Tecnici
Quando nella letteratura sociologica o in quella non specialistica si parla di 'tecnici', si fa normalmente riferimento a un tipo di lavoratori non manuali e altamente qualificati, stipendiati da aziende industriali, che diventano progressivamente più numerosi e più essenziali nel processo produttivo e in quello di valorizzazione del capitale a partire dall'ultimo quarto del XIX secolo, quando la grande impresa diventa l'organizzazione centrale delle società capitalistiche e la produzione industriale assume le caratteristiche della produzione di massa. In buona parte della letteratura scientifica e della pubblicistica sull'argomento le caratteristiche dei tecnici vengono di fatto considerate self-evident. Nell'ambito delle scienze sociali 'tecnico' o 'tecnici' non è un termine o un concetto consolidato: una scorsa ai principali dizionari ed enciclopedie mostra che normalmente il termine non compare, o compare sotto altre voci, o in altre voci viene completamente sussunto. Quando, implicitamente o esplicitamente, una qualche definizione viene adottata, essa dà solitamente luogo a varie difficoltà, in parte derivanti dalla tendenza a stabilire un rapporto univoco tra funzione svolta e collocazione sociale.Gallino, fornendo "la definizione del termine che appare meglio compendiare il lavoro di ricerca e d'analisi linguistica compiuto su di esso dalla collettività dei sociologi", scrive che "fondamento dell'identità dei tecnici come classe a sé è l'effettivo svolgimento della funzione di controllo e trasformazione della struttura, configurazione e 'specifiche' [...] di mezzi di produzione e di beni di consumo" (v. Gallino, 1978, p. 716).
Il riferimento all'"effettivo svolgimento della funzione" può risolvere le difficoltà derivanti dai casi, abbastanza frequenti nei paesi capitalistici come in quelli socialisti, in cui la competenza tecnica (vera o presunta) legittima l'accesso a posizioni di potere che con la tecnica poco hanno a che fare: nella prospettiva della definizione citata, il tecnico che diventa ministro cessa di essere un tecnico. Non risolve però completamente la difficoltà derivante dal fatto che caratteristiche e competenze indubbiamente tecniche sono presenti in figure dalla collocazione sociale così diversa che difficilmente tale diversità può essere considerata come effetto di stratificazione all'interno della stessa classe: il problema della delimitazione rispetto a gruppi sociali non sempre e non necessariamente contigui ricorre praticamente in tutte le ricerche sui tecnici. E accade comunque che informazioni empiriche e riflessioni teoriche del tutto pertinenti per il nostro tema si trovino disperse in una letteratura vastissima e disparata.In una situazione di questo genere, piuttosto che procedere a una rassegna della letteratura che darebbe comunque risultati incompleti e insoddisfacenti, preferiamo tentare l'individuazione di categorie analitiche e di chiavi interpretative che: a) forniscano possibilità di interpretazione sociologica di una fenomenologia ben anteriore alla rivoluzione industriale (che, sebbene rappresenti lo spartiacque decisivo nella storia della tecnologia, non ne segna la nascita); b) permettano di individuare aspetti 'nascosti' della figura più studiata dai sociologi, quella del tecnico dell'età industriale; c) consentano un inizio di analisi della problematica in una fase di transizione che ci sta portando probabilmente fuori dal modo di produzione industriale e certamente fuori dal modo di produzione fordista.
Dovendo comunque partire da una definizione che vogliamo ragionevolmente precisa, ma sufficientemente generale da spiegare fenomeni e processi sia anteriori sia posteriori all'età industriale, proponiamo la seguente: tecnico è il detentore di un saper fare specifico destinato a utenti da lui distinti. Quasi ogni termine di questa definizione necessita di precisazioni e sviluppi. Nell'espressione 'saper fare' (know how, savoir-faire) il 'sapere' indica la presenza di conoscenze maggiori e/o diverse da quelle comunemente possedute in un certo campo. Il 'fare' indica una capacità di traduzione di queste conoscenze in operazioni destinate a un utente precisamente individuato. Il carattere operativo e applicato del sapere, e la sua utilizzazione da parte di altri precisamente individuati distinguono il tecnico dallo scienziato e la tecnica dalla scienza: i tecnici stanno "con un piede nel mondo materiale e con l'altro nel mondo delle rappresentazioni" (v. Barley, 1996, p. 418). L'utente che utilizza il prodotto del tecnico non è solo il cliente sul mercato; può essere il proprietario di un tecnico schiavo, o il dirigente di un'impresa al cui interno il tecnico è stipendiato.
