Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Nel 1897 il grande chimico francese Marcelin Berthelot scrive: “Lo scienziato non cessa di aumentare il patrimonio e il capitale collettivo dei popoli”. Intende riferirsi all’impulso gnoseologico ed etico implicito nella scienza e al tempo stesso alla morale e insieme alle applicazioni pratiche delle conoscenze scientifiche, cioè al macchinismo industriale: la conoscenza scientifica si traduce in tecniche, e queste tecniche vengono impiegate nell’industria. Il risultato di tale processo è il miglioramento progressivo delle condizioni dell’umanità. Ingenuità positivista a parte, quello che Berthelot descrive è il rapporto che storicamente ha legato la scienza, la tecnica e l’industria dagli albori della rivoluzione industriale fino a oggi. Gli ultimi due secoli sono stati segnati da tre fasi successive, ciascuna caratterizzata da profondi cambiamenti nel rapporto tra scienze, tecniche e industria.
La storia segnata dal rapporto tra scienza tecnica e industria attraversa ben tre secoli e si articola in tre tappe fondamentali.
La prima tappa è quella della prima rivoluzione industriale, caratterizzata dalla macchina a vapore e dall’utilizzo dell’energia fornita dal carbone. Già in precedenza le macchine avevano fatto il loro ingresso nella produzione tessile a partire dall’invenzione della navetta volante di John Kay (1733) applicata al telaio a mano; in seguito, nel 1764, era stato inventato da James Hargreaves il filatoio meccanico intermittente (jenny), da Richard Arkwright nel 1770 il filatoio meccanico ad acqua (water-frame), da Samuel Crompton nel 1779 il filatoio sottile (mule-jenny). È solo con il filatoio meccanico di Arkwright, di difficile installazione e con un funzionamento che assorbe molta energia, che macchine e operai fino ad allora dispersi si riuniscono nella fabbrica dando luogo al prototipo della grande industria. A partire dal 1785 viene utilizzata la macchina a vapore realizzata da Matthew Boulton e James Watt. Tali sviluppi avvengono per lo più nelle province del Regno Unito, lontano dai centri di produzione di conoscenze scientifiche come la capitale, Londra, o le università scozzesi e inglesi.
La seconda tappa è quella della seconda rivoluzione industriale, caratterizzata dall’ingresso dell’elettricità nelle fabbriche. I primi trasformatori appaiono nel 1884, all’Esposizione di Torino: da questo momento, – come scrive Georges Friedmann in un testo classico sull’argomento, Problemi umani del macchinismo industriale (1946) – “L’elettricità può ormai essere trasportata, distribuita e utilizzata dalla selva di macchine che alimenta. La macchina termica, così sfidata, reagisce perfezionandosi con la valvola frazionata, col surriscaldamento a vapore, con le turbine”. Se si aggiungono a questi due fatti fondamentali la forte penetrazione – dalla quale tanto si riprometteva Berthelot – della chimica nell’industria e nell’agricoltura, la crescente automatizzazione delle macchine utilizzate nei più diversi opifici e la progressiva industrializzazione dell’agricoltura, si hanno gli elementi essenziali per caratterizzare tecnicamente nelle sue grandi linee un nuovo periodo che si presenta con una fisionomia ben distinta, quella appunto della seconda rivoluzione industriale. In questa fase nasce anche l’automazione, quando le azioni dell’operaio vengono sostituite da ruote dentate, ingranaggi, alberi metallici: si utilizzano nuove forme di energia e dispositivi raffinati (contatti elettrici, cellule fotoelettriche). Nell’industria chimica, ad esempio, il lavoro dell’operaio ha ben poco a che fare con il dispendio di energia muscolare, ma consiste solo nel controllare apparecchi che misurano la pressione, la densità o la temperatura dei prodotti in lavorazione.
L’automatismo nel settore industriale riguarda inizialmente l’aspetto cinematico, poi quello elettrico o fotoelettrico, e infine quello informatico, che introduce alla terza tappa, che è ancora in corso. Essa ha preso avvio negli anni Settanta del Novecento. È caratterizzata dallo sviluppo di tre settori: informatica, telematica, biotecnologie. In questa fase il coinvolgimento della scienza è massiccio, ma si tratta di una scienza indubbiamente diversa dal passato. La ricerca viene condotta in grandi laboratori, essi stessi strutturati secondo logiche produttive e finanziarie tipiche della grande industria. Inoltre, per quel che concerne le biotecnologie, la ricerca scientifica dà vita a processi industrali e tecnologici che investono direttamente la sfera biologica.
