Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Il Settecento perfeziona le tecniche e le istituzioni militari che si sono sviluppate nel Seicento. Sebbene i conflitti abbiano un carattere più limitato e non ideologico, almeno fino alla rivoluzione, la guerra è la principale voce nel bilancio degli Stati e rappresenta uno dei fattori di mutamento politico interno più rilevanti. La solidità finanziaria e il controllo delle rotte commerciali sono la vera arma decisiva dei conflitti fra le potenze europee.
Dal “secolo di ferro” alla “guerra in merletti”
Non si può certo dire che il Settecento sia stato un secolo pacifico: salvo poche interruzioni, che hanno più il carattere di una tregua per far riprendere fiato alle finanze stremate, gli Stati europei sono impegnati in una sequela di conflitti, che si apre con la guerra di successione spagnola – a sua volta prosecuzione degli altri conflitti innescati dai disegni egemonici di Luigi XIV – e termina con le guerre della Rivoluzione francese e dell’epopea napoleonica. Le guerre di questo periodo non hanno tuttavia quel carattere di “guerra totale” che hanno avuto i conflitti del Seicento. La loro natura è più strettamente politica e dinastica e i loro obiettivi sono più limitati. Nei conflitti della seconda metà del Seicento e del Settecento è venuta meno la componente religiosa che aveva contribuito a inasprire quelli della prima metà del Seicento. Non si tratta più di guerre di religione, ma da un lato di guerre di successione, che ridefiniscono, senza sconvolgerlo, l’equilibrio fra le principali potenze continentali, dall’altro di un conflitto, talvolta latente talvolta conclamato, per il primato marittimo e coloniale. È quella che è stata definita la “seconda Guerra dei Cent’anni” tra la Francia e la Gran Bretagna che si apre con la guerra della Lega d’Augusta (1688-1697) e termina con la battaglia di Waterloo (1815) che apre la fase secolare del primato mondiale britannico. Anche in questo particolare ambito, quindi, il secolo dei Lumi compie, con un certo successo, un tentativo di umanizzazione e di razionalizzazione della società. Si cerca di limitare l’impatto delle operazioni militari sulle popolazioni civili, di migliorare le condizioni di vita, soprattutto sanitarie, dei soldati, e di stabilire norme per un trattamento più umano dei prigionieri. La guerra viene in qualche misura “addomesticata”, formalizzata, quasi fosse possibile trasferire anche sui campi di battaglia quel processo di “civilizzazione” che ha nel Settecento una tappa decisiva. Alla guerra picaresca del “secolo di ferro” si sostituisce la “guerra in merletti”.
Si tratta però di una parentesi, alla fine del secolo. Con la Rivoluzione francese, seguita dalla guerre napoleoniche, la guerra torna a mobilitare identità e passioni collettive, in questo caso ideologiche e nazionali. Passioni e identità secolari quindi, ma non per questo meno feroci.
Gli aspetti tecnici: armi, tattiche e strategie nel secolo dei Lumi
Dal punto di vista dell’arte militare, delle tecniche, delle tattiche, delle strategie ma anche delle soluzioni organizzative, i cambiamenti più rilevanti avvengono in realtà negli ultimi decenni del Seicento. Gli eserciti che si affrontano, in Europa, ma anche in Asia e nelle Americhe, nel corso del Settecento non sono radicalmente diversi da quelli di Carlo XII di Svezia o del principe Eugenio di Savoia.
Nelle tattiche viene posta sempre maggior enfasi sulla capacità di manovra delle truppe per poter utilizzare al meglio la loro potenza di fuoco; l’addestramento assume così un’importanza decisiva. Dal punto di vista strategico si preferisce evitare sanguinosi scontri decisivi. Federico II, forse la massima espressione dell’arte della guerra del secolo dei Lumi, scrive infatti che “il più grande segreto nella condotta della guerra e il capolavoro per un buon generale è di riuscire ad affamare l’avversario” in modo da ottenere “il successo con meno rischi che attraverso il combattimento”. E un altro grande teorico militare, il maresciallo di Sassonia, afferma di non essere “favorevole a battaglie campali” e di essere convinto “che un generale esperto potrebbe guerreggiare tutta la vita senza essere costretto a combatterne una”. Anche dal punto di vista tattico si privilegiano le manovre aggiranti piuttosto che gli attacchi decisivi. L’“ordine sottile”, vale a dire la disposizione delle truppe in lunghe righe sottili, prevale quindi su quella “in colonna”, e la rapidità e la continuità del fuoco sulla forza d’urto. Dal punto di vista dell’armamento il fucile dotato di baionetta “a collare” ha estromesso definitivamente la picca, è ormai l’unica arma della fanteria e resta sostanzialmente immutato durante tutto il secolo. La cavalleria ha compiti soprattutto di sfruttamento del successo e di esplorazione e disturbo. Soprattutto negli eserciti dell’Europa centro-orientale e lungo il fronte con l’impero turco si affermano unità di cavalleggeri eredi della tradizione dei popoli della steppa: panduri, ulani, ussari e cosacchi. L’arma che progredisce maggiormente è forse l’artiglieria. Ancora una volta la Francia è all’avanguardia grazie alle riforme di Jean-Baptiste de Gribeauval (1715-1789), ispettore di artiglieria. I calibri vengono uniformati e il personale civile è sostituito con quello militare; migliorano inoltre la gittata dei cannoni e l’efficienza delle cariche. Neppure in campo navale i progressi tecnici hanno un carattere rivoluzionario, anche se ci sono significativi miglioramenti sia nelle tecniche costruttive sia nella navigazione. Il mutamento più importante è probabilmente l’adozione del rivestimento in rame per preservare gli scafi dalle incrostazioni e dalla corrosione.
