Tecnica
di Jacques Ellul
Tecnica
sommario: 1. Il concetto di tecnica. 2. La tecnica come ambiente. 3. La tecnica in quanto sistema. 4. La tecnica in quanto mito. 5. La prevedibilità della tecnica. 6. Lo svuotamento del politico. 7. Svuotamento dell'uomo? 8. Vere e false inquietudini. 9. Tentativi di risposta. □ Bibliografia.
1. Il concetto di tecnica
La prima difficoltà che dobbiamo affrontare è di ordine metodologico. Prendendo in esame il mondo in cui viviamo, vi scorgiamo svariati oggetti di consumo, alla cui produzione hanno contribuito industrie, metodi di organizzazione, di marketing, di manipolazione, strumenti meccanici o elettronici, macchine molteplici in funzione attorno a noi sia per fornirci servizi sia per produrre oggetti; ma in nessun luogo incontriamo ‛la tecnica'.
Da questo stato di cose derivano due diversi atteggiamenti intellettuali. Per gli uni, il nostro universo sarebbe rimasto quello di sempre, con la semplice aggiunta di quegli oggetti e di quei metodi; ci si limita alla constatazione che prodotti e apparecchi tecnici sono molteplici e invadenti. Per gli altri, tutto ciò costituisce invece una notevolissima modificazione del nostro universo, senza tuttavia comportare la costituzione di un sistema o di un ambiente nuovi, poiché i risultati delle scienze sono talmente scoordinati e lacunosi che è impossibile considerarli come un insieme unitario. Per gli uni come per gli altri la tecnica non esiste; al massimo, esistono ‛delle' cose tecniche. Di conseguenza, coloro che parlano della tecnica vengono accusati di costruire artificiosamente un mostro spaventoso, o una panacea universale, che esiste solo nelle loro teste. Sarebbe dunque vano ragionare sulla tecnica, trattandosi di una parola perfettamente vuota di significato.
È evidente che, se ci si limita all'osservazione pura e semplice dei fenomeni senza alcuna elaborazione intellettuale, un simile atteggiamento è inevitabile. Esso è l'analogo della celebre formulazione di quel biologo del XIX secolo, che dichiarava: ‟L'anima, non so cosa sia, non l'ho mai incontrata sotto i ferri". Per essere coerente, egli avrebbe tuttavia dovuto spingersi oltre e affermare: ‟Un corpo vivo, non so cosa sia, perché ho avuto a che fare solo con nervi, muscoli, tessuti, organi, e nulla, assolutamente nulla mi ha mai indicato che essi siano legati reciprocamente in modo necessario. La constatazione di un fatto puro e semplice mi impedisce di analizzare le relazioni, che non sono mai di per sé evidenti, ma sempre e solo ipotizzate.
Ci troviamo inoltre dinanzi l'obiezione del nominalismo: il termine ‛tecnica' è bensì utile e comodo (una convenzione ci consente di capirci quando lo usiamo), ma a esso non corrisponde alcuna realtà. È nota la fondatissima osservazione dei nominalisti: ‟Incontro ovunque dei cavalli, ma non ho mai incontrato la cavallinità". Il concetto generale è una categoria inventata dall'uomo per comodità, ma non si può, partendo dal concetto, pretendere di analizzare, per esempio, i caratteri dell'umanità e formularne i doveri, dal momento che l'‛umanità' non esiste, è solo una convenzione. Questa impostazione naturalmente ha il grande merito e vantaggio di ricordarci i limiti propri della creazione di un termine, e più ancora l'impossibilità di fornire definizioni generali e assolute di un oggetto di cui si affermi l'esistenza in sé. Chi ha affermato che l'umanità esiste in sé si è imbarcato in definizioni dogmatiche e moralistiche.
Ora, se si vuol studiare un dato problema, l'unico atteggiamento giusto mi sembra quello di porsi nella stessa prospettiva degli uomini che hanno affrontato l'argomento, senza imporre loro una definizione dogmatica. Se, per esempio, ci si vuole occupare di filosofia del diritto, bisogna partire dall'ammissione che dieci civiltà diverse hanno fornito dieci definizioni diverse del diritto, e bisogna accettare il fatto che ‛tutto' ciò che gli uomini - nei loro ambienti, nelle loro culture, nelle loro organizzazioni - hanno designato come diritto appartenga effettivamente al diritto. Non posso cominciare dichiarando: ‟Il diritto è questo", e seguitare affermando che ciò che gli Uroni o i Persiani o i nazisti o gli stalinisti hanno chiamato ‛diritto' non lo era affatto. Un tale atteggiamento manca di serietà. Per quanto riguarda i fenomeni storici, iscritti in culture molteplici, devo dunque accettare il relativismo nominalista e partire dall'insieme di esperienze che si esprimono in una unica parola il cui contenuto varia secondo le epoche e i luoghi; ma, ciò posto, posso forse concluderne che il diritto non esiste?
La situazione è un po' differente quando ci troviamo alla presenza di un fenomeno il cui svolgimento è impossibile indagare nella continuità del corso storico. In tal caso non possiamo fare riferimento a ciò che uomini vissuti in culture diverse hanno designato con lo stesso nome, o perché il fatto non esisteva, o perché era secondario, o perché ai loro occhi appariva di scarso interesse. È proprio questo il caso della tecnica. Dobbiamo allora rinunciare a formulare un concetto? Se cosi fosse, l'approccio alla questione muterebbe radicalmente. Dobbiamo però ricordare anzitutto fino a qual punto l'elaborazione di un concetto sia stata sempre necessaria per l'umanità; si pensi per esempio al concetto di ‛natura'. È del tutto evidente che non esiste un oggetto chiamato ‛natura'. È lecito affermare che si tratta solo di un concetto astratto. Tuttavia la conoscenza è divenuta possibile proprio a partire dal momento in cui è stato elaborato questo concetto (con definizioni e prospettive certamente differenti, ma tutte e sempre tendenti a precisarlo). In realtà, tutta la scienza moderna poggia sulla base incerta e fragile del concetto di natura; se l'uomo si fosse limitato a constatare l'esistenza qui di una sorgente, lì di un albero, in alto di nuvole e laggiù di una collina, se cioè fosse vissuto in un universo composto di frammenti incoerenti, non sarebbe mai emerso in quanto uomo. L'uomo ha cominciato a capire e, in seguito, ad agire in modo efficace sugli elementi naturali, proprio dal momento in cui ha stabilito relazioni di per sé non evidenti fra cose in apparenza prive di connessioni, e ha tentato di generalizzare tali relazioni, di comprenderle e di organizzarle in sistema per poterle infine concettualizzare sotto il nome di natura. A questo punto si è evidentemente compiuta un'operazione intellettuale il cui risultato è qualcosa che non esiste in quanto dato, ma che è indispensabile per poter successivamente comprendere il dato e agire su di esso. L'errore sarebbe di credere che esista da qualche parte e in sé un'orgarnzzazione chiamata natura, con la conseguenza, per esempio, di ritenere che esistano leggi obiettive della natura iscritte nel cielo dell'eternità. È invece chiaro che soltanto l'elaborazione del concetto di natura ci consente di formulare le leggi secondo cui si svolgono i fatti.
Parlando ora di tecnica, dunque, non pretendiamo affatto che esista un'entità misteriosa, di cui saremmo in grado di scorgere solo quei frammenti, effetti e apparenze costituiti dalle macchine, dagli oggetti di consumo, ecc. È ovvio che la tecnica è un concetto elaborato a partire dall'osservazione dei fenomeni tecnici; l'unico problema è di sapere se esistano o no relazioni, per esempio, fra l'automobile e l'organizzazione del lavoro o tra la vaccinazione e i moderni metodi agricoli; in secondo luogo, se sia possibile generalizzare queste relazioni fino a considerarle come degli insiemi; infine, se sia possibile sussumere il tutto sotto un concetto. È stato proprio questo il nostro modo di procedere: abbiamo cioè elaborato un concetto di tecnica, cercando di renderlo sempre più operativo. La cosa ci è sembrata indispensabile per orientarci in questo universo di macchine, di metodi, di organizzazioni, di procedimenti, di processi, di strumenti. Senza un concetto che ci consenta di individuare le leggi di organizzazione e di sviluppo di questo universo, saremmo del tutto impotenti a comprenderlo e a modificarlo. Bisogna comunque ricordarsi che la tecnica è sempre unicamente mezzo o insieme di mezzi, posti in correlazione gli uni con gli altri e caratterizzati innanzitutto dalla ricerca dell'efficacia.
È evidente che nell'organizzazione tecnica non vi è alcuna teleonomia. Non esiste ricerca di un fine, se si escludono obiettivi a breve termine e sempre parziali. Il metro comune di ogni iniziativa tecnica è costituito dall'accrescimento di potenza e i mezzi possono essere caratterizzati come mezzi tecnici quando aumentano la nostra potenza. Per questo motivo è artificiosa la distinzione tra, per esempio, i mezzi che creano energia e quelli che la consumano, visto che anche quelli che consumano energia sono creatori di potenza. La storia della tecnica non è scandita soltanto dalla sequenza ‛carbone-elettricità-petrolio'; il calcolatore ne costituisce una fase altrettanto importante! In tutti i casi, ogni tecnica (organizzativa, psicologica, ecc.) è creatrice di potenza, e di conseguenza esprime sempre un certo spirito di dominio e di utilizzazione delle cose e delle persone; senza un tale spirito non vi sarebbe alcuna tecnica. Ora, a partire dal momento in cui è possibile scoprire da un lato correlazioni e dall'altro caratteri comuni fra fenomeni a prima vista non collegati, diviene evidentemente legittima, ai fini di una miglior comprensione dell'insieme dei fenomeni, l'elaborazione di un concetto. Il solo problema che potrebbe sussistere è il seguente perché l'umanità ha atteso tanto a lungo prima di procedere a una siffatta elaborazione? Non basta rispondere che i fenomeni tecnici si sono enormemente sviluppati e sono divenuti invadenti ed evidenti. Questo è certo importante, ma bisogna anche ammettere che gli uomini hanno saputo creare dei concetti a partire da osservazioni assai minute, spesso riguardanti oggetti di presenza tutt'altro che schiacciante.
In realtà il presupposto del fiorire delle tecniche è una trasformazione mentale. Si è passati dall'operazione tecnica al fenomeno tecnico. L'uomo ha sempre utilizzato tecniche talvolta anche notevoli, ma sempre in modo subordinato e meramente pragmatico. La trasformazione essenziale che avviene in Occidente a partire dal XV secolo, e soprattutto dal XVIII, consiste per un verso nell'applicazione di una certa razionalità e per un altro nella presa di coscienza dei risultati conseguibili per questa via. Le tecniche concrete, in questa prospettiva, sono prese in considerazione in base alla loro efficienza e la razionalità applicata a tali tecniche avrà per effetto di orientarle verso un'efficacia calcolata in anticipo. Al tempo stesso, si prende coscienza delle possibilità, vale a dire che non ci si accontenta più di miglioramenti empirici: si fanno progetti di applicazioni possibili e sempre nuove. Il processo è grandemente accelerato dal confronto: per compiere una certa operazione non ci si accontenterà più di migliorare il procedimento fino a quel momento utilizzato, ma si cercheranno i procedimenti impiegati in altri paesi, presso altri fabbricanti, e si confronteranno tanto i mezzi quanto i risultati per scegliere la via migliore; è a questa trasformazione che si deve il passaggio dall'operazione tecnica al fenomeno tecnico. Bisogna sottolineare che qui ci troviamo di fronte a operazioni mentali che implicano già un mettere le tecniche in relazione le une con le altre; anzi, proprio questa ‛messa in relazione' è all'origine dello sviluppo delle tecniche: non è infatti esatto che a partire dal XVI secolo esse si siano sviluppate indipendentemente le une dalle altre. Dunque la visione che ci viene proposta - di un mondo moderno pieno di auto, di altiforni, di aeroplani, da considerare come una ‛collezione' di oggetti senza un nesso di base - è falsa nel suo stesso principio. Il fatto di stabilire correlazioni tra le tecniche per giungere al concetto di tecnica non costituisce affatto, di conseguenza, un'operazione artificiosa e fallace; è invece proprio la continuazione del processo che ha condotto dall'operazione tecnica al ‛fenomeno tecnico'. L'individuazione di correlazioni corrisponde dunque alla crescita della tecnica: il concetto è implicito nel fenomeno. Di più, senza voler troppo insistere sul passaggio dal quantitativo al qualitativo, bisogna pur osservare che la semplice proliferazione delle tecniche e degli oggetti tecnici produce un completo mutamento della situazione. Ritengo che la novità possa essere considerata da due punti di vista. In primo luogo vi è una sorta di invasione del mondo cui eravamo abituati, un'invasione del ‛creato' mediante strumenti d'intervento che permettono di modificarlo completamente, con una duplice conseguenza da un lato la sottomissione degli ‛esistenti' (che non possono resistere all'impatto e alla capacità di trasformazione delle tecniche e sono costretti a piegarsi completamente alla volontà tecnica), dall'altro, la riduzione degli esistenti alla loro semplice possibilità di utilizzazione, che è in conclusione l'unico problema che si ponga nei loro riguardi. Impiego di proposito il termine di ‛esistente', comprensivo e vago, perché la tecnica non si limita mai a un solo campo d'intervento. Il secondo punto di vista è dato dalla novità della situazione rispetto a tutto ciò che abbiamo conosciuto nella storia. Senza entrare nei dettagli (e non voglio insistere sui noti luoghi comuni del tipo ‟Vi sono state più invenzioni scientifiche in mezzo secolo che durante cinquantamila anni di storia", perché sono frasi che non vogliono dire niente), possiamo riassumere tale novità dicendo che siamo passati da un fenomeno ‛straordinario' (la tecnica come possibilità per l'uomo di dominare la natura costituiva un elemento fuori dall'ordinario) a un fenomeno ‛tipico', anzi un fenomeno che meglio di ogni altro caratterizza la totalità della nostra condizione attuale. Questo duplice mutamento esige, a mio parere, l'elaborazione di uno strumento intellettuale che permetta di cogliere esattamente la realtà, esige cioè anzitutto l'elaborazione di un concetto.
2. La tecnica come ambiente
Abbiamo definito la tecnica ‛mezzo', ‛insieme di mezzi' e ‛mediatrice'. Ma, come ha giustamente notato G. Friedmann, si tratta di una tecnica che ha superato lo stadio in cui si componeva di un insieme di strumenti che l'uomo utilizzava secondo la propria volontà, per divenire l'ambiente stesso in cui l'uomo si muove. L'operaio che lavora non ha più alcun contatto diretto con il materiale lo manipola solo attraverso la macchina; e nemmeno ha bisogno di conoscere i caratteri peculiari di tale materiale la macchina permette di fare tutto, ed egli ha bisogno in primo luogo di conoscere la macchina. Ma la distanza viene poi accentuata dal fatto che la macchina stessa tende a essere integrata in un insieme automatizzato; è dunque il meccanismo regolatore dell'automazione che bisogna controllare e conoscere. C'è di più: l'operaio lavora in un ‛collettivo' di macchine; l'universo della fabbrica lo circonda da ogni parte e costituisce realmente il suo ambiente. Tale condizione operaia, ben nota, è tuttavia semplicemente tipica; in realtà è la condizione di tutti noi, almeno nel mondo urbano. Del resto, il mondo contadino sembra destinato più o meno a scomparire, a meno di una fortissima reazione di difesa, di un'attenuazione del valore attribuito alle tecniche e di sacrifici notevolissimi, necessari per ‛salvare' l'ambiente naturale.
Il mondo urbano è innanzitutto un mondo tecnico, dove noi siamo completamente attorniati da prodotti della tecnica: strade, metrò, cinema, edifici, ecc. In esso ritroviamo, portati all'estremo, tutti i vantaggi e tutti gli inconvenienti della tecnica; in esso vengono a concentrarsi tutti i mezzi tecnici; in esso, infine, l'uomo non s'imbatte praticamente più in alcuna cosa che non appartenga alla tecnica. Di conseguenza la tecnica è diventata realmente, per l'uomo che vive in città, il suo ambiente. Bisogna tuttavia andare ancora oltre: la tecnica in quanto mezzo è diventata mediatrice generale tra l'uomo e tutto il resto, fra l'uomo e ciò che si è convenuto chiamare natura, fra l'uomo e la società, fra l'uomo e gli altri. Ogni tecnica ha da sempre costituito una protezione contro l'ambiente naturale la casa e gli abiti erano una sorta di baluardo, dunque di schermo, tra l'uomo e l'ambiente naturale con i suoi pericoli e le sue avversità. La tecnica fungeva inoltre da intermediario nei confronti e dell'ambiente in quanto mezzo d'azione su di esso (si pensi alle tecniche di caccia e di pesca); ma, finché era solo sporadica, tale funzione rimaneva limitata ad alcuni luoghi e ad alcune attività. Nel mondo moderno è divenuta invece lo schermo generale e un sistema compiuto di strumenti d'azione. L'uomo non ha più alcun contatto o relazione diretti con la natura tutto deve passare attraverso la mediazione della tecnica.