È sorprendente quante di queste caratteristiche abbiano la loro origine nell'antica Grecia, secondo il modello ricostruito da Gilli (v., 1988). È nel mondo greco che il fatto di lavorare per un cliente distingue progressivamente il demiurgo dal sapiente, la techne dalla sofia. I demiurghi (che lavorano per un cliente) sono solo una parte dei tecnici, i quali tutti sono accomunati dall'estraneità nei confronti della polis, e dal controllo che questa si sforza di esercitare nei loro confronti. I Greci stigmatizzavano in chi esercita la tecnica una irriducibile dimensione antisociale; l'individuazione di questo aspetto della tecnica e dei tecnici, fondamentale nel modello di Gilli, si rivela inaspettatamente feconda se applicata a situazioni a noi assai più vicine.
La definizione di 'tecnico' che si adotta è influenzata in modo decisivo dalla definizione che si accetta di 'tecnica' o 'tecnologia' (in maniera semplificata e impropria, ma qui inevitabile, consideriamo i due ultimi termini come sinonimi). La tecnologia - ogni tecnologia - consta di strumenti materiali (oggi macchine); di conoscenze tecnico-scientifiche; di procedure che mettono eventualmente in rapporto le seconde con le prime. Se sulla presenza di tutt'e tre queste componenti c'è un certo accordo, l'accordo cessa quando si tratta di stabilirne il peso rispettivo. L'accentuazione dell'una o dell'altra componente sta (in genere implicitamente) alla base della definizione di 'tecnico' che si assume; chi si occupa dei tecnici dell'età industriale, di cui parleremo nel prossimo capitolo, fa in genere riferimento a una concezione di tecnologia (legata alla fabbrica) in cui la dimensione hard (le macchine) ha un peso decisivo.
Per arrivare a una definizione di 'tecnico' che serva anche per situazioni pre-, post- ed extra-industriali, sono più utili definizioni allargate di tecnologia come quelle correntemente usate dagli organisational scientists che si occupano di 'organizzazioni', di cui le imprese sono soltanto un tipo. Un classico di queste discipline definisce la tecnologia nell'ambito della 'azione strumentale', e scrive che "posto un desiderio, il quadro di conoscenze dell'uomo in ogni dato momento detta i tipi di variabili necessarie e il modo in cui manipolarle per realizzare tale desiderio. Nella misura in cui le attività così imposte dalle credenze umane sono ritenute capaci di produrre gli esiti desiderati possiamo parlare di tecnologia o di razionalità tecnica" (v. Thompson, 1967; tr. it., p. 83).
Coerentemente con questa definizione allargata di tecnologia, Thompson propone una tipologia che comprende anche attività diverse da quelle direttamente produttive. I tre tipi che la compongono sono la tecnologia di concatenamento, la tecnologia di mediazione, la tecnologia intensiva.La tecnologia di concatenamento "implica un'interdipendenza seriale nel senso che un atto Z può essere espletato solo dopo la completa riuscita di un atto Y, che a sua volta dipende da un atto X e così via". La catena di montaggio costituisce il caso emblematico di questa tecnologia, che "si avvicina alla perfezione strumentale quando produce un solo tipo di prodotto standard in modo ripetitivo e a passo costante" (ibid., p. 85).
La tecnologia di mediazione è tipica di organizzazioni come banche, assicurazioni, società telefoniche, che collegano tra loro utenti o clienti. La complessità di tale tecnologia deriva dal fatto che essa "deve operare secondo modalità standardizzate, ma anche estensivamente, cioè relativamente a una molteplicità di clienti o utenti distribuiti nel tempo e nello spazio" (p. 86).
La tecnologia intensiva infine è quella che mira a modificare un oggetto specifico, con operazioni la cui combinazione e sequenza sono determinate anche da un feed-back proveniente dall'oggetto stesso: esempi tipici di questa tecnologia sono forniti dalle attività di ricerca e dalle attività terapeutiche.