Guerra e società
Nel Settecento prosegue il processo, già avviato nella seconda metà del secolo precedente, di professionalizzazione e burocratizzazione degli eserciti. Ciò significa che i militari si distinguono sempre più dai civili – l’introduzione di un’uniforme è un aspetto significativo di questo processo – e che lo Stato interviene sempre più direttamente nella gestione dell’apparato militare. Le forze armate diventano una branca, al pari della giustizia, della finanza e del fisco, dell’apparato burocratico statale. Il tempo degli impresari militari privati è ormai definitivamente tramontato. Gli eserciti inoltre si nazionalizzano: in molti Stati europei vengono introdotte forme di coscrizione obbligatoria e la proporzione di mercenari stranieri tende a diminuire.
La maggiore complessità delle tattiche in uso nel Settecento impone una migliore e più sistematica preparazione professionale del corpo degli ufficiali. È in questo secolo infatti che vengono fondate prestigiose accademie militari, quali l’Accademia di Modena, fondata da Francesco III d’Este, e l’Accademia di guerra di Federico II di Prussia, entrambe istituite nel 1756. Le esigenze di una migliore formazione professionale degli ufficiali devono però tener conto della tendenza in tutta Europa, da parte della nobiltà, di imporre il proprio monopolio sui gradi più elevati e prestigiosi della gerarchia. La carriera di ufficiale costituisce infatti uno sbocco privilegiato soprattutto per la nobiltà minore e per i cadetti. In Francia solo un terzo degli ufficiali di fanteria è di origine borghese, e la percentuale è decisamente minore nella cavalleria. Il miglioramento della qualità professionale del corpo ufficiali e la chiusura aristocratica non sono del resto necessariamente incompatibili, come dimostra il caso della Prussia. Questa aristocratizzazione del corpo degli ufficiali può essere letta anche come una reinterpretazione in chiave burocratica e statuale di quella vocazione militare che fin dalle origini è al centro dell’autorappresentazione dei nobili europei come bellatores, milites o cavalieri. In questo senso è significativo come proprio a partire dall’inizio del Settecento i sovrani europei, vertici della piramide nobiliare, vengano per lo più raffigurati in uniforme, quindi come capi militari. Se dunque è vero che gli eserciti si statalizzano, è anche vero che gli Stati si militarizzano, anche nei loro aspetti simbolici oltre che materiali. In questo senso il caso della Prussia, il cui Stato – si dice – viene creato per provvedere ai bisogni dell’esercito del re di Prussia, è un’affermazione estrema ma meno paradossale di quanto potrebbe sembrare.
Guerra, Stati e finanze
Da tempo del resto gli storici hanno individuato nelle crescenti esigenze militari uno dei fattori decisivi della formazione e della nascita dello Stato moderno. La guerra rappresenta senza dubbio la voce più importante nel bilancio degli Stati europei del Settecento e la sopravvivenza nella spietata competizione tra le diverse potenze dipende proprio dalla disponibilità di risorse economiche e umane e dalla capacità degli apparati statali di mobilitare efficacemente queste risorse.
