Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Il legame tra tecnica e guerra è sempre stato molto stretto sin dall’antichità ma si manifesta in maniera più evidente nel corso del Novecento, quando il progresso tecnologico accelera i suoi ritmi. Tale relazione è sempre stata caratterizzata da un rapporto di reciprocità: da un lato è la tecnica che produce armi e strumenti di difesa per la guerra, dall’altro la guerra adotta e adatta alle proprie esigenze nuovi invenzioni e ritrovati tecnologici. La constatazione del rapporto tecnica/guerra ha poi generato anche riflessioni di carattere morale sulla finalità delle applicazioni tecniche e sul ruolo che essere giocano nell’ambito della società.
Tra civile e militare
Da sempre la tecnica è stata legata in modo molto stretto alla guerra: dagli artigiani che fornivano cannoni di bronzo agli eserciti medievali sino ai fisici che hanno messo a punto la bomba atomica nel 1945. Ma non si tratta affatto di un rapporto a senso unico che vede la tecnica come fornitrice di armi sempre più distruttive in seguito alla domanda che proviene da potenti o uomini di Stato. Da un lato, infatti, abbiamo svariati esempi di tecniche che, nate in ambito militare, si sono poi sviluppate all’interno di tecnologie già esistenti finendo per diventarne un elemento essenziale. Il caso del radar è significativo: sorto allo scopo di avvistare un nemico non chiaramente visibile, è stato in seguito utilizzato stabilmente nell’aviazione e nella navigazione commerciale. Stessa sorte e stesso passaggio dall’ambito militare a quello civile si sono verificati per il motore a reazione. Anche il settore delle telecomunicazioni ha sfruttato in alcuni casi scoperte avvenute in ambito militare: i satelliti, che dapprima erano serviti a controllare il nemico, sono stati impiegati in seguito per svariati usi civili, dalla televisione al monitoraggio del clima. Nel settore dei materiali sintetici, sono stati i programmi militari (insieme al programma spaziale) a fare da apripista nella ricerca di prodotti che fossero al tempo stesso leggeri e resistenti. Per non parlare dei potenti investimenti militari nelle linguistica applicata (per l’intercettazione automatica di conversazioni telefoniche e di messaggi internet a livello planetario) o nell’informatica, che si stanno traducendo in tecnologie di uso quotidiano.
Dall’altro lato, abbiamo molti casi in cui una invenzione oppure una innovazione già introdotta con successo è stata poi utilizzata in ambito militare: è accaduto al transistor e al laser. Per quanto riguarda il transistor, nel momento in cui esso fu realizzato (1947) nei laboratori Bell, era ben chiara la sua utilità commerciale, in quanto avrebbe preso il posto delle valvole termoioniche in apparecchi come la radio, e provocato così la riduzione delle dimensioni e del costo di quei mezzi. Al tempo stesso, era anche evidente che si trattava di un prodotto assai interessante per l’esercito: per questo si tardò a rendere pubblica l’invenzione, cosa che avvenne solo con il nulla osta militare. Al contrario l’invenzione del laser ha trovato applicazone nell’individuazione della giusta traettoria di bombe e missili, pur essendo stata effettuata per scopi puramente scientifici: d’altra parte, le applicazioni del laser in campi non previsti dagli inventori sono numerosissime e molto differenziate.
Dunque gli scambi fra tecnica e guerra sono reciproci e sono davvero innumerevoli: dal computer che, seppure nato in ambito accademico, è stato utilizzato per calcolare le tabelle di tiro ed è presente nel progetto SDI (Iniziativa di Difesa Strategica), meglio noto come Guerre Stellari, finalizzato alla realizzazione di uno scudo in grado di neutralizzare qualunque ordigno atomico; così l’industria chimica, nella quale dalla realizzazione di prodotti utilizzati nell’agricoltura è facile passare alle armi chimiche, alle ricerche di biotecnologia militare, ufficialmente abbandonate, ma di fatto perseguite nei laboratori segreti di molti Paesi. Si tratta di una relazione che è possibile ripercorrere dall’antichità fino a oggi attraverso la figura di Archimede; gli esperimenti con la polvere da sparo di Ruggero Bacone nel XIII secolo; i contributi dati alla scienza dell’artiglieria da Niccolò Tartagliain epoca moderna; le ardite proposte belliche di Leonardo da Vinci; il debito di Galileo Galilei nei confronti dei militari dell’Arsenale di Venezia e la sua trattazione dedicata alla traiettoria dei proiettili; il servizio del filosofo Cartesio in qualità di ingegnere militare per il principe di Orange; le guerre della Rivoluzione francese e di Napoleone che si avvalsero della scienza di Lazar Carnot; la macchina a vapore utilizzata in seguito sulle navi da guerra, le tecnologie del trasporto ferroviario, del telegrafo e dell’inscatolamento del cibo che hanno una parte centrale nei conflitti della seconda metà dell’Ottocento, o il telefono utilizzato a partire dalla prima guerra mondiale.
