TEBU
. Popolazione sahariana divisa convenzionalmente in due grandi gruppi: 1. i Teda costituiti dagli abitanti del Tibesti, di parte del Borku e del Cauar e di cui alcune centinaia d'individui vivono nel Fezzan (oasi di el-Gatrún, el-Bachi, Medrusa e Tegerhi) e a Cufra; 2. i Dasa che gravitano nel Bornu, Bodele, Canem, Uadai e Bahr el-Ghazal.
I Tebu sono stati descritti con grande accuratezza da G. Nachtigal dalle cui ricerche appare che essi abbiano dominato durante una parte del Medioevo sui territorî situati fra il Fezzan e il bacino del Ciad e che debbono aver avuto una parte preponderante nella costituzione della prima dinastia bormana introducendo in essa l'uso del velo maschile. Quanto alla loro importanza numerica che, assieme agli Zagawa e Baele (popoli affini abitanti rispettivamente l'Uanianga e l'Ennedi) il Nachtigal riteneva superare di poco i 10.000 individui, è assai difficile il precisarla quanto all'epoca attuale: è probabile che tale cifra debba essere ridotta della metà o dei due terzi per avvicinarsi alla verità.
L'etnografia dei Tebu è poco conosciuta. Pare che nella loro lingua - che presenta molte affinità con quella Kanuri del Bornu - non esista un termine designante l'intera collettività. Le forme Tebu o Tùbu ("gente del Tu" o Tibesti) adottate dagli Europei, non sono usate dai Tebu stessi e poco anche da loro vicini. La loro cultura è tipicamente nomade: i loro mezzi di sussistenza essendo quasi esclusivamente ricavati dall'allevamento ovino e cammellino. Vi sono però alcuni gruppi (p. es., i Bardai del Tibesti) che praticano l'agricoltura e che sono ormai sedentarî.
L'abitazione Tebu è costituita da una capanna smontabile formata da un'armatura in stecche di legno legate assieme in modo da formare una struttura ellittica (a "canoa rovesciata" o a "botte") che viene quindi ricoperta da grandi stuoie intrecciate; questo tipo di capanna appare essere un' elemento culturale assai primitìvo, non africano e d'origine probabilmente asiatica. Nel passato i Tebu vivevano anche entro caverne, per lo più naturali.
Le vesti che, fino alla seconda metà del secolo XIX, erano in cuoio come lo sono all'epoca attuale quelle di alcuni gruppi del Borku e Bodele, oggi sono in cotone e si compongono, per quelle maschili, di due o tre tuniche senza maniche (generalmente tre: la gamascia, il tob e sopra queste il sarie), la prima bianca, le altre tinte in indaco o azzurro chiaro fabbricate nel Sudan, che vengono portate l'una sovrapposta all'altra. Delle larghe brache, dei sandali di tipo tuareg, un berrettino bianco o rosso e finalmente il ghebi (velo maschile simile al litham dei Tuareg) che copre il volto lasciando una stretta fessura per la vista, completano il costume. I Tebu sono meno scrupolosi dei Tuareg quanto a non togliersi mai il velo; per i colori (bianco, indaco o nero) i Tebu non fanno le stesse distinzioni dei Tuareg e, servi e nobili, usano indifferentemente ghebi bianchi o colorati.
Le donne portano un corto gonnellino, quindi si ravvolgono il corpo in una larga striscia di tela azzurra o nera, detta tebat, fermata ad una spalla e stretta alla vita da una caratteristica cintola in cuoio intrecciato.
Oltre a tatuarsi le labbra in azzurro cupo, le donne Tebu portano alla narice destra (come molte fezzanesi), un turaccioletto di vetro o corallo rosso o un'anellino d'argento.
Le Tebu amano ornarsi con numerosi gioielli d'argento, fra cui braccialetti, anelli da caviglie, e soprattutto con dei grandi anelli (alcuni dei quali formati da varî anelli di differenti dimensioni fissati l'uno dentro l'altro) che portano appesi ai capelli. Le meno abbienti si accontentano di braccialetti in legno nero del Sudan oppure in cuoio e perline di vetro policromo. Le danze delle tebu sono di tipo sudanese, però ogni danzatrice tiene nella mano destra uno speciale scacciamosche da danza, eseguito nel Boren con le fibre della palma dum. Lo strillerio con cui accompagnano i loro balli è uguale a quello delle fezzanesi.
Il vitto è prevalentemente composto da latticinî, da datteri e da rara carne ottenuta colla caccia. A volte usano farina di orzo e di grano acquistata dai sedentarî; un cibo a loro tipico è dato dai semi della coloquintide (Colocyntis vulgaris Schrad.) bolliti, scorticati e quindi seccati.
Le armi (oggi cadute in quasi completo disuso) erano una lancia (edi bui) metallica, un giavellotto (edi tenei) e una pugnale (loi) dalla lama a foglia di lauro, che si portava fissato al braccio sinistro mediante un braccialetto di cuoio. L'arma nazionale era però il coltello da getto (mučiri). Avevano anche una spada di tipo tuareg (akašu), poco usata, e uno scudo ovale in pelle d'antilope.
I metalli erano e sono esclusivamente lavorati da individui appartenenti a una classe inferiore detti Aza, rigorosamente endogami, simili ai mrallem (ar. haddad) dei Tuareg. Mentre l'arte del vasaio non è praticata dai Tebu, le loro donne sono abilissime ad intrecciare con foglie di palme cesti impermeabili destinati a contenere liquidi. Dai Bornu importano scodelle formate da mezze zucche elegantemente pirografate.
La famiglia, patriarcale, è generalmente monogama; ma molti carovanieri e nobili (maina) hanno una moglie per ogni centro abitato ove possiedono beni. La posizione della donna è simile a quella delle Tuareg.
Pur essendo convertiti all'islamismo, i Tebu conservano ancora numerose superstizioni d'origine pagana. Le cerimonie funebri seguono i riti musulmani; però sembra che fino a poco tempo fa usassero porre i defunti in posizione flessa, le ginocchia contro il mento, e ricoprirli con un tumulo di pietre alto da m. 1,50 a m. 2, simile alle bazinas preistoriche tanto comuni nel Sahara centrale.
Bibl.: G. Nachtigal, Sahărâ und Sudân, Berlino-Lipsia 1879-89; H. Carbou, La Région du Tchad et du Oudai, Parigi 1915; J. Ferrandi, Le Centre africain français, ivi 1930; C. Zoli, Il Fezzàn, Milano 1926; Governo della Tripolitania, Ufficio studî, Il Fezzàn, a cura di U. Gigliarelli ed altri, Tripoli 1932; Burthe (de) d'Annelet, À travers l'Afrique française, Parigi 1932; R. Biasutti, I Tebu secondo recenti indagini italiane, in Archivio per l'antropologia e l'etnologia, LXIII (1933); A. Mordini, Note etnografiche sul Sahara italiano, in Boll. della R. Soc. geogr. it., s. 6a, XII (1935).