Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Nel corso del XIII secolo “miracoli” e “misteri” ampliano i luoghi della rappresentazione, uscendo dagli edifici sacri, e concedono alle singole culture nazionali l’uso della parlata volgare, soprattutto nella resa di situazioni realistiche, ambientate di solito nello spazio profano della taverna. Corporazioni cittadine organizzano in tutta Europa grandiosi spettacoli ciclici. Da episodio marginale del dramma sacro il teatro profano e popolare cresce e si emancipa. In Francia afferma la sua libertà inventiva con il “gioco” della Novella fronda che propizia una ripresa del gusto farsesco e satirico.
Pourette e Manchevarie
Courtois d’Arras
Pourette Signorino, bevete! Che Dio benedica i tuoi occhi! Quel che resterà sarà ancora più buono, se codesti denti e codesta bocca avranno sfiorato e toccato la nostra tazza. Già sembrate dei nostri. Bevete in questa tazza d’argento; questo calice è ancora intatto.
Cortese Ben volentieri, mia damigella; ché io non ho mai odiato le donne.
Pourette Ah! fratello, sedetevi dunque. Di dove siete?
Cortese Come vi chiamate?
Cortese Cortese, proprio cortese, mia dolce amica.
Pourette E infatti non sembrate villano; anzi credo in cuor mio e penso che in voi sia senno e cortesia. Oh! piacesse a San Remigio che io avessi un così bell’amico! Vi assicuro che né re né conte ottennero mai tanto coi loro averi quanto avreste voi senza muovere un dito. Dico il vero, dama Manchevaire?
Manchevaire Sì, certo, dama Pourette; ben sapreste pagargli il debito e dargli vesti e cavalli, purché si guardasse dal giocare. Qui non c’è bisogno di lunghi madrigali: voi due, Pourette e Cortese, stareste molto bene insieme.
Cortese Volete scherzare, Manchevaire! Benché ora io sia solo, non posso stare con tutte e due? Ma ritengo stolta chi crede ch’io parli a borsa vuota; qua dentro, invece, c’è qualcosa.
Manchevaire Cortese, qui non c’è inganno: conosco così bene lei e i suoi costumi che posso dirvi che vi ama d’amore. Non so se faccia cosa saggia, ma se volete avere un’amica, vi dico e vi assicuro che avete trovato la fortuna, una bella dama elegante e graziosa, ingegnosa e fina, che certo non vi ama per burla.
Cortese Lequet, versa il vino nella tazza, che non è di legno di tiglio né di pioppo. Berremo tutti e tre insieme, io, Manchevaire e Pourette, finché arriveremo alla fine, e poi ci sarà il conto da pagare.
Courtois d’Arras, Jeu du XIIe siècle, a cura di Edmond Faral, trad. redaz., Paris, Champion, 1922
Già un dramma sacro come il Ludus de Antichristo (XII sec.), nella sua ricerca di effetti spettacolari, finisce per fuoriuscire dalla chiesa allestendo sul sagrato, a stretto contatto con il pubblico, l’ambientazione scenica e il movimento degli attori. A partire dal XIII secolo all’ampliamento dello spazio corrisponde nel teatro religioso un uso sempre più frequente delle parlate volgari, progressivamente incrementato dall’omiletica – ossia dalla predicazione del clero – e dalle nascenti culture nazionali, sempre più indipendenti dal latino.
In area francese il primo documento in volgare anglo-normanno, il Jeu d’Adam, risale addirittura alla seconda metà del XII secolo e appartiene alla tipologia dei “misteri” (testi teatrali di argomento biblico). Lo spettacolo o rappresentazione (così il termine generico jeu da ludus) del Mistero d’Adamo colloca la scena della seduzione di Eva da parte di un diavolo galante – “Tu sei tenerella e gentil cosa; più di rosa sei fresca...” – in un paradiso terrestre disposto su un’edicola o palco addobbato che allo sguardo degli spettattori lascia visibili solo il busto dei protagonisti; a destra s’aprono invece le porte dell’inferno davanti alle quali confabulano i demoni.