Esiste un allontanamento concreto, geografico, dell'uomo dalla natura in un'area di conurbazione ci vogliono ore di macchina per raggiungere frammenti più o meno sparsi di natura; d'altro canto l'occupazione sempre più intensa del suolo fa sì che la natura cessi di essere se stessa, poiché insorge uno squilibrio evidente tra la quantità di occupanti e la possibilità di preservare l'ambiente naturale. A questi fatti bisogna aggiungere la questione dell'appropriazione privata di aree naturali sempre più vaste per fini che non sono quelli di un ‛uso' equilibrato, come fu nel caso dei contadini. È vero d'altra parte che la socializzazione, l'appropriazione da parte dello Stato, non costituiscono garanzie: l'intervento dei poteri pubblici sulla natura, magari per proteggerla e istituire parchi nazionali, è regolarmente catastrofico. Senza voler qui approfondire il problema, appare tuttavia chiaro che nelle zone urbane i poteri pubblici danno la priorità all'automobile (esigenze di parcheggio e di circolazione) su ogni altra cosa; in tutte le città francesi assistiamo in particolare alla rapida eliminazione di ogni spazio verde. Vi è dunque una reale rottura tra l'uomo e la natura.
Bisogna anche prendere atto dello sganciamento rispetto al tempo, altro aspetto ‛naturale' della vita. Il tempo naturale, sia biologico che psicologico, non conta più rispetto al tempo meccanico (come del resto aveva già osservato L. Mumford). Ciò è vero anzitutto, com'è ovvio, per quanto riguarda la durata, ma anche per quanto riguarda i ritmi: per esempio, si uniformano i tempi di lavoro in funzione delle possibilità e necessità della società tecnica, senza seguire il ritmo biologico connesso, per esempio, all'estate e all'inverno (arrivando all'aberrazione più volte constatata, e imposta dalla società tecnica, di rovesciare la disposizione biologica dell'organismo, che è di lavorare in estate e riposarsi in inverno) o al ritmo della luce. Ma fisiologi e psicologi insistono sempre più sull'importanza di queste condizioni naturali per l'equilibrio umano. È evidente che grazie alla luce artificiale l'uomo può vivere e lavorare di notte, ma il suo organismo ‛non è d'accordo'. L'apparato tecnico permette un appiattimento completo dei ritmi temporali, autorizzando a fare qualsiasi cosa in qualsiasi momento; esiste tuttavia un accordo spontaneo tra l'organismo umano e il suo ambiente naturale, tanto che la rottura dell'accordo produce uno squilibrio nell'organismo: l'uomo non si è ancora adattato al nuovo ambiente.
Infine, la rottura rispetto al tempo gioca anche al livello della velocità. Quella che viene attualmente imposta è la velocità consentita dalla macchina e dall'elettronica, e anche qui abbiamo una disfunzione, in quanto l'uomo si trova nell'impossibilità di ‛reggere', che si tratti dei ritmi industriali o della molteplicità dei contatti umani o della velocità delle informazioni: l'uomo ha smarrito l'accordo fra la sua velocità e quella dell'ambiente naturale, è immerso in un ambiente che gli impone una velocità che non è la sua.
Un terzo aspetto della rottura fra l'uomo e l'ambiente naturale, dovuto alla sostituzione dell'ambiente tecnico a quello precedente, si rivela nel fatto che attualmente l'uomo non sente nemmeno più il bisogno di conoscere le leggi della natura, o per lo meno quelle ‛dirette', poiché le scienze lavorano ormai a un livello che non è più quello dell'esperienza diretta. Per esempio, non ha più nessuna importanza sapere qual è l'evoluzione normale di un fenomeno, dato che l'uomo è sempre più in grado di intervenire, in ogni momento, per modificarlo. Diventa di scarso rilievo sapere quello che un'osservazione millenaria ha insegnato all'uomo su questo o quel processo, visto che egli può dominarlo e orientarlo verso un risultato non previsto ‛normalmente'. D'altro canto è evidente che, avendo una fiducia eccessiva nei propri mezzi, l'uomo commette talvolta pesanti imprudenze (costruisce case di montagna in zone di valanghe, per esempio, fidando di poterle deviare o impedire). Allo stesso modo l'uomo non sente più alcun bisogno di ascoltare e capire i segni meteorologici. Che importanza può avere per un uomo che vive in città prevedere se pioverà o farà caldo, se non ha da fare altro che attraversare il marciapiede che separa la sua macchina dal suo ufficio! È cosa che può interessare solo il marinaio o l'aviatore, ma anch'essi non devono fare ‛personalmente' alcuno sforzo, poiché vengono informati dal servizio meteorologico e, in caso di necessità, specialisti impartiscono loro da terra tutte le istruzioni del caso. Quanto agli altri, prevedere il tempo può essere di qualche interesse quando si fa dell'alpinismo o della vela, ma questo sottolinea appunto come il legame con l'ambiente naturale venga ristabilito solo nel tempo libero.
D'altro canto, è interessante qui sottolineare che anche nel tempo libero l'uomo sopporta sempre meno il contatto con la natura nella sua forma genuina: vuole che sia attrezzata (attrezzature balneari e per gli sport invernali); vuole trasportarvi tutto un assortimento tecnico: ha bisogno di strade per spostarsi dappertutto in macchina e vuole portarsi dietro per lo meno il suo transistor. D'altro canto l'uomo ha talmente modificato e alterato l'ambiente cosiddetto naturale che in certi casi può ritrovarlo solo a condizione che esso sia ulteriormente lavorato e trasformato, attraverso procedimenti tecnici, per renderlo nuovamente ‛naturale': per esempio, l'aria e l'acqua sono sempre meno adatte a compiere la loro funzione primordiale nei confronti dell'organismo vivente. Già è necessario rendere l'acqua potabile, e presto la stessa cosa si dovrà fare con l'aria, al punto che già si parla della necessità di preparare intensivamente aria artificiale. Analogamente l'uomo è sempre meno colpito direttamente da eventi naturali (valanghe, inondazioni, uragani, cose tutte ormai ‛anormali') e sempre più da incidenti tecnici (incidenti automobilistici e aerei, fenomeni di inquinamento, ecc.). Questa specificazione delle fonti di pericolo è peculiare del nostro ambiente odierno. Da sempre, l'ambiente in cui si trova rappresenta per l'essere vivente, nel contempo, la sua possibilità di vita e il suo pericolo di morte oggi, manifestamente l'uomo riceve la vita dall'ambiente tecnico ed è in quello che trova anche la vera minaccia di morte, il che costituisce la prova migliore e definitiva che proprio quello è divenuto il suo ambiente. L'uomo si trova concretamente collocato in un ambiente che è fatto ‛dei' suoi strumenti di azione e ‛da' questi strumenti, che costituiscono per lui un universo di vita. Obbedisce così agli imperativi degli strumenti tecnici come un tempo alle indicazioni della natura. Abbiamo sottolineato come sia diventato inutile conoscere queste ultime, mentre diviene viceversa essenziale conoscere il senso dei segnali che riempiono la nostra vita, e di cui i più evidenti sono il rosso e il verde dei semafori: chi li ignora è, in questa società, perduto; l'uomo, d'altro canto, li subisce con la stessa evidenza e ‛naturalezza' con cui subiva un tempo la natura. Infine, l'uomo moderno riesce a concepire un'azione solo attraverso la mediazione dello strumento tecnico e non gli viene nemmeno in mente che potrebbe agire direttamente. Ogni problema, di qualsiasi ordine, è passibile unicamente di una soluzione tecnica; ma bisogna riconoscere che in realtà la maggior parte delle difficoltà sono sollevate dalle tecniche stesse e che è sempre possibile ricondurre una situazione (anche sociale, politica o economica) a un insieme di dati trattabili con mezzi tecnici.
Nella ricerca delle soluzioni non si terrà più nessun conto delle possibilità e dei limiti naturali; tale è la certezza del controllo sulla natura che l'unica cosa di cui ci si preoccupa e calcolare ciò che è possibile fare con la tecnica. Si ritiene scontato che le possibilità naturali debbano piegarsi alle soluzioni tecniche o allo sviluppo tecnico. In questo modo l'ambiente tecnico è diventato imperativo e dominante quanto poteva esserlo quello naturale per l'uomo primitivo. Esso inoltre è totale, si presenta cioè come un tutto - le cui parti sono coordinate - che possiede proprie esigenze e leggi di sviluppo. Rispetto a quest'ambiente, l'uomo appare uno straniero e un ostacolo e tende a diventarne un epifenomeno; non è esattamente sintonizzato. Di frequente ci imbattiamo nell'opinione secondo cui la macchina è infallibile ma l'uomo introduce l'errore; per esempio, con l'elettronica si potrebbe raggiungere la velocità ‛assoluta', ma l'uomo non ce la fa. Esiste una perfezione della tecnica che mette in risalto l'imperfezione dell'uomo. Si porrà sotto accusa, per esempio, l'attaccamento dell'uomo a ideologie, sentimenti, valori, completamente superati, sorti nel periodo neolitico e che costituiscono il grande ostacolo alla perfetta realizzazione del mondo tecnico. Tutto ciò significa dunque che l'uomo porta con sé un'eredità che, provenendo dal suo adattamento al vecchio ambiente naturale, lo rende inadatto al suo nuovo ambiente. Queste opinioni esprimono semplicemente l'evidenza, il che significa che questo ambiente ‛artificiale' sta a sua volta divenendo un ambiente ‛naturale'. La tecnica è, con tutta evidenza, un ambiente artificiale, cioè costruito dall'uomo. Nulla di naturale vi entra più direttamente; ogni elemento è preliminarmente rielaborato per entrare in questo ambiente, che del resto costituisce il risultato della crescita dei mezzi creati dall'uomo. L'uomo raggiunge qui ciò che ha sempre cercato: impone cioè con la sua arte un nuovo ordine, una nuova finalità, un'organizzazione che è pienamente sua. Prima non vi riusciva per mancanza di mezzi; ora è in condizione di forgiare quest'ordine totale e di fissare le mete che preferisce. Siamo dunque di fronte a una manifesta vittoria della volontà dell'uomo. I riferimenti a un ordine ‛non umano' non servono più a niente.
Quello che si è prodotto è un duplice capovolgimento davvero spettacolare. Il primo consiste nell'identificazione tra ambiente tecnicizzato e società umana, con la scomparsa della vecchia dialettica ‛natura-cultura'. In precedenza, la società umana poteva essere rappresentata come un corpo innestato su di una natura dominante: come dicono gli antropologi, l'uomo era rispetto all'ambiente naturale un parassita e un predatore. Attualmente, invece, la società stessa è il risultato di relazioni create dalla tecnica, che si tratti di tecniche di trasporti, d'informazione, di diffusione e di elaborazione di uno stile di vita, o di tecniche di manipolazione psicologica o delle relazioni umane o ancora di tecniche di organizzazione degli insiemi umani. La società umana non è più una cultura in simbiosi con un insieme naturale, ma è divenuta un ‛in sé' che non conosce più regole esterne; ordina se stessa in rapporto, e grazie, alle tecniche. Da questo momento in poi, il problema cruciale non è più, come nelle epoche primitive, quello dei rapporti tra uomo e natura o, come nelle precedenti epoche storiche, quello dei rapporti tra uomo e società, ma ormai quello dei rapporti tra uomo e tecnica. Infatti, se la società si struttura grazie alla tecnica, da cui riceve tutti i suoi caratteri, la situazione dell'uomo nel corpo sociale dipende in ultima istanza dalla tecnica che agisce contemporaneamente sull'uomo e sulla società. È proprio quello che possiamo osservare quando esaminiamo, per esempio, la democrazia. Questa forma di governo e di organizzazione della società viene profondamente sconvolta dalla tecnica; non è più possibile ritenere che le relazioni tra il cittadino e il potere siano effettivamente definite dalla costituzione democratica: la situazione reale dipende dalle modificazioni introdotte dalla televisione, dalla pianificazione, dalla concentrazione dei mezzi tecnici nelle mani dello Stato, dal crescere della massa delle informazioni, ecc. Di fatto, la nostra società riceve forma, strutture e caratteri dalla tecnica: quali che siano i caratteri ritenuti qualificanti della società moderna - vista di volta in volta come società consumistica, industriale, postindustriale, burocratica, ecc. -, essi derivano tutti, come ho già mostrato, dalla tecnica. Dopo aver funzionato come mediatrice generalizzata rispetto alla natura, la tecnica diviene così creatrice generalizzata di una nuova forma di società: la vecchia società, ‛innestata' com'essa era sulla natura, non ha più alcuna possibilità d'esistenza.
Tutto ciò comporta almeno due conseguenze: la prima è che questa società, in quanto tale, è da inventare. Abbiamo impiegato migliaia di anni per inventare forme e interrelazioni soddisfacenti nell'ambito della società tradizionale; tutto questo si rivela ora inadeguato. Ora, se è vero che la società moderna riceve dalla tecnica forme e caratteri, si tratta però ancora, per così dire, di una materia bruta, di un semplice materiale sociale. L'uomo non è riuscito ancora a trovarvi il suo posto, la sua giusta collocazione, la propria soddisfazione, le proprie possibilità di equilibrio e di relazione. Non possiamo più accontentarci dei vecchi rapporti umani; tutto deve essere rifatto. La seconda conseguenza è che questa società viene fin dall'inizio dotata di mezzi considerevoli, mezzi di potenza e di azione che si eserciteranno non più sull'‛esterno' (cioè sull'ambiente naturale esterno al gruppo umano e in rapporto al quale il gruppo si situa), ma sui suoi membri. Avendo infatti svolto in modo soddisfacente il loro ruolo nei confronti della natura, ormai dominata, i mezzi d'azione di cui il corpo sociale è dotato possono oggi essere rivolti solo verso la sfera rimasta ancora relativamente autonoma, quella costituita dai membri stessi della società. Non bisogna cadere nell'errore di immaginarsi che questi mezzi tecnici siano puramente e semplicemente al servizio dell'uomo; se è evidente che essi vengono utilizzati da uomini, bisogna pure, d'altra parte, che la loro potenza trovi un'applicazione, ed essa ha ormai come unico luogo di esercizio reale l'uomo stesso, divenuto ipotetico soggetto e reale oggetto. In questo consiste il primo dei due grandi capovolgimenti cui si accennava sopra.
Il secondo consiste nel fatto che l'‛artificiale' costituente l'ambiente tecnico sta diventando per l'uomo il ‛naturale', un'autentica natura. L'ambiente che ora gli appare estraneo, quando gli capita d'imbattersi in esso, è quello costituito dal mare, dalla foresta, dalla campagna, dal silenzio, dal caldo e dal freddo, dalla pioggia, mentre l'ambiente che gli sembra, in modo del tutto naturale, il suo è quello del cemento, dell'asfalto, dell'aria condizionata, dell'auto, del telefono, dell'organizzazione. Ormai l'uomo trova normale tutto questo, ma scopre anche con stupore che questo ambiente che ha fabbricato, che è uscito dalle sue mani, che esiste solo grazie al suo lavoro sempre rinnovato, e che dovrebbe essere in perfetta sintonia con lui, in realtà è da lui notevolmente autonomo e indipendente; scopre anche che esiste una specie di costituzione specifica dell'insieme tecnico di cui non è padrone. La moltiplicazione dei mezzi ha mutato il carattere della mediazione, la quale è divenuta autonoma rispetto alla volontà dell'uomo: ciò significa autonoma rispetto a ‛ogni singolo individuo o insieme di uomini'. Nessuno è infatti capace di dominare e orientare la tecnica; solo l'‛uomo in sé', se esistesse, sarebbe forse in grado di riappropriarsene. Sfortunatamente, è molto facile parlare dell'uomo in sé, ma è impossibile dire cosa sia, ed è per questo che ho parlato sopra di soggetto ipotetico.
In realtà l'uomo moderno si trova, rispetto all'ambiente tecnico, nella stessa situazione dell'uomo primitivo rispetto all'ambiente naturale; esiste in entrambi i casi la connaturalità ma anche la distanza, lo scarto, la relativa mancanza di adattamento, la reciproca messa in questione. Non bisogna dimenticare che se l'ambiente naturale metteva l'uomo in questione, sin quasi, talvolta, a provocarne l'estinzione, vale anche l'inverso: possiamo infatti constatare che l'uomo è giunto a far scomparire la natura in una parte notevole del globo. Per la tecnica sussiste la stessa situazione: essa può arrivare a distruggere tutto ciò che finora è stato considerato come umano, ma è anche evidente che l'uomo ha la possibilità di annientare la tecnica, cessando, per esempio, di produrla.