Le dimensioni degli eserciti continuano ad aumentare, ma non in modo così spettacolare come era avvenuto nel Seicento. A causa delle limitazioni logistiche, gli eserciti non contano in genere più di 100 mila uomini e la percentuale della popolazione inquadrata nelle forze armate va dall’1 al 4 percento. Per quanto riguarda le forze navali, l’aumento più rilevante è quello della marina inglese, che durante la prima metà del secolo raddoppia il suo tonnellaggio. La marina francese subisce perdite rilevanti nel corso dei suoi conflitti con l’Inghilterra, ma persegue comunque con determinazione l’obiettivo di colmare lo svantaggio rispetto ai rivali d’oltremanica. Nel 1780 essa conta 81 navi di linea contro le 141 inglesi. Tra gli altri Stati europei solo l’Olanda e la Spagna mantengono forze significative, anche se bisogna segnalare la nascita di una nuova potenza navale, la Russia, soprattutto per l’impulso dato da Pietro il Grande. Alla fine del secolo la Russia dispone di una sessantina di navi divise fra la squadra del Mar Nero e quella del Baltico.
I costi per mantenere in efficienza questi apparati militari sono enormi. Si calcola che in Francia durante il Settecento le imposte passino dal 3,5 percento del reddito nazionale a oltre il 10, e in Inghilterra il prelievo fiscale pro capite è quasi doppio. In tempo di pace la spesa militare assorbe il 40 percento circa del bilancio degli Stati, e in tempo di guerra questa percentuale raddoppia. Il continuo lievitare delle spese militari e navali costringe gli Stati a trovare nuove fonti di finanziamento e il successo dell’Inghilterra nella competizione mondiale dipende in definitiva dalla sua capacità di far fronte a queste esigenze, soprattutto in confronto alla Francia. Quello che è stato definito lo “Stato fiscale-militare inglese” poggia su un forte prelievo fiscale, ma anche sulla credibilità finanziaria dello Stato che consente al governo di accedere al credito a costi inferiori e di dar vita a un sistema di debito pubblico a lungo termine. In Francia, e nella maggior parte degli altri Stati europei, ci si affida invece al sistema dell’appalto delle imposte, cioè all’intermediazione di finanzieri che anticipano allo Stato le somme e si occupano poi della riscossione delle imposte. Si tratta di un sistema che offre vantaggi nell’immediato, ma che sul lungo periodo si rivela nefasto per le finanze statali.
Le guerre della rivoluzione
Le guerre provocate dalla Rivoluzione francese e dall’espansionismo napoleonico costituiscono un altro spartiacque nella storia militare europea. Innanzitutto, come già detto, le motivazioni di carattere ideologico affiancano e si sovrappongono alle logiche della politica di potenza degli Stati. Per i cittadini-soldati francesi la difesa della patria – un concetto già intravisto nel Settecento – è inscindibile dalla difesa degli ideali rivoluzionari minacciati dalle potenze straniere. Successivamente le motivazioni rivoluzionarie lasceranno in parte il posto alla lealtà e dedizione per il condottiero carismatico, Napoleone. Il nazionalismo francese a sua volta, per reazione ed emulazione, indurrà nei suoi avversari il sorgere di sentimenti simili, in sostituzione del lealismo dinastico sempre meno sentito. Alla fine del Settecento quindi la “guerra in merletti” dei soldati-automi manovrati sul campo di battaglia come pedine in una partita a scacchi lascia il posto a una nuova guerra di massa di soldati-cittadini.
Questo tipo di conflitto comporta una mobilitazione ancora più massiccia delle risorse dello Stato-nazione perché la posta in gioco non è più l’aggiustamento delle frontiere, ma la sopravvivenza stessa della nazione e della sua libertà, o almeno in questi termini viene posta la questione. A partire dalle guerre rivoluzionarie si assiste dunque a un nuovo salto di quantità nella dimensione degli eserciti, che ormai contano centinaia di migliaia di uomini. Questa guerra di massa costringe però anche a un mutamento delle tattiche perché i coscritti della levée en masse, la leva di massa obbligatoria, non dispongono delle capacità di manovra acquisite dai professionisti settecenteschi, sottoposti a un durissimo e prolungato addestramento. Negli eserciti della rivoluzione e dell’impero – costantemente rinnovati con reclute inesperte a causa delle perdite terrificanti – l’élan, l’entusiasmo, l’ardore rivoluzionario e patriottico, e anche lo spirito di corpo, sostituiscono la professionalità e la esperienza acquista sul campo di battaglia e attraverso le esercitazioni. Di conseguenza i comandanti fanno maggiore affidamento su tattiche semplici e aggressive.
Nel contempo cambia anche il rapporto fra esercito e società. Nella Francia rivoluzionaria, e in parte anche in quella napoleonica, l’esercito, da riserva di impieghi per la nobiltà, diventa uno strumento di mobilità sociale. Gli ufficiali sono infatti reclutati per i loro meriti e le loro competenze, oltre che naturalmente per la loro affidabilità politica e ideologica.