Anche se non avremo qui lo spazio per esplorarne a fondo le potenzialità, riteniamo che la definizione e la tipologia proposte permettano di andare nella direzione che abbiamo indicato. La definizione allargata di tecnologia permette di definire come tecnico il detentore delle conoscenze applicate al perseguimento razionale di uno scopo: conoscenze e scopo non sono necessariamente attinenti alla produzione di beni materiali. C'è il tecnico della metallurgia come c'è il tecnico del diritto: nella definizione di tecnologia, e di tecnico, la presenza della componente hard (lavoro e strumenti nell'antica Grecia, lavoro e macchine dopo la rivoluzione industriale) non è indispensabile. La tipologia proposta rimanda poi a una possibile tipologia di tecnici (non esauriente ma assai ricca) i cui riferimenti empirici sono tipici dell'età industriale, ma non (soltanto) della produzione industriale. Per fare solo un esempio, nell'articolo citato di Barley, che presenta i risultati di un'originale indagine etnografica sul lavoro dei tecnici, si fa riferimento al primo dei tipi individuati da Thompson per definire una vasta categoria di tecnici, i tecnici-cuscinetto, che si collocano "all'inizio di una divisione occupazionale del lavoro serialmente interdipendente" (v. Barley, 1996, pp. 420 ss.): ne sono esempi il tecnico di radiologia o l'analista di laboratorio, le cui operazioni sono un precedente obbligato di quelle del medico.
Nella già citata definizione di Gallino (v., 1978, p. 716), si parla dei tecnici come di uno "strato o classe di lavoratori dipendenti che concepiscono, progettano, innovano mezzi di produzione e beni di consumo, unitamente alle loro tecniche operative, e sovrintendono o dirigono la loro realizzazione, nonché la gestione e la manutenzione, se si tratta di macchinari complessi, entro i limiti stabiliti dalle direzioni aziendali o da altri centri di governo". Alla luce di questa definizione, che fa riferimento a un contesto industriale e che riflette lo stato dell'arte nelle scienze sociali, non sorprende che nella vasta letteratura sui tecnici il posto centrale sia occupato da una figura che sembra riassumerne in maniera idealtipica le caratteristiche: l'ingegnere.
Nella International encyclopedia of the social sciences non c'è una voce 'tecnici' ma c'è in compenso una lunga voce engineering, sostanzialmente dedicata agli ingegneri (v. Evan, 1968). Citando Wilenski (v., 1964) l'autore riprende l'idea di un "processo di professionalizzazione", le cui tappe sono: a) esercizio a pieno tempo dell'occupazione; b) formazione scolastica formale ma non universitaria; c) formazione universitaria; d) associazione professionale locale; e) associazione professionale nazionale; f) riconoscimento-autorizzazione legislativo; g) codice etico formale di comportamento.
In questa prospettiva, sebbene non si possano trascurare i precedenti legati soprattutto ai lavori pubblici e militari (l'esempio più chiaro è quello delle Grandes écoles francesi), è solo nell'età industriale che il processo appare concluso; lo strettissimo legame col processo di industrializzazione spiega la crescita accelerata del numero degli ingegneri nei paesi socialisti. Le modalità di formazione e di reclutamento del personale tecnico necessario alla produzione di massa variano peraltro considerevolmente da paese a paese: la ricerca comparata ha mostrato ad esempio forti differenze tra la Germania, dove fino a tempi assai recenti buona parte del personale tecnico proveniva dalle file del lavoro operaio qualificato, e la Francia, in cui questa fonte si esaurisce presto e il personale tecnico proviene dalla scuola, dall'esercito, dalle ferrovie (v. Lutz e Veltz, 1992, p. 279).
La voce citata dell'International encyclopedia fa il punto su alcuni problemi chiave relativi al ruolo e al gruppo sociale dell''ingegnere': dove gli ingegneri non sono semplicemente, rispetto ai tecnici, pars pro toto, ma ne costituiscono piuttosto il tipo ideale. L'ingegnere ha un tipo di socializzazione centrata sui valori della tecnologia; ha una carriera che è tipicamente quella di dipendente della grande impresa; in questo ruolo operativo esperisce una situazione di marginalità e di conflitto con gli uomini dell'organizzazione; ha processi di identificazione con l'esterno piuttosto che con l'interno dell'organizzazione, in cui le associazioni professionali giocano un ruolo importante; ha un prestigio sociale variabile da paese a paese.