3. La tecnica in quanto sistema
La tecnica non solamente è divenuta un ambiente per l'uomo, ma si organizza in sistema. Chiameremo sistema un insieme di parti coordinate reciprocamente, connesse in modo tale che ogni modificazione di una di esse si ripercuota sull'insieme, mutando l'organizzazione del tutto, e, reciprocamente, ogni modificazione dell'insieme si ripercuota su ognuna delle parti. Inoltre il sistema esprime un processo di crescita che gli è specifico, processo dovuto non solo a influenze esterne, ma anche a una forza spontanea di autoriproduzione. Infine il sistema comporta sempre una retroazione, cioè una capacità di autocontrollare i propri cambiamenti. Quando sopravviene un mutamento, lo squilibrio che ne risulta spinge il sistema a reagire e a modificare contemporaneamente la propria struttura e il mutamento subito, in modo da ritrovare un certo equilibrio. Sono questi i tre caratteri del sistema che ritroviamo in quell'insieme di tecniche che abbiamo sussunto sotto il concetto di tecnica.
Il coordinamento delle parti del sistema. - I tratti che qualificano il sistema come un tutto coordinato sono l'unitarietà, l'autonomia e la razionalità. L'unitarietà: quando si considera il mondo tecnico non si può evitare di essere colpiti dalle strette relazioni esistenti fra tutte le sue diverse parti. Praticamente ogni tecnica dipende, per la sua applicazione e il suo sviluppo, da numerosissime altre tecniche. Reciprocamente, se una tecnica viene a mancare tutto si arresta. Proprio sulla constatazione della solidarietà esistente tra tutte le tecniche poggia, per esempio, l'efficacia degli scioperi a scacchiera (all'interno di un complesso è sufficiente che si fermi un piccolo gruppo per paralizzare l'insieme). La più piccola fabbrica può funzionare solo a patto che le sia fornita l'energia elettrica, che funzionino le ferrovie, che arrivi l'acqua, che la rete stradale sia in buono stato, ecc.
È successo in Francia che un famoso specialista di informatica, chiamato come consulente, rispondesse ‟Fino a che il funzionamento della rete telefonica sarà così difettoso è impossibile migliorare l'utilizzazione dei calcolatori". In ogni prodotto entrano componenti che traggono origine da innumerevoli settori dell'attività tecnica e, quando si considera il progredire delle tecniche, ci si accorge che ogni innovazione permette immediatamente un gran numero di applicazioni in campi diversissimi. Non è più possibile concepire una tecnica che progredisca indipendentemente dalle altre (nella ricerca spaziale sono impegnate oltre duemila specialità tecniche) e, inoltre, non si deve pensare che tali correlazioni coinvolgano solo tecniche materiali: è noto fino a che punto oggi l'elemento psichico influisca sulle possibilità materiali. Le tecniche psicologiche sono indispensabili perché questo o quell'insieme di tecniche materiali funzioni. Il rendimento di una fabbrica in un qualsiasi ramo dell'industria è cattivo se sono cattivi il clima psicologico o le relazioni tra i membri della fabbrica. Esiste dunque un interdipendenza profonda di tutte le tecniche.
L'autonomia: ci si rende agevolmente conto che la tecnica tende a essere autonoma rispetto a tutto il resto, cioè a obbedire a leggi proprie (di organizzazione e di sviluppo) prescindendo da interferenze esterne, che possono tuttavia condizionare l'estensione di tale autonomia. Si può affermare che la tecnica è divenuta totalmente autonoma rispetto alla morale e alla religione. Non è neppure immaginabile che si blocchi lo sviluppo di una tecnica dichiarando che essa è ‛cattiva' o contraria alla volontà divina; nessun tecnico può più accettare giudizi di questo genere. Su questo terreno, come su quello scientifico, l'autonomia è ormai completa: la morale ha il suo ambito, la scienza e la tecnica il loro, in cui sono sovrane e padrone. Un po' meno totale appare l'autonomia nei confronti del potere politico, che sembra avere una certa influenza, per esempio, sull'orientamento della ricerca. Tuttavia si tratta di una pura illusione; in realtà il potere politico è al tempo stesso svalutato e svuotato del suo contenuto ad opera della tecnicizzazione generale.
Attualmente, esiste una dimensione reale dell'esercizio del potere, che è di natura tecnica ed è sostanzialmente in mano dei tecnici, e una dimensione apparente, illusoria, che è quanto resta ai politici, i quali tuttavia conservano la capacità di ingabbiare, disorganizzare, neutralizzare la tecnica, almeno per un certo tempo. Infine, è spesso contestata l'autonomia della tecnica nei confronti dell'economia; si afferma infatti che in realtà tutto dipende dall'economia e che la tecnica svolge una mansione ausiliaria e si costruisce solo a partire dalle possibilità economiche. Si tratta però di una concezione superficiale. Certamente, la tecnica può svilupparsi solo se esistono le basi economiche necessarie e sono di continuo necessari risorse e consumi sempre maggiori per far fronte alla crescita tecnica. È evidente che spesso certe possibilità tecniche restano bloccate perché mancano le possibilità economiche per sfruttarle; anzi, questo è addirittura uno dei problemi essenziali del Terzo Mondo. S'impongono tuttavia almeno due osservazioni. Innanzitutto, l'economia può svilupparsi solo in funzione dello sviluppo tecnico. L'economia non è autonoma ‛in nulla': è ‛totalmente' dipendente dall'elemento tecnico; non esiste vita economica (moderna) senza tecnica. Non può invece dirsi che l'inverso sia altrettanto vero. La tecnica è essenzialmente autonoma e solo in via secondaria dipende dall'economia. In secondo luogo, l'economia stessa diviene sempre più tecnica, vale a dire che l'ambito economico, tanto nella ricerca che nell'applicazione, è in realtà subordinato a un settore della tecnica, questa essendosi in qualche modo annessa l'attività specificamente economica. L'autonomia del sistema tecnico è così pressoché completa.
La razionalità: ci troviamo qui a esaminare una caratteristica, almeno in apparenza, evidente. La tecnica è razionale, come normalmente ogni sistema, e d'altro canto non sarebbe possibile il contrario, dato il fondamento scientifico della tecnica. Tuttavia, è proprio la razionalità la caratteristica meno certa. È ben vero che una tecnica è sempre razionale; accade però che più cresce il sistema tecnico e più vediamo moltiplicarsi le irrazionalità. Si tratta di disfunzioni, intoppi, elementi di nocività, che hanno fatto parlare di una relazione tra caos e sistema. Più automobili ci sono e più corrono, più si moltiplicano gli ingorghi e gli incidenti. Già questo semplicissimo esempio permette di constatare che il sistema tecnico non è razionale. D'altra parte, se lo consideriamo in sé, unicamente come reciproca organizzazione delle tecniche, è evidente la sua perfetta razionalità, il che spiega la costante ricomparsa di utopie positive. Se si presta attenzione unicamente al gioco delle tecniche, la tendenza sembra andare verso una società perfettamente organizzata ed equilibrata. Ma il fatto è che le tecniche non funzionano nel vuoto: da un lato sono in relazione con una umanità che, come abbiamo visto, non vi si è ancora adattata, e dall'altro abbisognano di un supporto sociologico. Ora, è proprio il contatto tra il sistema tecnico e l'uomo e le strutture sociologiche che è fonte di irrazionalità; esse compaiono al livello delle conseguenze del sistema e non nella sua organizzazione.
La crescita del sistema. - Anche la crescita tecnica presenta tre aspetti essenziali: la progressione causale, l'autoaccrescimento e l'automatismo delle scelte.
La progressione causale: per sorprendente che possa sembrare, la tecnica non si sviluppa in funzione di una finalità, nonostante l'impressione spontanea che l'accumulazione e il perfezionamento dei mezzi avvenga in vista del conseguimento di un fine. Si è convinti che il problema si ponga sempre nei seguenti termini: si scopre un obiettivo, ci si propone uno scopo e si ricercano le tecniche atte a realizzarlo; ma questo è un modo del tutto astratto di considerare la situazione. È necessario intanto distinguere differenti livelli: se si parla di fini, ci si accorge subito di quanto siano vaghi e incerti (la felicità dell'umanità, la giustizia, lo sviluppo della scienza, ecc.), al punto che possono rappresentare solo un'intenzione certamente lodevole ma certo non una forza capace di condurre all'innovazione tecnica. A un livello meno astratto, si può constatare l'esistenza di obiettivi anch'essi abbastanza generali ma più concreti: raggiungere la luna, aumentare il PNL del 5%, guarire il cancro, ecc. Ci si trova qui, tuttavia, dinanzi a una tal farragine di ‛obiettivi' diversi (si può parlare di ‛obiettivi' a proposito di vecchi sogni dell'umanità, di aspirazioni collettive di svariatissima natura, ecc.), che il fatto di essere un obiettivo ha scarso significato. La verità è che, quando si trova il mezzo per raggiungere la luna s'‛inverte' il cammino e si afferma: ‟Volevamo da sempre raggiungere la luna (il che è vero, ma il ‛sempre' mostra la vanità di un tale progetto) e perciò abbiamo trovato il mezzo". Nella realtà le cose si sono svolte in modo assai diverso: vi sono state migliaia di piccole modificazioni che, accumulate e collegate, hanno prodotto missili sempre più potenti. A un certo punto del continuo processo di perfezionamento, ci si accorge di disporre di un missile che sembra adatto a compiere dei viaggi interplanetari; allora vi si sovrappone l'obiettivo: si voleva raggiungere la luna. Al livello più modesto, abbiamo gli ‛scopi'; ogni ricercatore si propone evidentemente uno scopo nella sua attività in laboratorio: migliorare di un milionesimo di secondo la velocità di un calcolatore, aumentare la precisione di un cronometro, ecc. Ma tali scopi sono essi stessi interamente determinati dal contesto del perfezionamento tecnico e dagli strumenti del laboratorio in cui si lavora. In realtà, è a partire dall'esistenza di un dato strumento che ci si propone uno ‛scopo', il quale si situa appena un po' oltre le prestazioni normali dello strumento in questione: si cerca di fare un po' meglio, un po' più rapidamente, ecc. In altri termini, la progressione del sistema tecnico avviene secondo un processo causale e non finalistico. Ci si rende conto che è possibile fare qualcosa che in precedenza risultava impossibile ‛perché' si dispone di uno strumento, di un insieme di possibilità tecniche, ‛perché' si verificano incontri e scambi tra cento o mille risultati di tecniche differenti: null'altro. Si cerca allora di realizzare questa possibilità, il che promuove l'innovazione tecnica. Essa non è mai ottenuta in vista del tale obiettivo, ma è semplicemente il frutto del potenziale preesistente e il processo innovativo è sempre di ordine combinatorio L'accelerazione del processo è dovuta all'incessante crescita del numero delle combinazioni possibili: non deriva quindi dal fatto di prendere i fini più sul serio o dall'attribuir loro un'urgenza maggiore che nel passato, come avverrebbe se la progressione fosse finalistica.
L'autoaccrescimento: proprio il carattere causale di questo processo fa sì che si produca una crescita del sistema che non è decisa in modo chiaro, volontario ed esplicito dall'uomo, e in questo senso ho potuto parlare di un accrescimento della tecnica analogo alla crescita di una pianta. Una volta riuniti gli elementi necessari e contando su un ambiente favorevole, la tecnica si sviluppa in certo modo senza l'intervento dell'uomo. Non bisogna tuttavia cadere in malintesi: non intendo affermare che non vi sia un intervento dell'uomo e che sia sufficiente mettere insieme calcolatori e altiforni perché si realizzi qualcosa! Tutto passa attraverso la mediazione dell'uomo, il quale non ha però potere di decisione e nemmeno un ruolo creatore, poiché è egli stesso parte del sistema: è una delle condizioni di sviluppo della tecnica. È integrato nell'insieme, e ne dipende molto più di quanto il sistema non dipenda da lui. Perfino nella ‛ricerca e sviluppo' è perfettamente orientato in anticipo ed è privo del potere sia di accelerare sia di ostacolare in misura decisiva lo sviluppo.
L'uomo può certamente accentuare lo sviluppo in un senso piuttosto che in un altro, ma il suo ruolo si riduce sempre a facilitare l'accrescimento. Per questo ho parlato di una sorta di ‛autoaccrescimento' costitutivo dell'insieme tecnico: è la realtà stessa della tecnica, nella misura in cui essa si definisce attraverso il suo tratto costitutivo dell'efficienza. Poiché tutto si orienta in funzione di ciò che è maggiormente efficiente, il processo si traduce necessariamente in una crescita. L'uomo non è affatto il fattore decisivo di questa crescita ed è egli stesso profondamente condizionato a facilitarla; ciò che rimane in suo potere è ben poco.
Tutto ciò ci porta al terzo carattere: l'automatismo delle scelte. L'uomo parrebbe libero di scegliere se fabbricare, per esempio, automobili o produrre maggiori quantità di grano per i popoli poveri. Si tratta tuttavia di una libertà illusoria, il che non dipende, contrariamente a ciò che spesso si dice, dalla struttura capitalistica e dalla ricerca del massimo profitto. La grande regola attuale non è più quella della ricerca del profitto ma, in ogni campo, quella della ricerca di una maggiore efficienza. Esistono solo ritardi di applicazione, vale a dire che si arriverà anche a produrre maggiori quantità di grano, a prevedere modi di distribuzione totalmente differenti (che favoriranno i popoli poveri), senza di che il sistema tecnico verrebbe completamente frenato, cosa psicologicamente impensabile per l'uomo moderno. Sarà certamente necessario che il profitto cessi di rappresentare la molla principale perché altrimenti verrebbe rimessa in questione l'intera tecnica. Dunque, solo per un periodo abbastanza breve l'uomo può decidere di produrre automobili piuttosto che grano.
Quando parlo di automatismo delle scelte intendo riferirmi a due fatti. Per un verso, tra due procedimenti tecnici ha sempre la meglio quello che si rivela più efficiente, senza che praticamente vi sia in ciò intervento dell'uomo; egli può certamente continuare a operare con il procedimento meno efficiente, ma in questo caso sarà sconfitto o eliminato. Quanto alla misura dell'efficienza, essa si effettua sempre meno attraverso una valutazione umana e sempre più attraverso misure obiettive, per esempio elettroniche. D'altro canto, un ulteriore elemento di automatismo consiste nel fatto che l'uomo è costretto a prendere decisioni e a compiere scelte che garantiscano e assicurino insieme la massima efficienza e la massima crescita. Questa scelta può ovviamente non essere del tutto felice, ma ciò prova solo l'inadeguatezza dell'uomo a giudicare correttamente la situazione del sistema. Naturalmente, l'uomo può rifiutarsi di compiere una tale scelta, ma ciò significherà solo che esce dal sistema tecnico e che vi rinuncia, il che non è ancora avvenuto ed è perfino difficile da immaginare (gli hippies, che formano una contro-società, vivono come parassiti del sistema tecnico: non ne sono fuori più di quanto il vischio sia indipendente dalla quercia!).
La retroazione. - La grande debolezza attuale del sistema tecnico sta nel fatto che per il momento sembra incapace di autoregolarsi. Di norma il sistema dovrebbe autoregolarsi a partire dalle proprie uscite; la retroazione sulle entrate dovrebbe produrre gli aggiustamenti necessari a ristabilire l'equilibrio. Si capisce molto agevolmente che in una macchina vi possa essere un tale feedback. Ma è anche noto che ciò diventa sempre più difficile via via che il sistema si fa più complesso e le uscite più numerose. Se consideriamo l'insieme delle tecniche, con le loro correlazioni e interazioni, come un tutto, la complessità è massima. È evidente come non esista nessun organismo di controllo visibile e concepito dall'uomo; solo nel campo economico si è cominciato a pensare a qualcosa del genere: si mette in funzione un dispositivo che segnala automaticamente il raggiungimento dei ‛punti critici', in modo da poter correggere il gioco dell'insieme. Ma siamo ancora lontani dal poter immaginare qualcosa di simile a livello globale. Sarebbe dunque necessario che il sistema tecnico producesse esso stesso, in qualche modo, la propria regolazione, ma ciò supporrebbe l'esistenza di controlli che sembrano difficilissimi da realizzare. È inoltre evidente che una tale retroazione può essere immaginata come operante solo dopo che sia trascorso un lasso di tempo sufficiente perché, da una parte, le uscite negative abbiano modo di manifestarsi con abbastanza nettezza da essere percepite come un pericolo per l'insieme - il che attualmente non avviene - e, dall'altra, il meccanismo di regolazione, che può essere introdotto solo per tentativi, sia in grado di produrre degli effetti sensibili. Siamo entrati nell'era del sistema tecnico da pochi decenni e solo da qualche anno stiamo prendendo coscienza dei suoi pericoli e del suo cattivo funzionamento: un periodo cosi breve non consente ovviamente di riscontrare l'esistenza di un'autoregolazione. Dalla sua assenza non si può peraltro desumere l'inesistenza della tecnica in quanto sistema, ma solo la giovane età e la novità di questo fenomeno, che si va poco a poco organizzando. Forse la grande emozione sollevata dall'inquinamento e l'attenzione dedicata all'ecologia costituiranno i punti di partenza per la messa in funzione di un meccanismo di regolazione, ma per il momento il sistema si sviluppa in un modo che è insieme razionale e distruttivo.