Ma a segnare una pressoché definitiva emancipazione rispetto ai modi ancora paraliturgici del dramma sacro è il Jeu de Saint Nicolas di Jean Bodel, giullare d’Arras morto di peste attorno al 1210. In questo “miracolo” il prodigio dei furti sventati, celebrato dall’agiografia del santo, coinvolge un accampamento di Saraceni, il palazzo del re cristiano e un campo di battaglia, ma la partitura anima il suo piglio realistico soprattutto nella taverna, luogo deputato ai popolani, a malfattori e tagliaborse, ove san Nicola converte l’oste e gli stessi ladri del tesoro reale argomentando in questi termini: “Figli di puttana, siete tutti morti; già rizzate sono le forche; la vostra vita è ormai finita, se non ascoltate il mio consiglio”.
Ancora una taverna ospita le peripezie in volgare piccardo dell’anonimo Cortese d’Arras (1228) che sceneggia, bilanciando toni commossi e giocoso divertimento, la parabola del figliol prodigo. Prima di rientrare nella casa d’un padre ricco e comprensivo, il giovanotto afflitto dalla passione del gioco cede alle lusinghe d’una finta damigella in combutta con l’oste: “Abbiamo trovato un allocco, e io gli ho promesso di amarlo, ma prima penso di far ben calare la borsa ch’egli ha così ben fornita”.
Al colto Rutebeuf, giullare e autore satirico attivo nella Parigi di Luigi IX, si deve il Miracolo di Teofilo (1265 ca.) la cui vicenda sembra riflettere in forma autobiografica i dubbi, l’esasperazione e la rivolta contro le ingiustizie delle gerarchie ecclesiastiche. Dimesso d’ogni carica dal vescovo, l’umiliato Teofilo finisce per minacciare lo stesso Dio: “Ah! Chi lo potesse ora afferrare e battere a dovere [...] Dio mi ha colpito, io lo colpirò” poi, gonfio di risentimento, chiede l’aiuto d’un mago ebreo e questi lo mette in contatto col diavolo. In un vallone il protagonista accetta di abiurare la propria fede e di barattare l’anima per il successo mondano; il diavolo, da buon commerciante, pretende soltanto delle lettere di credito ben “suggellate”, poiché troppi lo hanno raggirato. Lo impegna quindi così: “Se qualcuno a te viene in umiltà, rendigli crudeltà e arroganza”. Ma il vescovo subitamente si ravvede e anche Teofilo entrando, nella cappella di Nostra Signora dà voce alla propria contrizione; nell’affrontare Satana, la Vergine materna va per le spicce; lui non vuole restituire la lettera e lei replica: “E io ti pesterò la pancia”. Il lieto fine prevede che il vescovo mostri in chiesa, a edificazione dei fedeli, l’insidioso contratto del diavolo.
Questo miracolo mariano inaugura un genere o sottogenere di grande successo nel Trecento: nel solo repertorio d’una confraternita parigina si contano ben 40 miracles – composti tra il 1339 e il 1382 – a testimonianza d’una devozione nella Madonna che, con grande sfoggio di apparati scenici, coinvolgeva l’intera città.
Con l’istituzione della festività del Corpus domini, nel 1311, prende corpo anche nei Paesi anglossassoni una produzione di testi in volgare, i cosiddetti miracle plays, che unifica “misteri” e “miracoli” in spettacoli all’aperto, spesso accompagnati da cortei processionali o pageants. Per suscitare e guidare una riflessione sull’intera vicenda di redenzione dell’umanità il rituale degli spettacoli viene affidato alle corporazioni cittadine – le guilds – che organizzano ciclicamente le rappresentazioni, a partire dal peccato originale sino all’Apocalisse. Il ciclo più antico, fra quelli documentati, appartiene alla città di Chester e comprende 25 testi risalenti al 1327; altri 48 testi compaiono nel corpus di York, del 1350 circa, movimentato da un vigoroso gusto realistico. Nei Paesi iberici il teatro volgare dell’Auto o representacion si sviluppa soprattutto sul tema natalizio dei Magi, ma la sua evoluzione tardiva resta bloccata per tutto il Trecento sulla struttura a un solo atto, poco differendo dagli schemi del dramma liturgico.