La centralità del ruolo dell'ingegnere, abbiamo detto, si afferma con l'affermarsi della centralità della grande impresa industriale. Sull'indispensabilità di questo ruolo ha scritto pagine memorabili Veblen, in un'opera classica in cui 'tecnico' e 'ingegnere' vengono usati come sinonimi. Sulla corretta gestione del sistema industriale esercitano un'influenza perniciosa finanzieri e politici. Il funzionamento del sistema industriale viene "deliberatamente ostacolato mediante le discordie, le errate direttive e la disoccupazione delle risorse materiali, degli impianti e della manodopera in ogni occasione in cui gli uomini di governo o i capitani della finanza sono in grado di porre le mani sul suo meccanismo; tutti i popoli civili soffrono di comuni privazioni perché il loro stato maggiore di esperti industriali è in tal modo obbligato a ricevere ordini e a sottostare al sabotaggio da parte degli uomini di governo e degli interessi costituiti" (v. Veblen, 1921; tr. it., p. 941). Compare qui una variante storicamente determinata del contrasto tra politica e tecnica di cui Gilli individua le radici nell'antica Grecia. L'ideologia tecnocratica si presenta come alternativa rispetto alla logica capitalistica di valorizzazione del capitale: anche il taylorismo percepiva "una non più tollerabile contraddizione tra le potenzialità produttive di un'industria ormai alle soglie della produzione di massa e i metodi ancora arcaici della sua conduzione" (v. Bonazzi, 1995, p. 29).
Veblen auspicava addirittura la formazione di un "soviet degli ingegneri"; movimenti di ingegneri di ispirazione tecnocratica comparvero tra gli inizi del secolo e la seconda guerra mondiale (v. Salsano, 1987). I tecnici di Veblen sono ingegneri, e ingegneri di produzione. Le tecniche di vendita, "che comprendono, per esempio, l'innecessaria proliferazione dei commercianti e delle rivendite al dettaglio e all'ingrosso, la pubblicità sui giornali e con cartelloni, le esposizioni e gli agenti di vendita, gli imballaggi e le etichette di fantasia, l'adulterazione, la moltiplicazione delle marche e degli articoli di decoro [...], sono la più vistosa, e forse la più grave, tra le pratiche dilapidatorie e industrialmente futili connesse con la conduzione affaristica dell'industria" (v. Veblen, 1921; tr. it., p. 974).
In questa fase storica e per questo autore non è ancora pensabile considerare come 'tecnico' l'esperto di marketing o di organizzazione. Questa possibilità è legata alla ulteriore differenziazione organizzativa che ha luogo nella grande impresa fordista la quale, pur mantenendo la centralità delle tecniche di produzione, necessita anche di altri specialismi. È il caso della 'tecnostruttura' descritta da Galbraith (v., 1967, cap. VI). Nella tecnostruttura nessuna decisione può essere presa senza il contributo degli esperti: ma questi esperti operano in maniera parcellizzata e coordinata. Il tecnico non conta più come singolo, ma come membro di un gruppo, comitato, squadra, e lo stesso vale per l'imprenditore, le cui funzioni sono trasferite all'organizzazione, e quindi ai tecnici che la compongono, in questo senso 'vicari' dell'imprenditore.
Che i tecnici siano vicari dell'imprenditore, anche quando ne realizzano compiutamente gli interessi, è negato da Butera (v., 1977, pp. 14-15 e 18). La differenza fondamentale tra impiegati e tecnici sta nella "discrezionalità sul lavoro" e nel "potere esercitato per mezzo del lavoro". Quest'ultimo si configura essenzialmente come "potere di assorbimento dell'incertezza nei processi di elaborazione delle decisioni" (ibid., pp. 16-19). Nell'esemplificazione fornita le figure presentate sono ancora legate alla tecnologia: "il progettista, l'analista di cicli di lavorazione, il tecnico di collaudo, il system analyst, il funzionario tecnico-commerciale", ma il criterio individuato, non facendo riferimento diretto ai mezzi di produzione, può essere applicato anche allo psicologo, all'economista, all'esperto di comunicazione o di organizzazione.
Il tentativo di definizione di Butera aveva luogo in un clima, quello dell'Italia a cavallo tra gli anni sessanta e settanta, in cui l'interesse per i tecnici nasceva - tra gli studiosi di sinistra - in relazione alla mobilitazione politica, rivelatasi poi episodica, di gruppi di 'tecnici' che apparivano intuitivamente diversi dagli impiegati (v. Bologna e Ciafaloni, 1974) e ponevano quindi il problema dell'individuazione di criteri di delimitazione. L'esigenza di questi criteri era accentuata dall'amore per la classificazione e la tassonomia di certe correnti del marxismo allora influenti.