Un'altra notevolissima difficoltà all'avvio di un meccanismo di retroazione è data dal problema delle uscite. Le uscite del sistema tecnico, considerato nel suo insieme, presentano una straordinaria diversità, complessità e anche incertezza. Ci si accorge sempre più che una tecnica, applicata in modo massiccio, comporta conseguenze in un numero immenso di campi e non solo in quello previsto. Ogni tecnica agisce a livello psicologico, sociologico, fisiologico, ecc. È straordinariamente difficile tener conto di tutti gli effetti; bisogna distinguerli almeno secondo quattro categorie: effetti prevedibili e intenzionali (spingendo l'acceleratore, prevedo che la mia auto aumenterà di velocità ed è appunto questo che volevo ottenere); effetti prevedibili ma non intenzionali (libero una quantità maggiore di gas e inquino l'atmosfera); effetti prevedibili, non intenzionali ma solamente ipotizzabili (se accelero a fondo, aumento in certi casi le probabilità di incidenti; più si aumenta il tonnellaggio di una petroliera e più aumenteranno le possibilità di un'‛onda nera'); infine, gli effetti totalmente imprevedibili, dovuti alla messa in funzione di mezzi, i cui effetti non sono tutti calcolabili neppure con il maggior scrupolo professionale (è il caso sempre più frequente dei prodotti farmaceutici e chimici). Possono manifestarsi effetti secondari imprevedibili, o per l'impossibilità di una sperimentazione esaustiva (così per esempio la nocività del DDT per l'uomo si è manifestata solo accidentalmente e con l'uso), o per la necessità di un prolungato uso di un dato prodotto perchè i suoi effetti si rendano visibili, o infine perché gli effetti riguardanti il patrimonio genetico possono emergere solo nelle generazioni successive.
Bisogna anche tener conto di un fatto decisivo molti di questi effetti negativi sono messi in dubbio e contestati. Più le analisi sono raffinate, più la realtà di un fenomeno può essere messa in discussione. Ciò avviene in campo genetico e ancor più in psicologia; sono note le infinite controversie sugli effetti della televisione, che per gli uni costituisce un pericolo terribile tanto dal punto di vista fisiologico (problemi della vista) quanto da quello psicologico (passività, ipnosi, caduta dell'attenzione, accrescimento della faticabilità, ecc.), culturale e sociologico, mentre per gli altri tutto ciò è puramente immaginario e la TV non presenta alcun pericolo. Attualmente sembra non vi sia alcun mezzo per vagliare questi giudizi, poiché spesso essi poggiano in realtà su una preliminare scelta di valori. Vi è infine la scuola di M. McLuhan, secondo la quale la TV provoca una mutazione totale dei nostri processi mentali e ci inserisce nuovamente in un modo di pensare mitico, il che potrebbe avere conseguenze rilevantissime per la crescita del sistema tecnico. Di fronte a tante incertezze riguardo agli effetti, si capisce agevolmente quanto sia difficile mettere in funzione meccanismi di retroazione! E intanto, in loro assenza, continuano a svilupparsi gli intralci, gli elementi nocivi, gli inquinamenti, che costituiscono altrettanti aspetti di una disfunzione del sistema.
4. La tecnica in quanto mito
Abbiamo cercato di mostrare che il concetto di tecnica non è il frutto di un'immaginazione incoerente, non è un ‛mito' nel senso negativo del termine. È anzi un vero mito, e in quanto tale svolge nella nostra società un ruolo di cui bisofina rendersi conto. Innanzitutto, si è prodotta una certa sacralizzazione della tecnica stessa, che non è più vissuta come semplice fenomeno razionale, ma come potenza misteriosa datrice di vita e di morte. In ciò, del resto, è da vedere semplicemente la ripetizione di un processo ben noto nella storia delle religioni o delle forze religiose. Non appena sorge una potenza che attacca le divinità, le religioni, le spiritualità consolidate e arriva a sconfiggerle, è su quella potenza che si riversa ben presto il fervore rivolto in precedenza alle antiche divinità; al punto che questa forza si carica di un elemento sacro, o sembra addirittura un'espressione del sacro, anche se inizialmente si era presentata come dissacratrice e profanatrice.
È sempre il profanatore della religione costituita che viene caricato - dalla fede collettiva - del massimo potenziale sacr0. Ora, ciò è esattamente quanto può essere constatato per la tecnica. Essa ha agito come fattore di laicizzazione, di smascheramento dei misteri, ha contribuito alla secolarizzazione dando all'uomo il potere di fare ciò che fino a quel momento era riservato alle divinità; ben presto è stata tuttavia anch'essa sacralizzata. L'uomo non può più considerare l'oggetto tecnico come semplice oggetto: esso partecipa della magia, è un elemento indispensabile alla vita, senza il quale la vita non è più concepibile né accettabile. La tecnica garantisce la nostra vita e il possesso dell'oggetto tecnico le conferisce un senso e l'unico valore che ancora possediamo. Sono note tutte le ricerche sulle motivazioni, sul prestigio, ecc., connessi con la tecnica; ma la verità è che, in un mondo in cui la tecnica ha svalutato i valori, è la tecnica stessa che non può evitare di divenire valore e portatrice di senso. Ci troveremo allora di fronte a una pura fede nelle potenzialità assolute della tecnica, fede che si esprime sia nella sottomissione alla fatalità, sia in paure affabulatrici, sia infine in speranze smisurate tutti aspetti tipici dell'atteggiamento religioso. La tecnica è senza dubbio accolta come una conquista ammirevole e benefica, ma innanzitutto come una forza ineluttabile di fronte a cui non si può nulla. ‟Non si ferma il progresso" (si intende: il progresso tecnico), è la formula in cui più comunemente si esprime questa convinzione. L'uomo avverte perfettamente lo sviluppo ineluttabile della tecnica e ha l'impressione di non avere alcun potere su di esso: finisce quindi per accettare la situazione, vivendola come una sorta di destino. ‟È evidente che ci saranno domani nuove tecniche e nuovi strumenti, e bisognerà accettarli e adattarvisi": questa è la convinzione comune. Anche se risulta difficile, se, per esempio, bisogna prevedere che si dovrà cambiare mestiere due o tre volte nella vita, non si può fare diversamente. Accade allora che l'uomo carichi la tecnica, come ogni altra fatalità, di tutte le sue speranze e paure. Comunissime sono le manifestazioni di queste speranze straordinarie: guarigione dal cancro, viaggi interplanetari, governo mondiale di saggi, completa prevedibilità dell'avvenire, vittoria sulla morte, eliminazione totale del lavoro che verrà completamente svolto dalla ‛macchina', ecc. Né sono solo i racconti di fantascienza che esprimono queste speranze grandiose; anche lavori di previsione tra i più seri, come i famosi rapporti della Rand Corporation, mostrano come non ci si trovi più di fronte a un calcolo razionale degli sviluppi futuri, ma a un'effusione religiosa di speranze. L'espressione più caratteristica di questo atteggiamento è certo la sicurezza dell'avvento della società ‛del tempo libero', proprio quando nulla di concreto permette d'immaginare che nei prossimi venticinque anni intervengano sostanziali riduzioni del tempo di lavoro (si potrà forse economizzare il 10 o il 15% del lavoro umano globale); ma il ‛miracolo tecnico' ha permesso una tale quantità di cose che ci si precipita a credere alla possibilità di ogni genere di miracoli (il termine stesso, che ricorre spesso, è rivelatore). Ma insieme a speranze smisurate l'uomo nutre anche paure affabulatrici: la rivolta dei robot, il ‛mondo nuovo', l'esplosione atomica, l'inquinamento devastatore, ecc. Naturalmente, come il passato tecnico permette di immaginare nuovi notevolissimi progressi, così certi effetti disastrosi legittimano il timore di difficoltà crescenti, ma l'atteggiamento ‛mitico' consiste nell'assolutizzazione sia delle speranze sia delle paure, e nell'attesa dell'avvento di una situazione definitiva, radicale, irrimediabile.
Le immagini di questo genere sono note (e d'altronde quelle negative sono diffuse dalla fantascienza americana più spesso di quelle positive). Le due conclusioni sono sempre il paradiso o l'apocalisse. Tutto ciò rientra in quell'atteggiamento religioso verso la tecnica che non solo ci sembra caratteristico della psicologia dell'uomo moderno, ma anche parte integrante del fenomeno tecnico considerato nel suo insieme. In altri termini, la tecnica può diventare ‛sistema' solo grazie all'insieme delle credenze (negative e positive) che l'uomo sviluppa nei suoi confronti; sono proprio esse, infatti, a promuovere l'adesione basilare al sistema tecnico. Ora, l'autoaccrescimento del sistema è possibile solo se l'uomo svolge esattamente il proprio ruolo, vale a dire se aderisce al processo e vi si adatta (anche se mai perfettamente). In caso contrario, attraverso la critica o il rifiuto, l'uomo costituirebbe un freno e introdurrebbe nuove disfunzioni; i fenomeni di fede e di adesione sono, dunque, decisivi. Ne discende che l'autentica adesione di fondo dell'uomo al sistema razionale della tecnica è irrazionale. Egli non accetterebbe mai di entrare nel processo tecnico né di consacrarvi tutte le sue forze e la sua intelligenza, se non investisse la tecnica di un valore eminente, facendone il Valore della società e della sua stessa vita, la nuova divinità a cui vale la pena, per tutte le promesse che offre, di tutto sacrificare e subordinare. Questo atteggiamento di devozione (che si può facilmente constatare nel ragazzo di fronte alla sua moto, al suo transistor, ecc., nell'adulto di fronte alla sua automobile, nell'ingegnere davanti a una nuova macchina, nel dirigente davanti al suo calcolatore) trova il suo fondamento in parte nel culto della prestazione, che è divenuto per noi l'ultima parola in fatto di speranza, la forma nuova assunta dall'attesa costantemente rinnovata del miracolo, e in parte nel mistero che circonda pur sempre il fatto che cose inanimate o regole astratte possano produrre risultati tanto ragguardevoli. Ma il timore e l'orrore fanno certamente anch'essi parte di questa adorazione: è il tremendum, di cui il sacro è sempre investito.
Naturalmente le motivazioni possono anche avere carattere specifico, come quelle degli intellettuali, che tanto più difendono la tecnica quanto più sentono di essere da essa attaccati, rischiando di essere eliminati a vantaggio esclusivo del tecnico. Vi sono poi quelle dei tecnici, legati a quanto assicura il loro prestigio ed esprime la loro vocazione. Ci sono quelle degli operai, che, dopo un periodo iniziale di ostilità, fanno ora parte delle schiere degli adoratori della tecnica. Essi sanno bene che la durezza della loro condizione dipende non solo dall'organizzazione capitalistica ma anche dalla macchina stessa; vedono però anche chiaramente che è il prodotto della macchina che può rendere più facile e agevole la loro vita. Il consumo è il grande diversivo, il rimedio accettato. D'altro canto, nella classe operaia è penetrata la convinzione, derivata da Marx, che alla fine sarà la crescita tecnica a provocare il crollo del capitalismo.
Il capitalismo non potrà sopportare all'infinito lo sviluppo delle tecniche e soprattutto l'accelerazione dovuta al rinnovamento delle macchine prima che siano ammortizzate. La situazione si farà sempre più critica, fino al momento in cui, non potendo più reggere un tal carico, il capitalismo crollerà. Dunque anche per gli operai lo sviluppo tecnico è portatore di speranza, una speranza diversa da quella cui accennavamo sopra, ma certo non meno potente. La tecnica diventa il vero motore della storia anche qui ritroviamo la convinzione segreta di una sorta di potenza superiore e sacra in quanto intangibile. Questo atteggiamento reverenziale, questa fede appassionata li vediamo svilupparsi in modo straordinario in tutto il Terzo Mondo. Non appena l'africano o il sudamericano raggiunge un certo grado di ‛coscienza politica', non si accontenta più della rivolta contro il suo oppressore, ma impara che per lui non vi è altra via d'uscita che lo sviluppo della tecnica, che viene investita di una potenza inimmaginabile: è la tecnica che risolverà tutti i problemi del Terzo Mondo e assicurerà l'autentica indipendenza dagli Occidentali. L'unica via che si apre è quella della tecnicizzazione. Non serve a nulla avvertire gli intellettuali e i dirigenti di questi paesi di tutti i pericoli e le difficoltà inerenti alla tecnica, poiché su questo punto sono del tutto insensibili, tutti presi dalla fede nelle sue virtù miracolose (tralascio di prendere in esame, perché troppo ovvio, il caso del cargo cult). Infine, come ultimo aspetto di questo atteggiamento mitopoietico dell'uomo sottolineerò il fatto che la tecnica è diventata il criterio universale di discriminazione: Consideriamo il semplice problema del mutamento nella definizione dell'uomo primitivo. Per molto tempo è stato definito Homo sapiens, sottolineando che ciò che differenzia l'uomo da tutto il resto è l'intelligenza e la sua attitudine ad apprendere, con tutti gli elementi che vi sono associati, memoria, capacità combinatoria, capacità di confronto, comprensione e immaginazione. Questa definizione ha poi ceduto il posto a quella di Homo faber, già annunciata da qualcuno; forse per primo, B. Franklin definisce l'uomo come tool making animal, mentre in seguito Marx sottolineerà che ciò che rende l'uomo tale è la sua capacità di fabbricare strumenti per la fabbricazione degli oggetti di cui ha bisogno. Perciò definire l'uomo faber non significa soltanto che possiamo essere certi che un certo osso è di origine umana quando è associato a un utensile, per rudimentale che sia, ma anche enunciare un criterio di specificazione dell'uomo ciò che lo rende effettivamente uomo. D'altronde questo criterio verrà esteso; ciò che attualmente caratterizza la civiltà è lo sviluppo e la possibilità della crescita, entrambi effetti della tecnica. In realtà il mondo si divide in due: i popoli tecnicizzati e gli altri. Non si tratta solo di una constatazione di fatto, ma anche della convinzione di una superiorità e della definizione dell'unico avvenire possibile. Tutto ciò in realtà non è né scientifico, né obiettivo, né fattuale come si vuol far credere, ma nasce dalla scelta di un criterio di valore; più esattamente lo scientifico poggia su una convinzione passionale. L'uomo è qualificato come faber perché la fede nella tecnica è decisiva e costituisce il criterio per valutare ogni altra cosa. Si tratta della stessa operazione compiuta nel Medioevo, quando si assimilava il cristianesimo alla natura e si riteneva che ogni uomo obbedisse a una morale contemporaneamente naturale e cristiana. In realtà, la morale cristiana poteva essere dimostrata come morale naturale solo sulla base della fede. Per la tecnica, ci troviamo di fronte a un atteggiamento analogo.
5. La prevedibilità della tecnica
Le ricerche di previsione si moltiplicano. Sembrerebbe che per la tecnica esistano difficoltà minori che per altri settori dell'attività umana. Esiste in effetti una certa razionalità nella derivazione delle tecniche dalle scoperte scientifiche, nel combinarsi delle tecniche tra loro e negli adattamenti socioeconomici al fenomeno tecnico. Si può constatare, per esempio, che esiste una notevole regolarità nell'intervallo fra una scoperta scientifica e la sua applicazione tecnica, tra l'innovazione tecnica e la sua generalizzazione presso il pubblico (non bisogna mai dimenticare che il fenomeno tecnico è costituito non dall'innovazione in sé ma dalla sua applicazione e diffusione).
Vi è un intervallo che varia dai 14 ai 20 anni tra la scoperta scientifica e la messa in circolazione dei prodotti che ne sono derivati, e non sembra che questo intervallo si sia abbreviato sensibilmente. In base a ciò, alcuni hanno creduto di poter affermare che siamo in grado di prevedere con assoluta certezza le applicazioni che saranno realizzate da oggi alla fine del millennio: è sufficiente analizzare le conoscenze scientifiche attuali e trarne tutte le conseguenze possibili. Da un lato, possiamo essere certi che dai risultati scientifici saranno tratte tutte le applicazioni possibili; dall'altro, le applicazioni derivanti da nuove scoperte scientifiche, che non conosciamo ancora, potranno aver luogo solo dopo il 2000 e dunque non devono essere prese in considerazione in una previsione ragionevole. Non siamo quindi, sembra, abbandonati al capriccio della nostra immaginazione. Certo, possiamo sempre, trascurando ciò che è, immaginare ciò che sarà, ma in questo caso usciamo dal campo delle previsioni per entrare in quello della fantascienza. Le due cose non vanno confuse, come fa allegramente A. Toffler nel suo mediocre e troppo famoso libro Future shock. Se si vogliono fare previsioni serie, bisogna considerare lo stato attuale delle scienze e delle tecniche prescindendo dalle scoperte ipotetiche. Ci sono poche o nessuna possibilità che compaia un fattore nuovo capace di sconvolgere ‛rapidamente' l'evoluzione probabile. Detto questo, bisogna almeno distinguere tre termini di previsione. Il lungo termine, tra i 25 e i 30 anni, si situa al limite del campo di ciò che è prevedibile come conseguenza della scienza moderna; ci troviamo di fronte a una sorta di salto in un avvenire indiscernibile, perché il numero dei fattori da combinare va oltre le nostre possibilità. Nelle previsioni a lungo termine ci si limita di solito a indicare un punto di arrivo; per esempio fra trent'anni l'uomo lavorerà 8 ore la settimana, oppure il cancro sarà sconfitto, o, ancora, si faranno bambini in provetta. Si tratta, come qualcuno ha notato, del tipo più facile di previsioni, perché chi attualmente le formula sarà morto quando se ne dovrà verificare l'esattezza. Comunque, queste prospettive a lungo termine sono caratterizzate dalla semplice enunciazione dei risultati ‛bruti': si evita cioè di descrivere le fasi intermedie e la via da seguire, nel corso dei 25 o 30 anni futuri, per raggiungere i risultati in questione.