Già nel Settecento la divisione del lavoro è secondo Adam Smith (autore di Ricerca sulla natura e sulle cause della ricchezza delle nazioni, 1776, di cui è celebre la pagina in cui descrive le 18 diverse operazioni che sono necessarie per fabbricare uno spillo) caratteristica di uno stadio avanzato della civiltà ed è la causa di un importante incremento di produzione. Tale aumento della produzione si deve alla destrezza affinata in ogni operaio, al risparmio di tempo, all’“invenzione di un gran numero di macchine, che facilitano e abbreviano il lavoro, e abilitano l’uomo a fare l’opera di molti”. Smith attribuisce l’invenzione delle macchine agli stessi operai che cercano di semplificare, rendere più veloce e meno faticoso il lavoro che svolgono.
Andrew Ure descrive nel 1835 in Philosophy of Manufactures quella che viene definita fabbrica “automatica” e che organizza attorno alle macchine azionate dal vapore un lavoro che deve essere regolare identificandosi “con l’invariabile regolarità del grande automa”. Il sistema automatico sostituisce sistematicamente la macchina alla manodopera. Ure vede realizzarsi in questo adattamento alla macchina che si rende necessario l’armonia tra le forze del lavoro e il superamento della ripetitività dei compiti, che attribuisce proprio alla divisione del lavoro alla quale si riferiva Smith. Scrive: “In quei vasti opifici, la benefica potenza del vapore chiama attorno a sé le migliaia dei suoi sudditi, e assegna a ciascuno il suo compito, sostituendo ai loro penosi sforzi muscolari l’energia del gigantesco suo braccio, e non domandando da loro in compenso altro che l’attenzione e la destrezza opportune per correggere i lievi errori che qualche volta trascorrono nel suo lavoro”.
Ne Il capitale Marx considererà Ure “il Pindaro della fabbrica automatica” e la sua descrizione del lavoro di fabbrica completamente falsa. Afferma: “Nella manifattura e nell’artigianato l’operaio si serve dello strumento, nella fabbrica è l’operaio che serve la macchina. Là dall’operaio parte il movimento del mezzo di lavoro, il cui movimento qui egli deve seguire. Nella manifattura gli operai costituiscono le articolazioni di un meccanismo vivente”.
Nell’industria di inizio Novecento viene introdotto e si diffonde lo scientific management ideato dall’ingegnere americano Frederick Winslow Taylor (un suo volume con questo titolo esce nel 1911) allo scopo di ottenere dagli operai e dalle macchine la massima efficienza possibile grazie all’analisi dei movimenti necessari a svolgere un lavoro e al cronometraggio di ogni gesto o funzione. Il taylorismo analizza e misura i movimenti compiuti dall’operaio cronometrandoli, e scompone il lavoro necessario a compiere un’operazione in frammenti, che corrispondono a tempi parziali. Questa analisi dà luogo all’one best way: c’è un solo modo per svolgere un’operazione e l’operaio deve attenervisi scrupolosamente. La razionalizzazione taylorista della produzione industriale affascina economisti e artisti, politici e filosofi. Dittatori di destra e di sinistra, da Mussolini a Stalin, cercano di adottare i processi di ottimizzazione della produzione messi in opera nelle grandi fabbriche di automobili Ford e in genere nell’industria americana.
Fra le due guerre mondiali nell’industria viene applicato il lavoro a catena che nasce dall’esigenza di ottimizzare i tempi trasportando automaticamente mediante nastri, catene, piani inclinati, i singoli pezzi da lavorare da un operaio all’altro, da una sezione all’altra della fabbrica. Scrive ancora Friedmann: “Le catene di raccolta delle officine Ford, in cui il lavoro è spezzettato in un nugolo di operazioni elementari, sono state spesso descritte. Nel 1929, per il solo montaggio di uno châssis, si contavano 45 operazioni. L’operaio che colloca un pezzo non lo fissa; quello che colloca un bullone non applica il dado; a volte perfino chi applica il dado e chi lo avvita sono due operatori diversi”. La razionalizzazione produttiva si basa sui convettori di montaggio e trasporto, che sono applicati in ogni tipo di industria. In Francia, negli anni Trenta, la fabbrica di automobili Renault affida alle riprese cinematografiche l’analisi del processo produttivo, e si pensa di introdurre livelli più sofisticati di automatizzazione.
Nell’epoca attuale della globalizzazione la divisione del lavoro sembra realizzarsi in modo transnazionale: da una parte il Terzo Mondo con la produzione dei beni, dall’altra il mondo sviluppato con i marchi, la pubblicità, la commercializzazione di quegli stessi beni, e la ricerca di base e lo studio dell’innovazione tecnologica. In tempi recentissimi, la produzione di programmi informatici innovativi comincia a sfuggire, per ragioni economiche legate alla globalizzazione, al controllo monopolistico delle potenze industriali. L’India in particolare, seguita dalla Cina, ha intrapreso la strada dell’innovazione informatica applicata a diversi settori dell’economia.