Patria del teatro comico e profano in volgare è ancora quell’Arras la cui intensa attività commerciale e artigianale, tra corporazioni laiche e confraternite devote, aveva sempre offerto un valido supporto economico alla cultura dello spettacolo.
Il teatro profano, circoscritto sino a ora agli episodi marginali del dramma sacro, trova il suo iniziatore in volgare piccardo grazie all’estro inventivo di Adam de La Halle. La sua Rappresentazione della novella fronda (Jeu de la Feuilée) inscena a divertimento del pubblico popolare un giocoso mondo di borghesi benpensanti, formalmente devoti ma gaudenti nella sostanza. In questa festa di maggio, che mescola personaggi veri a creature immaginarie e chiama la folla dei presenti a partecipare all’azione-evento, Adam presenta anzitutto se stesso: per lui è un momento cruciale – confessa agli amici e al padre – giacché ha deciso, intiepiditasi la passione maritale, di recarsi a Parigi per proseguire gli studi. Alla recita del suo disincanto erotico, dopo lo splendore della giovinezza (“adesso mi sembra pallida e sfiorita”) risponde la taccagneria del padre, diagnosticata questa da un medico che ben conosce l’avarizia degli abitanti di Arras, passati in rassegna uno a uno: il satirico elenco nominale è chiuso dal ghiottone Haloi, disposto a saziarsi di pesce marcio. I gonfiori di ventre dei concittadini ingordi chiamano in causa una tanto rinomata quanto ritinta Dame Douché, bersaglio di equivoche battute oscene nei suoi traffici fra le terribili donne di Arras e i loro remissivi mariti. Mentre Adam, con l’amico Richesse, è intento a imbandir mensa, appare un monaco imbonitore a offrir le reliquie di un santo che guarirebbero i dementi; ma viene fatto sgombrare perché tutti attendono l’arrivo della fata Morgana e del suo innamorato re Arlecchino.
Così entro il variegato tessuto drammaturgico – ove una sorta di “metateatro” cronachistico convive con le tradizionali confessioni pubbliche del carnevale – maestro Adamo approfitta della totale libertà compositiva della trama per sovrapporre ai motivi “realistici” dello spettacolo quelli fiabeschi della tradizione popolare. Adam de la Halle, sceso in Italia nel 1282 al seguito di Roberto d’Artois, si cimenta pure – presso la corte angioina di Napoli – in una composizione di carattere pastorale, il Jeu de Robin et Marion, e lo arricchisce di canzoni e musica inframmettendole alle schermaglie amorose di Marion, la maliziosa contadinella che si beffa delle proposte d’un cavaliere per restar fedele al suo Robin.
La cultura teatrale d’Arras, verso la fine del XIII secolo, propizia anche la cinica rappresentazione di Le Garçon et l’Aveugle, componimento che accenna al genere della farsa con il dinamismo d’un parlato becero e sarcastico; ne fa le spese un cieco che accattonando ha raccolto una fortuna ma ne è spogliato sulla scena da un giovinastro spudorato. Costui, in dialogo col pubblico, prima lo batte, poi lo cura applicandogli sulla mascella lo “sterco d’un bel pollo grasso” e lo deruba, infine, lasciandolo nudo e non senza togliersi il gusto di spifferarglielo in faccia.
Quanto alle origini della farsa, alcuni la fanno derivare dal sermon joieux, la dissacrante e liberatoria orazione comica pronunciata dal clero minore nelle feste dei folli; altri la ritengono intrinseca alla comicità delle pantomime giullaresche. La rapida serie di scene farsesche – i testi contano dai 300 agli 800 versi – nascerebbe quindi dalla stessa composizione giullaresca differenziandone le parti virtualmente contenute e moderandone gli eccessi gesticolanti. Sta di fatto che queste farse si ritrovano rappresentate – in alternativa a moralità o a edificanti allegorie – come intermezzi comici nelle pause tra le varie sequenze di “miracoli” e “misteri”.
Genere affine alla farsa è la sottie, componimento caratterizzato da polemiche e mordaci allusioni ad avvenimenti contemporanei, tanto da provocare frequenti interventi censori.