Abbiamo poi le previsioni a breve termine (meno di 5 anni); sono più certe e forniscono risultati abbastanza solidi. È infatti possibile fare previsioni concrete in campi limitati, per esempio prevedere quale sarà l'evoluzione dei trasporti automobilistici o aerei nei successivi tre, quattro o al massimo cinque anni; su questo terreno, è possibile particolareggiare ogni elemento. Bisogna però tener conto di due fatti: anzitutto si tratterà sempre di previsioni riguardanti un settore preciso e particolare e mai una dimensione globale della società; in secondo luogo, difficilmente in un tale lasso di tempo avvengono mutamenti decisivi e radicali suscettibili di previsione. Si può anzi affermare che a breve termine non avverrà nessun cambiamento radicale, in quanto, come abbiamo visto in precedenza, il progresso tecnico avviene per accumulazione di elementi da combinare; è necessaria, quindi, una sufficiente accumulazione perché abbia luogo un'innovazione realmente importante. Ora, nella previsione a breve termine, nella quale la possibilità di identificare con sufficiente sicurezza i fattori d'evoluzione consente di fornire un quadro molto particolareggiato, si lavora quasi solo sui dettagli, cioè non si procede mai ad analizzare l'accumulazione. Non siamo in grado di domandarci dove avvenga questa accumulazione e come si effettuino le interazioni; perciò nella maggioranza dei casi la previsione a breve termine consiste solo in un'estrapolazione dai dati attuali; si possono eventualmente prevedere delle inversioni di tendenza quando esistano dei segni precursori decifrabili.
La prospettiva veramente importante è quella a medio termine, diciamo una quindicina d'anni. In questo caso siamo costretti a tener conto per un verso delle accumulazioni di innovazioni tecniche e per l'altro delle modalità di passaggio e dei processi di evoluzione (e non solo del risultato finale puro e semplice). La previsione a medio termine consiste nel domandarsi ‛in che modo succederà'. Viene spiegato che l'associazione del calcolatore e dell'automazione porterà alla settimana lavorativa di otto ore. Ora, nella previsione a medio termine, è necessario chiedersi: quali trasformazioni salariali questo comporta? Come si ridurrà l'orario per tutti gli operai (anche quelli dei settori non automatizzati) e come si eviterà che questa riduzione divenga in realtà una forma di disoccupazione? Come potrà sussistere il meccanismo del profitto? Come potranno essere evitate le distorsioni economiche tra settori automatizzati e non (agricoltura in primo luogo), come si effettuerà lo spostamento da un lavoro all'altro, come sarà assorbita la produzione in serie, ecc.? In altri termini: è possibile moltiplicare le applicazioni dei calcolatori ed è possibile sviluppare l'automazione; dunque, è possibile ridurre per tutti la giornata lavorativa. Ma, invece di considerare solo il risultato finale collocandosi semplicemente al livello della pura tecnica, è necessario, nella previsione a medio termine, tener conto delle conseguenze umane, economiche, sociali e finanziarie del periodo di transizione fra la settimana di 40 (o 48) ore e quella di 8 ore. Questo, e solo questo, è il fatto essenziale, perché è qui che possiamo saggiare l'autentico processo di evoluzione tecnica, che non avviene in vitro ma in vivo. È qui che possiamo verificare ostacoli o facilitazioni che non sono di ordine strettamente tecnico, ma appartengono a quell'elemento irrazionale, che, come dicevo sopra, caratterizza la relazione tra l'uomo e la tecnica. Ora, qui ci troviamo di fronte a difficoltà di previsione notevolissime. È evidente che il metodo corrente di estrapolazione non funziona affatto nel medio periodo. Il metodo degli scenari può sembrare attraente, ma risulta assolutamente inefficace se si fa entrare in gioco un numero troppo grande di fattori. Perfino se conoscessimo le leggi autentiche della crescita del sistema tecnico (e siamo ben lontani dal conoscerle), tale conoscenza non basterebbe, perché non ci darebbe il quadro globale delle relazioni tra la tecnica e l'ambiente umano; e la partita si gioca proprio qui. Quanto più avanziamo nella conoscenza della sociologia della tecnica, tanto più scopriamo fattori di cui si deve tener conto. Quanto più s'affina e si perfeziona il metodo di previsione, tanto più ci si rende conto della complessità del problema. Per esempio, attualmente siamo costretti, di fronte a ogni innovazione tecnica, a porci il problema delle conseguenze ecologiche e non solamente di quelle economiche. Ma ben presto dovremo tener conto anche di una quantità di conseguenze sul piano umano: conseguenze nervose, psichiche, ecc.; dovremo cioè tener conto del rumore, degli ingorghi, delle perdite di memoria e di attenzione, ecc. Se non si pone il problema in questi termini, non si fa alcuna previsione seria perché l'insorgere imprevisto e improvviso di effetti del genere può perturbare radicalmente il corso dello sviluppo tecnico. D'altra parte, se si vogliono veramente misurare tutti gli effetti, ci si rende immediatamente conto non solo della difficoltà di valutare effettivamente il loro emergere e la loro intensità, ma soprattutto dell'impossibilità di combinare questi fattori gli uni con gli altri in modo da trarne conclusioni circa l'evoluzione probabile. Infine, al di là della difficoltà concreta, effettiva, scientifica della previsione, sussiste, più che in ogni altro campo, un elemento notevole di perturbazione, costituito dalla proiezione nel futuro delle nostre ideologie, fattore questo che gioca a parecchi livelli. Innanzitutto, possiamo essere portati a scegliere inconsciamente un fattore considerandolo determinante (per esempio, l'accrescimento della quantità di energia messa a disposizione di ciascun individuo) e valutare tutto il resto partendo da quel fattore. La cosa è pressoché inevitabile, ma bisogna prendere coscienza che si tratta in realtà di una scelta ideologica. In secondo luogo, noi collochiamo sempre le nostre valutazioni dell'avvenire in un determinato contesto politico e sociale, compiendo in tal modo una scelta pregiudiziale (per esempio a favore della democrazia, intesa come ideale da raggiungere; assai caratteristico in questo senso il libro di Kahn e Wiener, The year 2000, 1967). Infine, e in ciò vi è una distorsione complementare, è proprio nella previsione che ci abbandoniamo (involontariamente) alle nostre speranze e paure. Per quanto cerchiamo di essere rigorosi, non possiamo evitare di colorare l'evoluzione secondo le nostre esperienze tangibili attuali. In altri termini, delineare una prospettiva in materia d'evoluzione della società tecnica è quasi impossibile, mentre resta possibile, beninteso, fare previsioni rispetto a ‛una' tecnica o anche a una branca industriale. È abbastanza possibile redigere elenchi di innovazioni tecniche, scaglionate nel tempo.
Si può certo dichiarare che un giorno si arriverà su Marte o che si utilizzerà l'elicottero come mezzo normale e individuale di trasporto o si procederà all'ibernazione dei moribondi, ecc. Ma tutto ciò non ci dice nulla su quella che sarà la società tecnica: in tutti i tentativi globali di previsione si constata uno scarto nettissimo tra i due momenti, affatto analogo a quello che si riscontra sul piano storiografico. Una storia delle tecniche (per es. quella di M. Daumas o quella di P. Rousseau) non ci permette affatto di comprendere la natura del sistema nel suo complesso e le sue ripercussioni nei differenti campi. Non ci viene offerto altro che cataloghi di applicazioni, anche se ci si sforza di metterle in relazione reciproca e di spiegare quali fossero le condizioni favorevoli che le hanno fatte emergere e sviluppare. Ora, uno dei fattori più sconcertanti nella ricerca globale è la disparità di sviluppo dei differenti settori della tecnica. Si assiste a un balzo in avanti ora nel campo dei trasporti (cui fa seguito un arresto più o meno lungo), ora in quello dell'energia; le differenti tecniche non procedono affatto secondo un ritmo regolare ed equilibrato. Per un secolo si è potuto affermare che le tecniche d'ufficio erano perfettamente stazionarie o comunque che il loro sviluppo era lento e frammentario (aggiunta di una macchina, la macchina da scrivere; generalizzazione di una tecnica, la stenotipia), ma da una trentina d'anni a questa parte assistiamo a uno sviluppo folgorante che sconvolge tutte le tecniche di organizzazione e anche di produzione. Lo sviluppo a balzi e pause rende la previsione ancor più difficile, dato il frequente intervento di fattori psicologici e sociologici: per esempio, la pressione dell'opinione pubblica in un senso piuttosto che in un altro o l'infatuazione per una tecnica che goda di grande prestigio (astronautica, chirurgia). Ma il prestigio è mutevole e può succedere che ci si disinteressi di una tecnica: ci saranno sempre meno giovani che si prepareranno a esercitarla, l'opinione pubblica sarà sempre meno favorevole alla concessione di stanziamenti per il suo sviluppo, e cosi via. Bisogna anche tener conto, attualmente, di accessi di panico e di smarrimento, per esempio di fronte all'inquinamento. Ora, assai difficilmente possiamo prevedere questi mutamenti del clima psicologico e dell'opinione pubblica. Sorge così un ulteriore fattore di difficoltà, al quale si deve se, come caso estremo, possiamo trovarci nell'impossibilità di dire se il progresso tecnico continuerà a svilupparsi con lo stesso ritmo e la stessa accelerazione o se, al contrario, ci stiamo avvicinando a un periodo di stasi. Dieci anni fa nessuno avrebbe avuto dubbi sulla risposta; sulla base dei progressi di un secolo si prolungavano le curve arrivando ad accelerazioni folgoranti. Certamente, è ancora possibile che le cose vadano in questo modo: non vi è alcun segno concreto di rallentamento e non bisogna dimenticare che tutti i profeti dell'arresto del progresso tecnico o della catastrofe tecnica si sono sbagliati. Ma attualmente non si può essere così sicuri. Il rovesciamento dell'opinione pubblica, l'opposizione dei giovani, il disgusto per certi aspetti della tecnica, la convinzione, avanzata da esperti eminenti, che in numerosi campi si è arrivati al massimo possibile di applicazioni, e infine i problemi economici insolubili della messa in opera di tecniche sempre più costose: questo insieme di fattori permette di domandarci se non assisteremo nei prossimi dieci o al massimo vent'anni a un arresto forzato e obbligato, a una pausa necessana per riprendere respiro, riorganizzare il tutto, umanizzare il sistema, riequilibrare l'economia. In effetti vi sono macchine che mettono talmente in pericolo tutti i fattori di organizzazione che diventa difficile prospettare la possibilità di un progresso continuo: valga per tutti l'esempio del calcolatore.
In altri termini, non è affatto possibile fare previsioni serie; possiamo solo avanzare ipotesi e prendere atto delle situazioni esistenti, che conosciamo in realtà in modo molto sommario, tanto sommario che possiamo perfino scambiare per realtà del domani quello che già avviene sotto i nostri occhi, ma che non siamo capaci di vedere.
6. Lo svuotamento del politico
Vi sono campi in cui gli effetti della tecnica sono andati talmente avanti che difficilmente si sbaglia, anche sbilanciandosi un poco: per esempio, lo svuotamento del politico. Dico subito che con ‛politico' intendo riferirmi alla sfera del potere su scala nazionale, alla conquista e all'esercizio di tale potere. Ci troviamo qui di fronte a un effetto notevole, anche se ancora poco noto, della tecnica. Per comprenderlo bisogna partire da ciò che costituisce l'oggetto dell'impegno dei politici: la presa di decisioni. In altri tempi le decisioni, relativamente poco numerose, riguardavano problemi umani di relazioni fra gruppi - in caso di necessità, questioni economiche - e l'applicazione amministrativa di queste decisioni avveniva in modo regolare; il diritto dava un ordine sufficientemente rigoroso al tutto. La maggior parte delle questioni poteva essere formulata in termini giuridici e le decisioni politiche modificavano l'organizzazione del corpo sociale, i rapporti di forza fra i gruppi, i procedimenti di conciliazione e d'arbitrato, ecc. Per questa ragione la politica era strettamente intrecciata con la morale. Ora, tutta questa situazione ha subito profondi mutamenti. Attualmente, compito costante del potere politico è quello di prevedere l'applicazione di nuove tecniche e lo sviluppo di quelle vecchie. Le migliaia di decisioni ‛politiche' - studiate da uomini politici, prese da organi politici - riguardano l'elettrificazione, gli insediamenti industriali, l'attuazione di nuovi procedimenti di fusione nucleare, la costruzione di alloggi e autostrade, ecc. , vale a dire che per ogni decisione politica, nel vecchio senso del termine, si è costretti a prenderne mille di tipo nuovo. Ciò comporta una molteplicità di conseguenze, tra cui, innanzitutto, il fatto che l'incidenza di tali decisioni si prolunga nel tempo. In un regime democratico, se un'assemblea a maggioranza di sinistra aveva deciso un aumento delle imposte dirette e un alleviamento di quelle indirette, una nuova maggioranza di destra poteva invertire la rotta: tre mesi bastavano per l'attuazione del nuovo regime fiscale. Esisteva una grande elasticità nella decisione e nella possibilità di applicazione. Raramente si davano iniziative irreversibili. Perfino una decisione (che è già comunque molto tecnica) di nazionalizzazione poteva essere seguita da una decisione di riprivatizzazione.
Il contrario avviene per le decisioni che riguardano grandi opere tecniche, dove è praticamente impossibile fare marcia indietro (un'autostrada già costruita non può essere distrutta) e dove soprattutto ci si impegna in un programma che non consente arresti: se un govemo elabora un programma di sviluppo dell'elettrificazione, un nuovo governo non può in alcun modo annullare quanto è stato fatto, sopprimere i lavori effettuati e lanciarsi su una strada diversa. I mutamenti di maggioranza politica sono assai meno importanti: nulla possono, infatti, contro l'inevitabile estensione temporale dello sviluppo tecnico, estensione che lo rende difficilmente manipolabile e orientabile. Perfino un progetto assurdo come quello dell'aereo Concorde deve essere completato; anche se tutti sono d'accordo nel condannarlo, non si possono annullare i miliardi spesi, i posti di lavoro creati, le invenzioni effettuate, ecc. Altra conseguenza fondamentale della ‛tecnicità' delle decisioni è l'incompetenza della maggioranza del personale politico. So perfettamente a quali sospetti si presta un'affermazione di questo genere: si tratta di un argomento tradizionale della destra, che da tempo sottolinea l'incompetenza del personale politico reclutato per via elettorale. Ma quello che mezzo secolo fa era solo un argomento di polemica politica diventa ora una realtà. È del tutto evidente che un ministro o un deputato si trova di fronte a una scelta: o lavorare su ‛un solo' problema come un autentico tecnico, cioè immergersi negli aspetti più profondi di un dato campo, diventando così, all'interno del personale politico, lo specialista di aeronautica, o di elettronica, o di medicina, ecc. (la conseguenza è però, allora, l'incompetenza per 999 su 1.000 dei problemi in discussione); oppure procacciarsi qualche idea generale su ogni questione leggendo (se è una persona seria!) un libro sull'ecologia, uno sulle tecniche di organizzazione, ecc., col risultato di poter fare, su questi problemi, qualche discorso vacuo e impreciso. D'altra parte, se non è una persona seria, s'impadronirà di qualche argomento di moda (per esempio l'ecologia), parlandone a vanvera. Non esistono altre possibilità.