Le applicazioni militari: le riflessioni morali
Certo, il rapporto fra tecnica e guerra è diventato più problematico che mai nel momento in cui la tecnica e la guerra hanno mostrato tutto il loro potenziale distruttivo. Questo ha provocato una riflessione dai toni a volte moraleggianti, ma sempre finalizzata alla comprensione degli eventi storici: per alcuni questi accadimenti sono dimostrazione di una malvagità insita in ogni tecnica, di una componente distruttiva latente, capace di annientare la natura, l’uomo e la vita; per altri gli eventi sono la riprova della fragilità dell’essere umano una volta in possesso di strumenti tecnologici potenti; per altri ancora le esperienze del passato sono un monito alla istituzione di una politica che tuteli l’umanità da un uso sconsiderato della potenzialità distruttiva della tecnica. Questo genere di riflessioni ha percorso tutto il Novecento. A proposito delle armi chimiche usate per la prima volta durante la grande guerra (i gas tossici, seguiti nel 1936 dai gas nervini), il genetista John B.S. Haldane scrive nel 1923 che esse rappresentano bene l’evoluzione storica della tecnica: da libero gioco della mente, da costruzione disinteressata e magari inutile, essa si trasformava in strumento del potere, e dunque in arma di distruzione. Al male non poteva essere posto un limite: ed ecco gli strumenti di morte perfezionarsi e diventare ancora più perversi, invisibili e sottili. Il grande filosofo e tenace pacifista Bertrand Russell gli risponde l’anno seguente sottolineando da un lato che la crudeltà attrezzata tecnicamente evoca l’immagine della fine della civiltà, dall’altro che non occorre disperare, confinando nella istituzione di un governo mondiale in grado di limitare i danni ingenti se non mortali che la tecnica applicata alla distruzione del nemico era in grado di provocare a tutta l’umanità.
Anche la messa a punto della bomba atomica e il suo sganciamento su Hiroshima e Nagasaki nell’estate del 1945 hanno posto problemi di ordine politico, morale, scientifico. Era lecito usare un’arma di straordinaria potenza distruttiva per mettere fine a un’altrettanto straordinaria vicenda sanguinosa come lo sterminio nazista? Gli scienziati che avevano messo le loro capacità al servizio di un progetto di sterminio erano giustificati da una superiore necessità storica? E infine, quella stessa politica che aveva usato cinicamente l’arma atomica contro civili indifesi, aveva ragionato anche sulla regolamentazione di quell’arma spaventosa? Era possibile che la minaccia della bomba atomica (e dunque il conseguente equilibrio) fosse l’unico rimedio possibile al male che si era messo in moto?
Dell’interscambio tra guerra e tecnica alcuni storici della tecnica prendono atto e si interrogano sull’argomento. Manuel De Landa, per esempio in La guerra nell’era delle macchine intelligenti (1991) identifica nel militarismo il carattere originale della società contemporanea pervasa dalla tecnica. Di particolare interesse in questi ultimi decenni è, infatti, l’applicazione dell’intelligenza artificiale alle tecniche di guerra. Le nuove armi vedono infatti l’applicazione sistematica del computer. Dalla guerra del Golfo in poi sono state proprio le armi intelligenti le vere protagoniste dei conflitti a noi contemporanei.
