver debuttato a diciannove anni, nel 1944, come regista di cinema e teatro nella natia Londra, Peter Brook si afferma molto rapidamente come il più originale interprete di Shakespeare della scena nazionale inglese: ma nel 1970 si installa a Parigi, in un teatro ferroviario abbandonato, il Bouffes du Nord, e vi fonda il Centro internazionale di ricerche teatrali, che aduna attori delle più disparate lingue e culture, tesi nello sforzo comune di ridare essenzialità al linguaggio scenico (v. Brook, 1987). Ancora un polacco, Jerzy Grotowski, installa a Wroclaw nel 1965 un suo Teatro Laboratorio, nel quale un gruppo stabile d'attori (da nove a undici) crea e studia al tempo stesso le nuove vie di un 'teatro povero', in cui il corpo e la voce dell'interprete si liberano da blocchi e stereotipi per ritrovare le pulsioni profonde della più intima, spesso inconfessata verità interiore (v. Grotowski, 1968). Un allievo di Grotowski, il salentino Eugenio Barba, dà una salda base di continuità e ricerca a un suo 'teatro laboratorio' (ancora una vera e propria comunità), l'Odin Teatret, radicato a Holstebro, in Danimarca, dal 1966, ma aperto, da allora a oggi, a esperienze di comunicazione antropologico-teatrale tra culture diverse, come quelle europee, quelle indioamericane, quelle cinesi e indiane (v. Barba, 1996). Nei magazzini abbandonati della Cartoucherie a Parigi, la francese Ariane Mnouchkine ha stabilito la sua 'collettività', il Théâtre du Soleil che, partendo dall'improvvisazione per giungere a un testo 'fissato' insieme, ambisce raccontare le grandi tappe della storia del mondo (la Rivoluzione francese, la guerra in Cambogia, la conquista della libertà in India), utilizzando ogni volta un diverso codice da teatro popolare: da quello della commedia dell'arte a quelli, così diversi tra loro, del giapponese kabuki o dell'indiano kathakali.
Il pubblico che segue quest'area del teatro europeo d'oggi, che è poi l'area della ricerca più creativa, della sperimentazione più fondata, è un pubblico "tutt'altro che passivo, [...] fortemente attivo anche se immobile, d'una attività multipla, sensoriale, emozionale e intellettuale. Riceve delle informazioni, le tritura, sceglie quello che gli interessa, focalizza ciò che lo colpisce, riceve degli choc estetici, ricostruisce delle visioni". Abbiamo citato una toccante definizione del pubblico odierno dovuta ad Anne Ubersfeld (v., 1996, p. 78). È questo il pubblico che potremmo definire della 'partecipazione', ma non è tutto il pubblico, è anzi una sua esigua minoranza: proprio come nei casi evocati delle élites protonovecentesche (v. Quadri, 1982 e 1984).
E l'altro pubblico, il pubblico maggioritario? Come è formato, come reagisce? Quali tipi di teatro segue? Da ricerche statistiche assai minuziose compiute in differenti paesi europei, sappiamo che è composto da esponenti della piccola e media borghesia, per il sessanta per cento di sesso femminile, i quali vantano un diploma di studi superiori (licenza o laurea), hanno un'età media che oscilla tra i trenta e i quarant'anni o tra i sessanta e i settanta, ed esercitano (o hanno esercitato) la professione di insegnante o quella di impiegato di aziende pubbliche e private. Quanto alle sue reazioni, "applaude molto volentieri, davanti ai primattori s'entusiasma addirittura, mentre manifesta il proprio dissenso con molto maggior misura, anzi con un eccesso di misura, a giudizio d'alcuni osservatori. Normalmente tace o, se s'annoia troppo, profitta dell'intervallo per andarsene" (v. Larthomas, 1985, pp. 78-79). Rispetto allo spettatore che si sente spiritualmente prossimo all'accadimento teatrale, che confessa ed esterna la propria partecipazione, razionale ed emotiva, o che - anche quando tace - è profondamente coinvolto, perché è come se gli avessero tolto il respiro, l'altro spettatore, semplicemente, 'assiste' allo spettacolo, pienamente soddisfatto della 'distanza' non solo fisica, ma anche mentale e affettiva, che lo separa da quel gioco illusorio da cui è, in fondo, solo intrattenuto. Egli non sarebbe disposto ad assumere un atteggiamento diverso da quello che lui stesso rivendica - falsamente - come percezione obiettiva dell'azione scenica (v. Giacché, 1991).
Curiosamente (ma non troppo), è da questo tipo di spettatore, e non certo da quello 'partecipante' e 'comunitario', che con allarmante regolarità viene denunciata la crisi attuale del teatro, sottoposto alle ricorrenti insidie concorrenziali del cinema - prima muto (dal 1895), poi parlato (dal 1927) -, della radiofonia (dal 1925), della drammaturgia televisiva (dalla metà degli anni cinquanta). In realtà, il nostro teatro contemporaneo ha sempre retto bene alla concorrenza duplice dello 'spettacolo a domicilio', parlato prima, visualizzato poi, e dalla musa consorella del cinema ha tratto una gran varietà di stimoli creativi: basti pensare alle nuove concezioni dello spazio e della luce. Ciò che semmai bisognerebbe strappare a questo teatro delle maggioranze è il suo connotato di 'consumazione', secondo la formula felicemente polemica di Jean-Paul Sartre, per restituirlo, in forme più aristocratiche e appartate, a una sua dimensione di ritualità, stavolta profana, in cui ogni emozione - per evocare una stupenda formula di Alfred de Vigny, all'atto della sua traduzione dell'Othello di Shakespeare da lui ribattezzato Le More de Venise - "sia come l'ultima, cioè la più viva e la più profonda". (V. anche Letteratura e società; Musica e società).
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