Nel primo caso avremo un uomo politico che, diventato veramente uno specialista, è incapace di una visione globale dell'economia o della società tecnica moderna, e si rinchiuderà nella propria specialità. Oggi, il caso più frequente è quello di un personale politico che prosegue il gioco tradìzionale della presa e dell'esercizio del potere in tutti i campi, assai competente nella dialettica parlamentare e nei meccanismi giuridico-amministrativi, ma senza alcuna competenza sull'oggetto delle decisioni. Questo personale svolge la funzione di ‛paravento responsabile': è necessario che davanti all'opinione pubblica qualcuno si addossi l'apparenza del potere, la responsabilità ufficiale delle decisioni, che ci siano nomi attorno ai quali si aggreghino ostilità e consensi. Ma questo quadro si è ormai svuotato di ogni realtà. Attualmente, il processo decisionale si presenta pressappoco in questo modo: l'uomo politico percepisce, attraverso il movimento dell'opinione pubblica o i mass media, un problema e lo sottopone alla burocrazia, che costituisce commissioni di specialisti, vale a dire di tecnici; le commissioni studiano il problema e giungono a certe conclusioni, che ricevono forma definitiva dalla burocrazia. L'uomo politico riceve il rapporto finale, su cui, se necessano, fa lavorare ulteriormente gli esperti. Una volta presa la decisione, la pratica è rimessa a un'altra branca dell'amministrazione, che s'incarica dell'applicazione. Qui troviamo un'altra fase di collaborazione fra burocrazia e tecnici. Si tratta infatti di sapere come la decisione potrà trovare attuazione concreta, il che richiede adattamenti e talora modificazioni. Bisogna anche tener conto del fatto che, spesso, all'origine di uno sviluppo tecnico, troviamo l'iniziativa dei tecnici, che investono per primi gli uomini politici o l'amministrazione di un problema che ritengono essenziale. Ciò tende ad avvenire sempre più spesso e si accorda con il processo causale di crescita tecnica. I problemi effettivi che si pongono sono di ordine tecnico e gli uomini politici li scorgono solo quando i tecnici interessati sono riusciti ad attrarre su di essi la loro attenzione. Dal canto suo, il pubblico, essendo sempre attirato dagli elementi più spettacolari, ignora completamente questi problemi reali, che riguardano la struttura effettiva della nostra società. Tutto viene dunque preparato e attuato attraverso una combinazione di tecnici e burocrati (che, d'altro canto, diventano sempre più dei tecnici dell'amministrazione).
Non voglio con questo affermare che l'uomo politico è costretto semplicemente ad avallare quello che i tecnici banno preparato. Intanto, vi può essere un conflitto tra differenti gruppi di tecnici. È questo un argomento che, sebbene largamente sfruttato dai sostenitori della supremazia del politico, si rivela in realtà di scarso peso. Si possono fare a questo proposito almeno quattro osservazioni. In primo luogo, è bensì vero che su un problema di dettaglio vi possono essere opinioni diverse tra i tecnici; se si tratta però di una questione di ordine più generale, le differenze tendono a scomparire. Ancora, vi possono essere contraddizioni in caso di ricerche svolte a livelli diversi di precisione, profondità, rigore di analisi e di metodo (si può sempre immaginare una ricerca più rigorosa delle altre): ma l'uomo politico non sembra il più adatto per valutare queste differenze! In terzo luogo, le divergenze tra tecnici ed esperti riguardano quasi sempre gli ‛effetti' di una determinata applicazione tecnica, e abbiamo già visto che in realtà è questo l'elemento più incerto. Ma anche in questo caso il più incompetente è ancora l'uomo politico, che sceglierà un determinato orientamento per motivi assolutamente non seri. Infine, e si tratta probabilmente del punto principale, il disaccordo insorge quando ci sono tecnici che, mantenendosi indipendenti, lavorano esclusivamente come tecnici, mentre altri, totalmente asserviti, dicono ciò che i politici si aspettano da loro; così è avvenuto in Francia quando, di fronte agli studi sugli effetti della radioattività, F. Perrin ha sostenuto non esservi motivi di timore o quando Barre ha spiegato che la crescita tecnica non nuoce affatto all'ambiente. In casi del genere il tecnico obbedisce non a una seria analisi, ma a un conformismo politico. Infine, è certo che l'uomo politico, per motivi di prestigio, di demagogia, di opposizione a un gruppo avverso, per interesse personale, per sottomissione a un gruppo di pressione economico, ecc., può sempre prendere una decisione completamente diversa da quella suggerita dai tecnici, ma bisogna rendersi pienamente conto che in questo caso la decisione dei politici si rivela ‛sempre' antitecnica e insoddisfacente: è un fenomeno che appartiene allo stesso ordine della corruzione o delle raccomandazioni nella burocrazia (alle quali, però, il politico è naturalmente estraneo).
In quest'analisi è d'altro canto necessario sottolineare un fatto importante: sempre di più l'associazione tra burocrazia e tecnici dà vita a microcentri decisionali, vale a dire che, dietro la decisione apparentemente centrale e globale dell'uomo politico, si celano decine di decisioni autonome, prese dalle autorità amministrative. Si tratta di decisioni riguardanti problemi particolari, corrispondenti allo stile amministrativo - descritto da Max Weber - nel quale si esprime la ‛tecnicità' delle situazioni. In questo caso ci troviamo di fronte a uno svuotamento del politico di un livello assai modesto e apparentemente senza importanza, ma non bisogna dimenticare che la realtà della vita degli uomini e delle società è fatta assai meno di grandi decisioni spettacolari o di conferenze mondiali che di queste ‛microdecisioni'. È anzitutto a questo livello che la tecnica si inserisce, che regna lo spirito tecnico, definito a torto burocratico, dato che è legittimo parlare di burocrazia solo a proposito di un'amministrazione inefficiente, sorpassata, inutilmente formalista, che applica in modo automatico regole ridicole; ma tutto ciò sta per essere sostituito da amministrazioni più efficienti, più rigorose, più ‛tecniche' appunto. Certamente queste amministrazioni non sono al riparo dal principio di ‛ingombro' di Parkinson o dal principio di ‛incompetenza' di Peter, ma non vi è alcun dubbio che la progressiva applicazione delle tecniche di organizzazione risolverà questo genere di problemi fino a raggiungere il massimo di efficienza. Resta allora una questione molto importante: la mancanza di un rapporto gerarchico tra la decisione globale del politico e le microdecisioni delle amministrazioni. Spesso si descrive la situazione sostenendo che il ruolo del politico consiste nel tracciare le linee direttive, nel fare le scelte decisive, nel fornire gli orientamenti generali, mentre tecnici e amministratori hanno solo il compito di trovare i mezzi tecnici atti a concretizzare le decisioni politiche. Riscontriamo qui ancora l'idea della tecnica come puro strumento neutro nelle mani dell'uomo, che è libero di usarlo nel modo che preferisce, per il bene o per il male. Mi sembra invece di aver dimostrato che la tecnica non è più questo, che ha un'autonomia specifica e produce effetti specifici, e che d'altra parte l'uomo non è affatto un soggetto indipendente in un universo di oggetti tecnici neutri: affermare il contrario sarebbe dar prova di semplicismo. Per quanto riguarda i politici, ricordiamo che, in ogni caso, le loro decisioni globali sono preparate dai tecnici e ormai non possono più esprimere delle scelte popolari.
Se queste decisioni hanno una possibilità di essere applicate, e quindi di costituire qualcosa di diverso da un discorso completamente vuoto, devono per forza - se non tradurre esclusivamente le scelte dei tecnici - almeno collocarsi all'interno delle alternative presentate dai tecnici. Quando si pensa che i ‛rappresentanti del popolo' sono pienamente liberi di scegliere, per esempio, gli obiettivi della programmazione e che successivamente i programmatori sono solo esecutori che danno forma alle decisioni politiche, e trovano i mezzi per realizzarle, si è vittime di un'illusione.
In realtà, gli uomini politici sono coinvolti in un certo processo tecnico e non hanno altra possibilità che di continuarlo. Oggi, per esempio, è impensabile, in Francia, sostenere che bisogna abolire la programmazione, o anche che la programmazione implica una priorità assoluta dell'ambiente sulla crescita. Viceversa, nel campo delle decisioni politiche è possibile discutere senza fine su una crescita del 4,5 o del 5% o sulla scelta tra impianti culturali e impianti ospedalieri, ecc. In altri termini, esclusa la possibilità di rimettere in discussione la crescita della società tecnica, si può discutere quale debba essere il ritmo di questa crescita; esclusa la possibilità di realizzare contemporaneamente tutte le potenzialità aperte dalla tecnica, si può discutere delle priorità: si tratta, comunque, di continuare il processo tecnico. Nulla di decisivo è messo in questione dalle decisioni politiche; del resto, si sa bene che, se per un certo periodo si ritarda la realizzazione di impianti ospedalieri, è su questo obiettivo che sarà necessario far convergere gli sforzi nel piano successivo, che risulta così condizionato dai precedenti. Il ruolo dell'uomo politico si rivela quindi completamente illusorio.
Non bisogna, tuttavia, sbagliarsi nella definizione del sistema sopra delineato, che non è affatto una ‛tecnocrazia', nella quale il tecnico in quanto tale eserciterebbe effettivamente il potere politico: l'esperto diverrebbe ministro. Ciò che più conta, una tecnocrazia sarebbe il frutto di una sorta di colpo di Stato realizzato da un'organizzazione di tecnici di tipo aristocratico o elitario, con soppressione della democrazia. Ora, io non credo che ci stiamo muovendo verso un regime di questo genere. In generale, i tecnici non desiderano esercitare il potere, e ciò per una varietà di ragioni (non posso qui esaminarle tutte), che vanno dalla chiara consapevolezza della loro incompetenza in materia politica alla convinzione che la politica è un gioco superficiale e poco interessante. In fondo è molto più pratico e soddisfacente, per i tecnici, essere i padroni degli uffici e i consiglieri che i personaggi del proscenio, i titolari troppo visibili del potere. Essi non hanno alcun desiderio di lanciarsi nella bagarre della ‛conquista del potere' quando posseggono, attraverso la loro competenza, la realtà del potere stesso. È assai più soddisfacente conservare l'apparenza della democrazia, un rituale politico rassicurante per il popolo, la protezione costituita dalla diversione dell'opinione pubblica verso il gioco politico, i vantaggi dell'‛irresponsabilità': la responsabilità ufficiale appartiene infatti al politico. Nella misura in cui quest'ultimo non è in grado di fare più nulla senza l'intervento del suo consiglio di tecnici, questi traggono dal sistema tutti i vantaggi senza i fastidi e le perdite di tempo dell'azione politica. Non esiste dunque praticamente nessuna possibilità di instaurare una tecnocrazia; sussistono invece tutte le condizioni, in ogni paese tecnicamente avanzato, perché il velo di una democrazia apparente occulti il potere di una rete di tecnici, nel ruolo di modesti consiglieri. La creazione di una forma di democrazia apparente rappresenta, probabilmente, addirittura un'esigenza per i tecnici. Per questo motivo si assiste nell'URSS a una ‛liberalizzazione' del regime, il che corrisponde esattamente alla creazione di un'apparenza democratica; ma questa liberalizzazione è dovuta meno a un mutamento della dottrina o al miglioramento del livello di vita che all'influenza dei tecnici, che sentono il bisogno, per esercitare il loro potere reale, di lavorare in un'organizzazione più serena, più equilibrata, più distesa. La democrazia costituisce il regime in cui i tecnici si sentono maggiormente a loro agio sia per esercitare il loro potere sia per la ricerca. Generalmente, essi non hanno opzioni politiche chiare e difficilmente s'impegnano nella via delle riforme del regime politico; cercano di agire e di usare la loro influenza in questo ambito solo quando il regime non permette loro di sfruttare nel modo migliore le capacità tecniche. Quando il politico diviene un ostacolo invece che un elemento di facilitazione, quando accumula decisioni anti-tecniche, quando blocca la crescita tecnica, quando non fornisce al tecnico i mezzi necessari al suo lavoro, allora nasce un conflitto che può, beninteso, risolversi per un certo tempo a vantaggio del politico, qualora questi detenga mezzi di costrizione assoluti e terroristici. Il tecnico non tenterà mai un'azione rivoluzionaria, ma avrà inizio una guerra di logoramento, destinata a concludersi sempre con la sconfitta del politico, il quale non può resistere a lungo di fronte alla non collaborazione dei tecnici. Certamente, tutto questo va visto in modo sfumato, perché ci saranno tecnici disposti a lavorare, per un certo periodo, in piena obbedienza al regime; tuttavia, il conflitto sussisterà e l'unico sbocco possibile è quello da noi indicato.
7. Svuotamento dell'uomo?
Se è esatto affermare che l'attività politica tende a divenire illusoria a causa della tecnica e se è certo possibile parlare di una sorta di svuotamento del politico, non è forse possibile parlare egualmente di uno svuotamento dell'uomo? È questa una possibilità sempre presente nell'orizzonte di ogni riflessione attuale sulla tecnica. Naturalmente, ci s'imbatte in ogni sorta di interpretazioni. Per gli uni, si annuncia l'epoca del tempo libero: la tecnica farà tutto e l'uomo, ormai liberato dalle incombenze più gravose, avrà finalmente il tempo di essere se stesso grazie alla disponibilità del suo tempo, alla protezione contro ogni pericolo e al soddisfacimento di ogni bisogno. Vi è dunque svuotamento dell'uomo rispetto a quello che fin qui ha costituito la sua vita, ma ciò in realtà gli permetterà di acquistare una nuova dimensione di uomo. Per gli altri, si tratta dello svuotamento di tutto ciò che caratterizza una vita umana: quando tutte le attività, senza eccezione, potranno essere svolte dalle tecniche, che cosa potrà essere o fare l'uomo? È una nuova versione della critica rivolta in altre occasioni al paradiso cristiano: terribilmente noioso e senza alcun interesse! Per altri ancora, infine, si tratta del dramma dei robot: il robot diviene il padrone, e l'uomo, ridotto a nulla perché inferiore sotto ogni aspetto ai robot, viene praticamente eliminato; teoricamente, l'uomo rimane il padrone, ma, anche senza bisogno di immaginarsi concretamente una rivolta dei robot, egli non esercita ormai più alcun reale controllo sulla situazione.
Tutto ciò si colora più o meno di fantascienza. Resta tuttavia vero che la crescita sbalorditiva dei calcolatori pone attualmente il problema in modo acuto. C'è una sorta di timore sacro nei confronti del calcolatore, che ha fatto il suo ingresso in quello che l'uomo considera il proprio campo privilegiato, il pensiero. Il calcolatore, è stato detto e ripetuto, certamente non pensa e si limita a compiere le operazioni che il soggetto pensante, l'uomo, gli propone. Il calcolatore fa sempre e solo ciò che l'uomo ha programmato che debba fare; il padrone resta dunque effettivamente l'uomo. Le cose, purtroppo, non sono però così semplici: bisogna tener conto almeno di due fattori. In primo luogo, lo stesso soggetto pensante è determinato in modo notevolissimo dallo strumento per il quale formula la programmazione; sempre di più si pongono i problemi non nel modo in cui può concepirli e analizzarli il cervello umano, ma come devono essere posti perché il calcolatore possa elaborarli. Da un lato, diventa così possibile tener conto di decine di variabili di cui un cervello umano non si sarebbe mai potuto far carico, ma, dall'altro, bisogna tradurre i problemi nel linguaggio del calcolatore, il che esige l'omissione di tutta una serie di elementi valutativi non quantificabili, del clima psicologico nel quale viene posto un problema, semplicemente perché il calcolatore non può recepire questo tipo di informazioni. Io sostengo che attualmente l'uomo è costretto a modificare la propria comprensione dei problemi per renderli atti a essere assimilati dal calcolatore, il quale viene quindi a decidere il modo in cui una determinata situazione deve essere presa in esame. Diventa necessario analizzarla non come può apprenderla un cervello umano, ma come può elaborarla un calcolatore. Mi sembra questa una circostanza d'importanza decisiva: l'uomo rimane sempre il soggetto che programma, ma come un operaio alimenta un apparecchio e non altrimenti.
Il secondo fattore di cui bisogna tener conto è l'esistenza di ciò che si definisce la programmazione dinamica, totalmente differente dalla programmazione lineare. I calcolatori tendono ad assumere sempre più una certa indipendenza; abbiamo così calcolatori programmati per programmare se stessi, abbiamo calcolatori con la capacità di modificare l'ordine del proprio programma in corso di realizzazione, la capacità di rettificare i propri errori a seguito di controlli in corso, la capacità di autoorientarsi e di fornire risultati non attesi dal programmatore. Sempre più appare nel calcolatore una sorta di indeterminazione, come se esso acquisisse una possibilità di scelta tra diverse risposte egualmente possibili. È evidente che, nelle sperimentazioni estetiche con i calcolatori, non si sa in anticipo quale quadro o brano di musica il calcolatore, appositamente programmato, finirà per produrre. Certo, si può affermare che l'uomo sceglierà, tra i diecimila quadri possibili prodotti dal calcolatore a partire dai dati fornitigli, ‛il' quadro che costituisce una vera ‛opera d'arte'; ma in nome di quale criterio? Circa trent'anni fa P. Russo diceva che di fronte al calcolatore la sola cosa che resta specifica dell'uomo, ora che ‟la macchina ha fatto il suo ingresso nel campo del pensiero", è la sua capacità di soffrire. Non credo che ci si possa spingere fino a questo punto, perché bisogna sempre ricordarsi che, se arriva a riprodurre esattamente il meccanismo del pensiero, se calcola in modo ammirevole, il calcolatore non sa di calcolare; in esso, cioè, è assente il fenomeno della coscienza, ed è noto che per Pascal è proprio la coscienza che distingue l'uomo dall'animale. L'uomo è mortale come l'animale, ma la sua infinita superiorità consiste nel fatto che ne è consapevole. La vera questione consiste dunque nel chiedersi se non si vada verso un'obliterazione della coscienza a causa della crescita tecnica.