Tuttavia c’è da dire che, accanto alle armi intelligenti, nei conflitti degli ultimi anni hanno svolto un ruolo di tutto rilievo elementi tradizionali, arcaici quasi, quali la guerriglia, il terrorismo (praticato anche attraverso l’intervento dei kamikaze), il combattimento a terra (distinto da quello aereo) che ha bisogno di controllo del territorio e di combattenti motivati, unitamente alla ricerca e all’acquisto di informazioni sul nemico che hanno sempre caratterizzato ogni guerra. Sono questi elementi, che nulla hanno a che fare con le armi intelligenti, che hanno fatto della Cecenia, dell’Afghanistan, dell’Iraq, territori non conquistabili completamente neppure da parte delle grandi potenze. Del resto, l’uso dei diserbanti chimici come arma offensiva non era riuscito a vincere neppure il Vietnam. Nello stesso testo De Landa sostiene inoltre che la guerra intelligente non sarebbe che il segno di un più generale trasferimento delle strutture cognitive dagli esseri umani alle macchine in atto nell’epoca attuale. Si tratta di uno spettro che ha accompagnato costantemente lo sviluppo della tecnica e che ha spinto a immaginare robot completamente autonomi dall’uomo e alla fine vittoriosi su un genere umano debole e finito. Qualora esistessero macchine capaci di intendere e di volere indipendentemente dal volere umano, ci si chiederebbe quale sarebbe il ruolo dell’uomo in una siffatta realtà. Tuttavia, l’ipotesi resta ancora del tutto remota, sebbene il trasferimento di competenze dall’uomo alla macchina è ormai una caratteristica del nostro vivere sociale fin da tempi remoti. La stessa combinazione tra “organico e meccanico” che tanto colpisce alcuni filosofi contemporanei è un tratto che ha accompagnato costantemente la storia umana e la storia delle tecniche, rendendo contemporaneamente la macchina protesi dell’uomo e l’uomo protesi della macchina. Si deve riconoscere che su argomenti di grande peso ma anche facili prede di altrettanto facili metafore non giova il contatto con alcune correnti di pensiero diffuse specialmente in Francia (Derrida, Deleuze, Guattari, Foucault). La cultura cyberpunk, che segnala opportunamente e in modo acuto alcuni grandi spostamenti in corso nella nostra epoca, trarrebbe forse giovamento dalla rilettura di alcuni classici: grandi filosofi come Francis Bacon avevano già segnalato in epoca moderna l’intreccio tra sapere e potere reso possibile e più pericoloso che mai dalla tecnica; la Scuola di Francoforte si è impegnata a lungo sul rapporto che esiste tra il dominio della natura reso possibile dalla tecnica moderna e il dominio dell’uomo sull’uomo, e ne ha fornito in Dialettica dell’illuminismo (Horkheimer e Adorno, 1947) un’interpretazione che è già un classico; alcuni esercizi di lettura di Latour – ad esempio quello sulla chiave di Berlino, oppure sugli apparecchi che chiudono automaticamente le porte, o infine sul dosso artificiale – mostrano in modo puntuale il modo in cui abbia luogo il trasferimento cognitivo in questione dall’uomo alla tecnica in oggetti tecnici banali come quelli citati.
Alcuni recenti filoni di studi sulla tecnica (dei quali Latour è uno degli esponenti), che non riguardano solo l’epoca contemporanea, mettono infatti in luce come la tecnica sia fatta della stessa sostanza della società. Questi studi affermano che la separazione di due entità che si chiamano “tecnica” e “società” è frutto della incomprensione che ci impedisce di vedere la tecnica quale è: nient’altro che azione sociale solidificata in pratiche, strumenti, macchine, congegni di ogni tipo ai quali si delegano veri e propri compiti sociali quali il normare, il controllare, il sanzionare e il punire comportamenti sbagliati. Se la tecnica deriva non solo dalla scienza pura, ma anche da richieste e bisogni sociali, e dall’intreccio fra interessi, valori, culture (come del resto tutto ciò che è umano), essa viene a essere costitutivamente composta della stessa materia della società. Forse riflessioni di questo tipo risultano meno eclatanti, ma sono di grande peso nella concezione che possiamo farci dei rapporti tra l’uomo e la tecnica, tra la tecnica e l’aggressività umana che si esplica nella guerra, e le domande che pongono sono assai impegnative.