Il legame creatosi nell’industrialismo fra scienza, tecnica e produzione è stato giudicato in modo positivo o negativo, dando così vita a tradizioni di pensiero che ancora oggi sono ben riconoscibili. Spesso è stato l’elemento della tecnica – incarnata nelle macchine – che ha catalizzato l’attenzione. Carlo Cattaneo fu fra coloro che apprezzavano sia la civiltà industriale sia i singoli elementi che la compongono e che rendono anche la scienza più astratta utile all’uomo. Adottando una concezione della scienza come forza in grado di realizzare progetti, di trasformare il mondo e anche di procurare la grandezza di uno Stato, egli innalzava a metà Ottocento un peana alla fisica che, grazie alla corrente voltiana, è stata capace di creare l’alluminio, e alle nuove scienze che avevano permesso all’uomo di muoversi sul globo terrestre con inaudita facilità, a quell’autentico miracolo rappresentato dal telegrafo elettrico “le cui fila avvolgono già l’Europa e l’America e si protendono sul fondo dei mari” (1860).
Fra coloro che invece giudicano l’industrialismo una fase di decadenza nella storia dell’umanità e, in particolare, il processo di meccanizzazione come destinato a condurre a un mondo debole, anzi a un mondo abitato da deboli, troviamo un George Orwell forse meno noto, ma assai efficace: la forza fisica non sarebbe più necessaria in un mondo in cui le macchine si assumessero tutta la fatica, e così dolore, sofferenza, difficoltà, sarebbero del tutto aboliti. L’uomo vedrebbe atrofizzarsi tutti i suoi organi, e di lui resterebbe solo un “cervello sotto spirito”. Enunciando in maniera assolutamente compresibile una tesi condivisa da molti filosofi, Orwell afferma in The Road to Wigan Pier (1937): “È chiaro che il processo di meccanizzazione si svolge senza controllo. Esso si verifica semplicemente perché l’umanità ne ha preso l’abitudine. Un chimico perfeziona un nuovo metodo di sintetizzare la gomma, o un meccanico escogita un tipo nuovo di perno di stantuffo. Perché? Non per uno scopo chiaramente inteso, ma semplicemente per l’impulso di inventare e migliorare, divenuto ormai istintivo. Mettete un pacifista a lavorare in una fabbrica di bombe e in due mesi egli avrà ideato un nuovo tipo di bomba”. In realtà, ciò che Orwell attribuisce a una tendenza della natura umana, risponde a trasformazioni profonde dei sistemi produttivi e del loro rapporto alla ricerca scientifica e allo sviluppo tecnologico. Già a partire dalla prima guerra mondiale forti investimenti pubblici hanno permesso a grandi industrie chimiche e farmaceutiche di sperimentare non soltanto nuovi prodotti distruttivi, primi tra tutti i gas venefici, ma anche nuove forme di intensa capitalizzazione della produzione. A partire dalla seconda guerra mondiale, massicci investimenti per la difesa vedono nascere nuove forme di alleanza tra Stato, ricerca scientifica, sviluppo tecnologico e produzione industriale. Parti rilevanti del prodotto interno lordo di grandi potenze economiche come gli Stati Uniti, l’Unione Sovietica sino al crollo del muro di Berlino, la Francia o l’Inghilterra vengono investite – direttamente o indirettamente – per sostenere imprese ad alta tecnologia e permettere loro di sviluppare prodotti utili per gli interessi strategici dello Stato nazionale. Se da un lato si predica a gran voce il credo del liberalismo anti-statalistico, di fatto gli Stati intervengono massicciamente nell’economia tramite il sostegno alla ricerca di base e allo sviluppo tecnologico, mettendo a disposizione dell’industria privata o semi-privata gli ingenti capitali che l’innovazione sempre richiede. Se negli Stati Uniti sono le commesse legate ai progetti di difesa ad approvisionare interi settori dell’industria privata, in Paesi come la Francia settori importanti dell’industria, come le imprese legate all’aerospaziale, beneficiano di importanti investimenti in ricerca affidati ad enti governativi, i cui risultati sono messi a disposizione delle imprese.
Nella ricerca contemporanea, altissimo è il numero degli attori che giocano un ruolo nelle sorti di laboratori, progetti, carriere individuali o persino di intere discipline. Finanziatori e operatori di Borsa, industriali, politici e militari assumono un ruolo chiave nell’impresa dell’innovazione scientifica e tecnologica dei Paesi più sviluppati. Lo scienziato geniale e isolato, dedito alla ricerca della pura verità, indifferente alle tecniche e alle applicazioni delle proprie scoperte, rappresentato spesso dall’iconografia di Einstein, appare ormai il protagonista di un passato irripetibile e lontano.