Detto questo, resta vero che siamo di fronte a una sorta di svuotamento progressivo dell'uomo da parte della tecnica. È ciò che si ricava, per esempio, dalla notevole tesi di A. Leroi-Gourhan a proposito degli utensili: ogni volta che l'uomo crea un utensile, perde la capacità di fare direttamente una data cosa. Abbandona a poco a poco il proprio ‛saper fare' allo strumento e in seguito alla macchina. Naturalmente, acquisisce un'altra capacità: quella di costruire la macchina; resta nondimeno vero che la capacità originaria è perduta. Ora, se l'uomo è considerato non in astratto, ma come un insieme di relazioni, di atti, di sentimenti, di tradizioni, ecc., ogni sostituzione di un'operazione meccanica a una capacità umana precedente costituisce un impoverimento. Sappiamo quale prodigiosa capacità di osservazione, quale rapidità di riflessi, quale attitudine all'utilizzazione di ogni minimo oggetto caratterizzino l'uomo 'primitivo'; tutti gli etnologi lo testimoniano. Ora, quello che si produce è un movimento complesso: non solo, ogni volta che scopre una nuova tecnica, l'uomo abbandona la precedente capacità immediata; accade anche che, ogni volta che l'uomo abbandona uno dei suoi campi di azione, questo viene immediatamente occupato dalla tecnica. Quando l'uomo occidentale non sa più che cosa sia l'autenticità dell'amore, subito si sviluppano le tecniche dell'erotismo e si riduce il Kàmasùtra a una mera tecnica. Reciprocamente, ogni volta che s'intravede la possibilità che una tecnica occupi un dato campo, questo - che per l'innanzi (cioè prima della comparsa della tecnica in questione) era oggetto di esperienza diretta - viene abbandonato quasi istantaneamente. Naturalmente, si sosterrà che quelli abbandonati dall'uomo sono sempre compiti puramente meccanici, dunque senza importanza e senza autentico significato per lui. Si può dire la stessa cosa per il calcolatore, il quale si sostituirebbe all'uomo solo per le incombenze ripetitive, traducibili in termini di logica matematica. Ma le cose non sono così semplici. Non esiste una separazione netta tra un campo reale, umano, significativo e un campo meccanico, ripetitivo, sterile (esemplificato dall'annullamento dei biglietti dell'autobus). Bisogna prendere coscienza del fatto che anche se quella perduta dall'uomo è una capacità di tipo ripetitivo, ciò non rimane tuttavia senza conseguenze anche per la sfera significativa della sua vita. In parole semplici, possiamo dire che non esiste una sfera ‛spirituale', ricca di valore e di splendore, cui si contrappone una sfera ‛materiale' il cui peso andrebbe scaricato sulle macchine. Se non si incarna nel materiale, lo spirituale non è nulla. La sfera significativa non è quella cui l'uomo attribuisce arbitrariamente un significato, ma quella che riceve un significato dalla ‛totalità' della vita umana. Per esempio, il lavoro è vita, ma a patto che non sia tale da venir escluso dalla vita perché intollerabile, e a condizione che sia legato alla necessità stessa dell'esistenza. Un'attività che non sia legata alla totalità dell'esistenza e non presenti un certo carattere di necessità è insignificante, gratuita nel senso di indifferente e destituita di valore. Nella misura in cui la macchina e la tecnica investono ogni attività utile, indispensabile per vivere, concreta e costrittiva, l'uomo è ridotto a non avere altro spazio proprio se non quello dell'inutile e dell'irrazionale. Cercherà di consolarsi qualificando tale spazio come ‛gratuito' e conferendo all'attività gratuita un valore superiore, ma sono finzioni vane. L'atto gratuito (salvo quello della fede in Dio) è un atto senza alcun peso umano, senza alcun valore: qualunque cosa sia, non soddisfa mai. Perciò il tempo libero ha senso solo se radicato nella totalità di una vita piena di senso: non è esso che può dare un senso alla vita.
Allo stesso modo, se l'uomo d'oggi esalta l'utopia è perché si sente svuotato dalla tecnica, respinto nell'ambito dell'insignificante; esaltare l'utopia è un modo di millantarsi ancora vincitore, mentre di fatto si è esclusi dalla realtà e spossessati di ciò che fino a questo momento aveva costituito la propria vita. L'utopia non è una riappropriazione della situazione, né la formulazione di fini imperativi, ai quali si debba subordinare la tecnica. Si tratta al contrario della rinuncia a definire il reale e a fare la storia. Il pensiero utopico nel mondo tecnico consiste nel consolarsi proclamando che l'uomo, descrivendo la possibilità ultima, con ciò stesso orienta il movimento tecnico; senonché, nessuno è in grado di dire come avvenga questa magia. Certamente, nella libertà dell'utopia l'uomo può scegliere i fini che preferisce e proclamarli in tutta tranquillità, ma ciò facendo rinuncia alla sola azione autentica, quella che riguarda i mezzi, i quali, come abbiamo visto, non sono più né orientati né determinati da un fine. Se oggi l'uomo può scegliere liberamente i fini e se più facilmente che in passato può enunciare valori (affatto avulsi dalla realtà!), è perché tutto ciò non conta nulla e rimane privo di effetti. L'uomo se lo può permettere non perché sia libero o superiore alla situazione, ma perché tali fini o valori presentano un interesse unicamente per l'‛immaginario' e sono dunque, a rigore, senza valore in un mondo tecnico. La stessa cosa vale per tutto quanto appartiene all'irrazionale: come l'immaginario, anche questo ambito è lasciato spalancato all'uomo perché non ha alcuna incidenza sul reale. Ciò può dirsi inoltre della sfera politica, di quella religiosa, di quella mistica, in cui l'uomo crede di ritrovare se stesso (si pensi allo Zen, alla musica pop, alla droga, ecc.). Si tratta, in realtà, di una fuga di fronte alla razionalità tecnica e di una rinuncia: il vero pericolo per l'uomo, infatti, non è quello di essere eliminato dal ‛mostro' della tecnica, ma quello di accettare se stesso come secondario, superfluo, votato all'inutile, all'infantile, all'irrazionale, con capricci - lo vediamo nel mondo occidentale - da bambino viziato, capricci che egli confonde con la libertà. Di fronte alla crescita tecnica l'unica vittoria possibile, per l'uomo, è quella della coscienza e della razionalità. Ciò che è realmente in pericolo non è ‛la libertà' dell'uomo globalmente intesa, ma, per esempio, la sua capacità di simbolizzazione, la sua attitudine a prendere le distanze dai fenomeni, la sua possibilità di una presa di coscienza (tutti fattori, certo, costitutivi della libertà). Ora, la difficoltà principale consiste in questo, che la tecnica mette tutto ciò in questione semplicemente con la sua presenza, cioè non in quanto nemica dell'uomo ma in quanto sua ancella, in quanto mezzo sostitutivo; è la tecnica che attualmente si addossa per intero la razionalità (l'uomo non deve più preoccuparsene), è la tecnica la mediatrice universale (l'uomo non ha più bisogno di simbolizzare), ecc. Si può naturalmente sostenere che la perdita di queste capacità non ha un significato maggiore della perdita della destrezza necessaria a lavorare la selce. Non sono in grado di giudicare. È comunque certo che, in queste condizioni, sia ciò che finora si è chiamato uomo sia ciò che finora è stata chiamata libertà scompaiono. I fautori della tecnica e gli ottimisti a oltranza diranno forse che non è una gran perdita e che un uomo diverso, una diversa libertà, faranno la loro comparsa. Me lo auguro; ma diciamo allora che nulla sappiamo di quest'uomo nuovo e di questa nuova libertà. Proclamare il loro avvento è quindi nient'altro che una scommessa. Ora, se una scommessa del genere è naturalmente possibile, va però detto che non si vede che cosa l'uomo - qual è oggi - possa fare per favorire questo avvento (di che, poi, non si sa). Non resterebbe, quindi, che affidarsi alla sorte; ma ciò conferma quanto dicevamo, cioè che l'uomo rinuncia effettivamente alla qualità di soggetto. Non sembra che tale rinuncia risolva il problema della tecnica, né può costituire una via d'uscita soddisfacente per l'uomo d'oggi.
8. Vere e false inquietudini
Lo sviluppo della tecnica è sempre meno accolto con gioia e con fiducia illimitata. I suoi difensori e gli ottimisti - tra i filosofi, gli psicologi, i sociologi - mi sembrano sempre meno numerosi. Si assiste, anzi, alla moltiplicazione di opere che fanno eco ai timori e alle inquietudini. Questi lavori, oltre a esprimere, e ad alimentare, tali inquietudini, rivelano soprattutto che il pubblico, nel suo insieme, è pronto ad abbandonarsi a ogni sorta di panico. Non si canta più la ‛fata elettricità', ma si paventa lo sterminio atomico. Ora, anche lasciando da parte quanto appena detto riguardo allo svuotamento dell'uomo (e abbiamo visto che bisogna rifiutare i consueti luoghi comuni per circoscrivere il vero problema), rimane tutto un insieme di timori, di cui i più evidenti e spettacolari sono solo fittizi, mentre i motivi autentici di preoccupazione sono maggiormente dissimulati e generalmente ignorati dal pubblico. Lasceremo da parte gli aspetti particolari per considerare solo quelli più generali. Per esempio, a lungo si è temuta la perdita di significato del lavoro. Si tratta di un timore legittimo, che costituisce però solo un elemento di tutto un insieme: sarebbe scorretto concentrarsi solo su questo punto, d'altronde assai più legato alla crescita delle macchine che a quella della tecnica, la quale rappresenta anzi un fattore di compensazione e, sia eliminando il lavoro puramente ripetitivo sia permettendo una migliore informazione, risolve alcuni problemi del lavoro che sembravano, solo trent'anni fa, assolutamente tragici.
Quali sono gli effetti autentici della tecnica? Non si riesce ad accertarli con sicurezza. Ci troviamo di fronte a dispute tra esperti, che è impossibile dirimere. Facciamo tre esempi: per gli uni, le condizioni sanitarie dell'umanità migliorano costantemente grazie alle tecniche igieniche e mediche; per gli altri, si assiste alla sostituzione di malattie legate alla società tradizionale (peste, lebbra e colera) o alla società industriale (tubercolosi) con malattie legate alla società tecnica (malattie nervose, psichiche, del sistema vascolare). Inoltre, se è vero che si mantiene in vita un numero crescente di uomini che un secolo fa sarebbero morti, s'impedisce però in tal modo il funzionamento della selezione naturale, indebolendo la resistenza della specie e consentendo la trasmissione di debolezze congenite. Vivono più uomini, ma sono più deboli, meno resistenti, meno equilibrati, ecc. La controversia è insolubile. Altro esempio: per certi esperti, stiamo sprecando rapidamente le risorse del pianeta; stiamo esaurendo l'acqua, il petrolio, il carbone e tutti i minerali; si annuncia che per il 2000 o poco dopo non ci sarà più petrolio né carbone. Per altri, vi sono riserve almeno per un secolo e per quell'epoca altre sorgenti di energia suppliranno largamente a quelle esaurite. Si scopriranno anche prodotti chimici capaci di sostituire il ferro o l'alluminio: chi poteva mezzo secolo fa prevedere le fibre sintetiche e la plastica? Negli stessi termini si presenta la discussione sulle risorse alimentari: la tecnica moderna impoverisce il suolo, distrugge gli equilibri ecologici, al punto che dobbiamo aspettarci un esito catastrofico, cioè la brusca diminuzione della produzione di derrate; per contro, altri esperti affermano che fra poco saremo in grado di trovare nuove forme di alimentazione. Si parla molto, per esempio, dello sfruttamento dell'oceano, del plancton e delle alghe, suscettibili di fornire alimenti a un'umanità tre volte più numerosa di quella attuale. Altri ancora sostengono che - negli oceani - la vita tende a sparire, che, per esempio, la fauna e la flora sono diminuite nel Mediterraneo del 50% in vent'anni e che inoltre la radioattività si fissa di preferenza su certe alghe, rendendole inadatte al consumo e comportando una concentrazione di radioattività assai pericolosa nei pesci che di esse si nutrono. Infine, ultimo esempio: l'utilizzazione dell'energia atomica (prescindendo dalle esplosioni) aumenta considerevolmente la radioattività; ma non c'è accordo sugli effetti. Innanzitutto, vi sono tra gli scienziati differenze notevolissime di valutazione quanto alla soglia di tolleranza della radioattività; colpisce a questo proposito il fatto che da trent'anni a questa parte si tenda ad ammettere una soglia di tolleranza molto più elevata. Vi è poi contrasto quanto alla realtà stessa della crescita della radioattività naturale, che per alcuni, a causa dell'utilizzazione industriale dell'energia atomica, si raddoppia ogni tre anni, il che d'altra parte, sostengono altri, non è - per l'organismo - più pericoloso di quanto non sia la radioattività emessa dai quadri luminosi degli orologi. Siamo dunque in piena babele, anche se si deve comunque ammettere come indiscutibile che la radioattività è cumulativa: ogni dose, per minima che sia, si aggiunge alla precedente; pertanto, qualunque sia la soglia di tolleranza, arriverà necessariamente un momento in cui verrà superata. Bisogna anche tener conto degli effetti a lunga scadenza; vi può essere un'alterazione del patrimonio genetico, attualmente non individuabile, che si manifesterà forse solamente nella seconda generazione: la cosa è del tutto verosimile, anche se incontrollabile.
Ecco alcuni esempi di effetti della tecnica che, non potendo essere analizzati con precisione scientifica, restano nel campo delle ipotesi. Bisogna peraltro notare che, per la maggior parte di questi problemi, si dovrebbe tener conto del carattere irreversibile del fenomeno e dunque chiedersi: poiché si va verso l'esaurimento delle risorse naturali (v. energia e risorse naturali), che cosa accadrebbe se - supponiamo - non trovassimo niente per sostituirle? Aumenta continuamente la radioattività: che cosa succederà quando la soglia sarà raggiunta? Non sembra possibile tornare indietro.
Prendiamo ora due esempi di grossi timori che, sebbene diffusi, sono a mio parere poco giustificati: il primo è evidentemente quello della catastrofe atomica. Certamente l'uomo ora possiede la possibilità di annientare l'umanità e ogni forma di vita; certamente può scoppiare una guerra atomica. Ma non credo che si tratti di un autentico problema. Innanzitutto, non c'è dubbio che i detentori di questo potere siano pienamente coscienti, e preoccupati, del pericolo e manifestamente non hanno alcun desiderio di impiegare la potenza distruttiva dell'atomo; rimane naturalmente possibile un incidente, per esempio un lancio di missili atomici per cause fortuite potrebbe scatenare una guerra generale: ma un tale evento avrebbe la stessa probabilità dello scontro con una cometa! Il solo elemento veramente pericoloso sarebbe costituito da un armamento nucleare nelle mani di uomini politici irresponsabili e incoscienti, il che potrebbe avvenire se giungessero al potere negli Stati Uniti o nell'Unione Sovietica capi di Stato megalomani e privi di senso della realtà, o se l'armamento atomico si estendesse a piccole nazioni, le quali, ancora non conscie delle loro responsabilità, potrebbero provocare una guerra generale senza averne calcolato le conseguenze. Ma si tratta di un'ipotesi che diviene sempre meno verosimile, e ritengo che il pericolo di uno sterminio dell'umanità attraverso una guerra nucleare, certo sempre possibile, non costituisca in realtà un vero motivo d'inquietudine.
Negli ultimi anni il timore dell'inquinamento si è bruscamente intensificato. Che il pericolo sia grande, è cosa di assoluta evidenza: inquinamento dell'acqua e dell'aria, aumento della massa dei rifiuti non recuperabili attraverso un ricambio organico naturale (materie plastiche), moltiplicazione dei prodotti nocivi in agricoltura, ecc. Assistiamo oggi alla presa di coscienza di una realtà perfettamente nota da lungo tempo. Ora, trent'anni fa, quando denunciavo il pericolo costituito da DDT e altri pesticidi, o l'inquinamento (che mi sembrava tragico) dell'acqua, si trattava di un pericolo temibile e pensavo allora che fosse impossibile fronteggiarlo. Oggi la situazione mi sembra assai meno tragica: non che questi fenomeni siano regrediti, ma vi è stata una presa di coscienza su cui non contavo. Certamente, non esiste ancora nessun vero rimedio. Si oscilla tra le misure amministrative - destinate a rispondere colpo su colpo agli inquinatori - e il pressante grido d'allarme del MIT e di S. L. Mansholt, già vicepresidente del Comitato esecutivo della CEE (1958-1967), che proclamano la necessità di fermare la crescita economica e tecnica per evitare una catastrofe da inquinamento. Ma il fatto che mi sembra decisivo è che, se si considera la storia dell'umanità, si riscontra come l'uomo sia stato sempre capace di risolvere i problemi di cui è divenuto cosciente. Potrei riprendere la celebre frase di Marx (‟L'umanità si pone sempre solo quei problemi che è in grado di risolvere") modificandola in questo modo: quando l'umanità prende coscienza di un problema, riesce sempre a risolverlo (le civiltà scomparse sono morte di malattie di cui non avevano preso coscienza, o che non avevano voluto vedere o che avevano nascosto a se stesse sotto giustificazioni ideologiche). Tutto questo è tanto più vero quando si tratta di problemi puramente tecnici. La tecnica ha sempre saputo risolvere i problemi tecnici che via via emergevano, purché fosse possibile circoscriverli con chiarezza. Possiamo essere certi che, dal momento in cui l'inquinamento, gli squilibri ecologici e la crescita dei rifiuti sono presi sul serio e analizzati con precisione e si fa luce una volontà chiara di lottare contro di essi, la soluzione è quasi sicura. La sola incertezza riguarda il quando. Ora, i disordini provocati dall'inquinamento aumentano molto rapidamente (per esempio la scomparsa della vita negli oceani); saremo abbastanza tempestivi da impedire un disastro globale? Bisogna in effetti osservare che fino a oggi, quando si presentava una minaccia grave per l'umanità o per una società, la situazione evolveva abbastanza lentamente perché l'uomo potesse trovare la risposta e le misure protettive necessane. Oggi non è più così. Se, per trovare una risposta, si sfruttasse l'intera potenza inventiva e innovativa delle scienze e delle tecniche moderne, col sostegno di tutte le risorse finanziarie e delle passioni politiche, si potrebbe essere certi del successo; ma le cose non stanno così. Avverrà in tempo la riconversione? Questa è l'incognita.
A questo punto è necessario porre il problema di fondo, che, meno spettacolare dell'inquinamento o della bomba atomica, provoca minori inquietudini e non sollecita alcuna presa di coscienza, ma appunto perciò mi sembra assai più pericoloso. In termini generali, possiamo formularlo nel modo seguente: il sistema tecnico, che è suscettibile di una crescita indefinita e priva di ogni controllo, si situa all'interno di un sistema (terrestre) finito e limitato; ora, come può quest'ultimo contenere un sistema infinito? In altri termini: la tecnica è caratterizzata dall'autocrescita, che si produce all'interno di una biosfera; come può quest'ultima sopportare tale incessante autocrescita? Questo è il centro del problema che, definito in questo modo, contiene e riassume tutti gli altri; lo squilibrio ecologico, l'esaurimento delle riserve naturali, la crescita demografica, il conflitto fra tecnica ed economia sono tutti aspetti di questa situazione di fondo. Possiamo concepire un brusco arresto della crescita tecnica quando essa giungerà ai limiti delle potenzialità del sistema naturale? Oppure la tendenza a superare questi limiti continuerà e bisognerà allora abituarsi all'idea che l'intero ordine che l'uomo ha sempre conosciuto fino ai giorni nostri sarà sostituito? E come possiamo essere certi di sopravvivere in un mondo puramente artificiale? La dissoluzione del mondo naturale provocherebbe comunque una quantità incalcolabile di difficoltà e di sofferenze, e potrebbe essere impossibile adattarvisi. La nostra principale debolezza deriva da una duplice incapacità: da un lato, l'incapacità di arrestare a un dato momento la crescita tecnica; dall'altro, l'incapacità di prevedere esattamente - e addirittura di immaginare - ciò che può accadere nel caso si superino i limiti della biosfera. Questa è l'autentica difficoltà che abbiamo di fronte, e certo sarebbe meglio non arrivare fino al punto in cui il superamento sarebbe inevitabile. Dato che non avrà luogo in tutti i campi, per il carattere stesso del processo di crescita tecnica che abbiamo esaminato, può anche darsi che il superamento dei limiti della biosfera sia già avvenuto in taluni campi senza sollecitare una presa di coscienza, che solo perturbazioni massicce potranno imporre; ma, allora, sarà probabilmente troppo tardi.
9. Tentativi di risposta
Da quasi mezzo secolo intellettuali, artisti e filosofi si sono preoccupati della crescita tecnica, sebbene, all'inizio, principalmente sotto l'aspetto della macchina e nella maggior parte dei casi su un piano letterario. È necessario ricordare il grande poema di R. Tagore sulla macchina, Les villes tentaculaires di É. Verhaeren, le Scènes de la vie future di G. Duhamel? I primi, forse, a porre il problema nel suo insieme furono, sul piano sociologico, L. Mumford (v., 1934) e, sul piano filosofico, M. Heidegger nel suo celebre saggio sulla tecnica. A partire dal 1950 gli studi si sono moltiplicati, ma nella maggior parte dei casi l'intento è quello di proporre delle soluzioni piuttosto che di fare un'analisi seria e completa del fatto tecnico. Due sono gli orientamenti fondamentali.
Per gli uni, è l'evoluzione stessa della tecnica che fornisce una risposta sia alle situazioni politiche, economiche e sociali, sia ai nuovi problemi da essa creati basta permettere alla tecnica di evolversi; anche se i conflitti attuali sembrano insuperabili, tutto prova che l'evoluzione della tecnica è positiva. Questa corrente raggruppa autori di tendenze filosofiche e politiche molto diverse. L'altro orientamento è, al contrario, caratterizzato dalla volontà d'intervento: è necessano che l'uomo agisca, che prenda in mano il sistema tecnico, che cambi volontariamente se stesso, se vuol giungere a uno sbocco positivo. Tra i fautori di quest'orientamento si trovano anzitutto cattolici o umanisti liberali. Le due correnti sono peraltro accomunate dall'idea che la tecnica non è ipso facto positiva: essa costituisce invece un grande pericolo per l'uomo e per la civiltà, e la soluzione non verrà se non attraverso una crisi; dunque anche i rappresentanti del primo orientamento non sono semplicemente degli ‛ottimisti'.
Facciamo qualche esempio. Ovviamente, nella prima corrente incontriamo innanzitutto il marxismo. La tecnica, in questo caso, è principalmente quella delle forze e dei mezzi di produzione. Il progresso tecnico comporta il progresso economico, ma comporta anche - a causa dell'opposizione tra la stabilità dei rapporti di produzione e la crescita delle forze produttive - una tensione dialettica, la quale cresce fino a una crisi, il cui sbocco può essere solo la rivoluzione, sul terreno economico come su quello politico. La rivoluzione porta sempre la società a uno stadio superiore rispetto a quello precedente; questa nuova società si riorganizza e si stabilizza attraverso l'elaborazione di nuovi rapporti di produzione, ma sarà a sua volta necessariamente messa in discussione dal progresso tecnico. Si tratta di uno schema noto. Nella situazione attuale, il progresso tecnico è il fattore decisivo che al tempo stesso conduce alla distruzione del capitalismo, all'instaurazione del socialismo e alla liberazione del proletariato. Il capitalismo non è assolutamente in grado di sopportare una massiccia infusione di tecnica: la sua organizzazione economica finirà per sfasciarsi e scompaginarsi. Il progresso tecnico è dunque la condizione perché il proletariato possa accedere al ruolo di classe dominante e, successivamente, perché le classi scompaiano. La tecnica è dunque il fattore decisivo che determina la fine della preistoria umana. Dall'inevitabilità di tale movimento dialettico discende l'inevitabilità dell'esito, raggiunto dalla tecnica attraverso la rivoluzione. La soluzione è dunque certa (se non addirittura automatica!) poiché tutto è per definizione risolto nella società socialista, dove, scomparendo la proprietà privata dei mezzi di produzione, la divisione in classi e lo sfruttamento dell'uomo da parte dell'uomo, l'uomo trova la sua realizzazione, la sua riconciliazione e la sua disalienazione. Inserita nella società socialista, la tecnica cambia di segno; non vi è più tensione fra struttura e sovrastruttura. La tecnica non è più alienante e dunque non pone più alcun problema: in realtà, non esistono problemi della tecnica in quanto tali (e la tecnica stessa non ha praticamente esistenza autonoma), esistono solo problemi della tecnica integrata e utilizzata in - e da - un sistema capitalistico.
Esaminiamo ora, nell'ambito del medesimo orientamento, il caso affatto diverso dei rappresentanti di quello che si potrebbe chiamare il pensiero tecnocratico (per esempio A. Frisch: En réponse au défi de l'histoire, o J. Duvignaud: Pour entrer dans le XXéme siecle). Via via che progredisce, la tecnica solleva evidentemente grandi difficoltà. Bisogna però, innanzitutto, capire che tutte queste difficoltà, e magari pericoli, rientrano in un tipo di problemi che la tecnica è in grado di risolvere. È tuttavia necessaria una tecnica applicata deliberatamente da una tecnocrazia, e quindi la soppressione dello iato tra i valori dell'Ottocento e la tecnica del nostro secolo. Dal momento che tutte le difficoltà derivano dal conflitto tra quelli e questa, è dunque sufficiente che l'uomo si adatti, e s'innalzi, al livello dei tecnici. Se si accetta la loro direzione, i pericoli saranno sventati dalla saggezza di questi tecnocrati, gli unici capaci di dirigere le tecniche nel loro insieme, tanto più che le tecniche umane insegnano loro a tener conto del fattore umano e a non distruggere l'uomo, ma anzi a trattarlo come si conviene e a utilizzare integralmente tutte le sue capacità. Tale sarebbe l'unica soluzione; d'altra parte, i tecnocrati sono portati al potere non solo dalla crescita delle tecniche, ma anche dal tipo di problemi attualmente sollevati. Più andiamo avanti e più le tecniche si impongono in tutti i campi: la tecnica stabilirà una disciplina ineluttabile e non resterà altra possibilità che ‛accettarla liberamente'. È la fede in una falsa libertà che produce i conflitti e le perturbazioni attuali, che d'altronde la tecnica supererà infallibilmente.
Prendiamo infine l'esempio di P. Teilhard de Chardin. Egli pone l'evoluzione tecnica in una prospettiva cosmica. È noto che per lui tutto tende all'unità, che costituisce il principio del divenire cosmico. Nell'evoluzione generale dalla materia alla vita, e dalla biosfera alla noosfera, la società evolve verso l'unità e l'unione della specie umana; allorché questa unità sarà compiuta nel Verbo di Dio, allora l'umanità potrà ‟evadere dalla Terra" e dare inizio alla sua comunione con Dio. Ora, nell'evoluzione della società il progresso umano tecnico e il movimento della vita sono in un rapporto di continuità. L'evoluzione va contemporaneamente verso una maggiore spontaneità e una maggiore organizzazione. Il ruolo della tecnica oggi è riconducibile al raggiungimento di quattro risultati: riunire e organizzare materie disperse, aumentare la popolazione, dar vita a grandi unità sociali e promuovere la comunicazione tra tutti gli uomini. Essa ha poi una funzione di implicazione quando l'umanità è matura per realizzare l'unità sociologica e costituisce progressivamente una materia nuova, intermedia tra la materia bruta e la materia animata. In tal modo rende poco a poco partecipe la materia bruta dell'ascesa verso Dio: contribuisce dunque al processo di ominazione universale, che costituisce il preliminare indispensabile alla comunione con Dio. Grazie alla tecnica, si assiste così attualmente a un processo decisivo di socializzazione e di coriflessione (informazione universale) che porta a una maturazione dello Spirito, in vista dell'edificazione del Cristo cosmico: la tecnica è insomma uno strumento di spiritualizzazione. Ecco allora l'ultima funzione della tecnica: fin da ora ha inizio per sua virtù un'altra specie di vita, che condurrà all'unità sovrapersonale delle potenzialità spirituali disseminate nel mondo; per questa via l'uomo dunque si cristifica. Perciò gli incidenti di percorso - certamente spiacevoli - nulla cambiano nel quadro di evoluzione trionfale in cui si situa la tecnica.
Il secondo grande orientamento è rappresentato da uomini i quali ritengono, senza per questo fondarsi su una filosofia della storia, che una catastrofe è imminente se un intervento volontaristico non modificherà il corso delle cose. Facciamo, anche in questo caso, tre esempi. Bisogna naturalmente citare Einstein e la sua idea di un governo mondiale. A suo giudizio, si deve riprendere concretamente il controllo di tutti i mezzi d'azione; ma la situazione è talmente complessa che solo una sorta di super-Stato sarebbe capace di una simile iniziativa e quindi di un'utilizzazione ragionevole e ordinata della tecnica. Non può certo, però, trattarsi di un super-Stato di tipo politico, dominato da uomini politici; dovrebbe invece trattarsi di ‛saggi-scienziati', capaci - per la loro conoscenza dei più alti segreti scientifici, per la loro saggezza e il loro potere - di guidare in modo ragionevole l'uso delle tecniche. Bisognerebbe dunque instaurare una sorta di potere spirituale (comparabile a quello del papato medievale), integrato in un governo mondiale di cui costituirebbe - contemporaneamente - l'autorità suprema, l'organo di elaborazione e di previsione e l'istanza decisionale ultima. Ciò implicherebbe evidentemente la necessità - per i differenti governi nazionali - di piegarsi di fronte a questa suprema corte spirituale e tecnica. Tra i fautori di concezioni simili si ritrovano autori come A. Toynbee (con la sua convinzione che i problemi saranno risolti da un'organizzazione di tipo superiore) o J. Romains.
Un secondo esempio di questo orientamento ci è fornito da quello che potremmo chiamare un socialismo umanista, del tipo di quello elaborato da E. Fromm e R. Richta. Per limitarci a quest'ultimo (v. Richta, 1967), la rivoluzione scientifica e tecnica permette di realizzare il vero umanesimo marxista e di instaurare così un socialismo dal volto umano. Bisogna però volerlo, perché non si tratta di un risultato di processi automatici o organici. Bisogna portare i sistemi sociali al livello della tecnica e in armonia con essa. Ora, una simile proposta implica una trasformazione radicale del marxismo. Non si tratta più dell'abolizione dei vecchi rapporti di produzione e di sfruttamento capitalistico: il vero problema moderno diviene l'alienazione dell'uomo nella società industriale (anche socialista!). La rivoluzione tecnica comporta un cambiamento - nelle strutture delle forze produttive - di tale portata che il problema non è più quello del capitalismo né dell'imperialismo. La molteplicità delle tecniche permette di immaginare innumerevoli varianti del processo attuale di civilizzazione, ma tra esse il socialismo costituisce senza dubbio una modalità privilegiata, più soddisfacente di altre. Questo socialismo implica però l'abbandono di ogni dogmatismo per dedicarsi alla revisione del problema tecnico, per arrivare a padroneggiare, a sfruttare e a trasformare la tecnica. Grazie alla tecnica, possiamo per esempio arrivare alla liberazione dai bisogni, ma si può avere socialismo solo se s'incentra la vita umana sui soli bisogni autentici: bisogno di un lavoro creativo, della manifestazione della propria individualità, dell'unità interiore della personalità, di una vera fraternità umana, ecc. e non certo bisogno di maggiori consumi! Il socialismo deve dunque utilizzare la tecnica in modo tutt'affatto diverso dal capitalismo. Non si tratta di raggiungere il capitalismo, ma di essere differenti. La tecnica dischiude possibilità in questa direzione, ma non si arriverà a nulla se manca la volontà di realizzarle. La forma socialista sembra la più favorevole a una presa di decisioni in questo senso.
Prendiamo infine l'esempio di un certo numero di pensatori cristiani (per esempio E. Mounier). L'uomo è attualmente superato dalle sue tecniche, non è all'altezza dei propri strumenti, che vengono d'altro canto considerati sempre come neutri, passivi, suscettibili di essere utilizzati dall'uomo liberamente, in senso sia positivo sia negativo. Bisogna che l'uomo acquisti una padronanza completa delle sue tecniche (che è la situazione normale) e sappia in quale direzione orientare il progresso. Se l'uomo resta il padrone (anche quando sembra superato) dipende dal fatto che, per molti cristiani, la tecnica è legata a una funzione intrinseca dell'uomo, voluta da Dio, la funzione demiurgica. Grazie alla tecnica l'uomo esce dal limbo e diviene adolescente. Viene chiamato a una nuova responsabilità che non eccede affatto la sua natura, ma la porta anzi a compimento. E la macchina obbliga inoltre l'uomo a essere se stesso, poiché comporta una razionalità che gioca contro l'irrazionalità dell'uomo e lo costringe a essere razionale per utilizzare le tecniche come si conviene. Infine Dio associa l'uomo - nella sua funzione demiurgica - alla continuazione della creazione: l'uomo prosegue la creazione di Dio, poiché essa è in qualche modo un insieme di potenzialità, ed è attraverso la tecnica che l'uomo realizza queste potenzialità, affidategli da Dio. La tecnica è dunque conforme al disegno di Dio: l'uomo può temporaneamente utilizzarla in modo sbagliato, ma è di continuo chiamato, per vocazione divina, a utilizzarla in modo giusto ed è libero di farlo.
Abbiamo tentato di tratteggiare alcune possibili risposte all'inquietudine suscitata nell'uomo dalla tecnica. Tutto quello che posso dire, per concludere, è che tutte le teorie passate in rassegna mi sembrano poggiare su una conoscenza del tutto insufficiente e su una presa di coscienza assai incerta e superficiale del fenomeno tecnico. (V. anche tecnologia).
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