Trasformazioni decisive nelle caratteristiche del gruppo sociale dei tecnici (e degli ingegneri, che queste caratteristiche presentano in forma relativamente pura) sono avvenute negli anni successivi, non tanto per effetto del conflitto industriale quanto per effetto della crisi del modello fordista di produzione di massa determinata dall'evoluzione dei mercati e della divisione internazionale del lavoro.L'ultima fioritura di ricerche sugli ingegneri come nucleo centrale dei tecnici si ha non a caso negli anni ottanta in Germania (v. Beckenbach, 1991, cap. VI), paese in cui alla persistente rilevanza dell'industria nella base economica corrisponde una prolungata centralità della sociologia industriale (che si riduce progressivamente negli anni novanta). Le trasformazioni del lavoro dei tecnici, e in particolare degli ingegneri, si presentano qui ancora quasi esclusivamente come risultato dei processi di razionalizzazione in corso nella grande industria, caratterizzati dall'introduzione delle tecnologie dell'informazione e dall'integrazione tra funzioni aziendali.
Dagli Stati Uniti ci arriva invece un epitaffio sull'"algoritmo dell'ingegnere" (v. Keniston, 1996). L'idea fondamentale che sta alla base dell'algoritmo ("metodo specifico per la soluzione di un certo tipo di problema") è quella secondo cui "il mondo che conta può essere definito come una serie di problemi, ognuno dei quali può essere risolto attraverso l'applicazione di teoremi scientifici e principî matematici". Naturalmente l'ingegnere sa che nel mondo ci sono situazioni non definibili come "problemi", in quanto non risolubili attraverso la scomposizione in sottoproblemi cui applicare principî e metodi quantitativi specifici: si tratta di 'vincoli' (psicologici, politici, etici) dei quali l'ingegnere in quanto tale non si occupa, e che in un mondo migliore non esisterebbero, permettendo la corretta soluzione (quella dell'ingegnere) dei problemi. Questo algoritmo, che ha funzionato a lungo in maniera eccellente producendo importantissimi risultati, oggi funziona sempre meno. I vincoli sono sempre più spesso parte del problema, e l'ingegnere non può più trascurarli: non a caso il contesto della riflessione di Keniston è quello della riforma delle facoltà di ingegneria. La crescente consapevolezza del "potenziale di rischio ecologico della loro attività", in industrie come quella chimica (v. Heine, 1989, p. 19), è un tipico indicatore della crisi della visione del mondo degli ingegneri, che non mancano peraltro di rimproverare ai critici 'verdi' mancanza di competenza ed emotività (v. Heine, 1992, p. 93).
La crisi dell'algoritmo non significa necessariamente che la rilevanza economica e sociale degli ingegneri (dei tecnici) diminuisca. Barley (v., 1996, p. 409) arriva a sostenere, con validi argomenti statistici e qualitativi, che proprio le occupazioni tecniche hanno buone probabilità di costituire il tipo ideale più adatto a descrivere i cambiamenti in corso nel lavoro. L'analisi 'etnografica' di Barley mira a reintegrare l'analisi del lavoro nell'analisi organizzativa, e giunge alla conclusione che il diffondersi del lavoro dei tecnici è un fattore di crisi della logica organizzativa 'verticale' e 'gerarchica', e della diffusione di organizzazioni in cui l'expertise è tendenzialmente diffusa in maniera più 'orizzontale'.
Se c'è una riserva da formulare nei confronti di questa analisi, è che essa non tiene sufficientemente conto della misura in cui il mondo produttivo e organizzativo post-fordista si sta scomponendo e frammentando: il tecnico post-fordista è sempre meno un uomo dell'organizzazione.
Le trasformazioni del lavoro tecnico e le strategie dei tecnici si intrecciano strettamente, almeno a partire dagli anni settanta, con la crisi del modello fordista di organizzazione della produzione e con l'emergere di modelli alternativi.
Nel settore privato l'aumento dell'occupazione censita come impiegatizia è il risultato di due diverse tendenze: declino degli 'impiegati' e crescita delle figure altamente scolarizzate e specialistiche (v. Bianco, 1996, p. 77). Tra queste ultime, con particolare chiarezza in campo industriale, è stata osservata una tendenza alla trasformazione dei tecnici in 'professionisti' sempre meno identificati con la singola occupazione/azienda. L'identificazione avviene in misura crescente con ampie aree di processo tecnico-organizzativo, che vanno oltre l'azienda e oltre il settore (ad esempio 'ingegneria e manutenzione', 'vendita', ecc.). D'altro canto, il tecnico si identifica con professioni che recuperano alcune delle caratteristiche delle professioni tradizionali (curriculum formalizzato, riconoscimento formale, deontologia professionale; v. Butera, 1987, pp. 19, 51-52, 87, 95); come nelle professioni tradizionali, la conoscenza tecnica è incorporata in una persona piuttosto che in un'organizzazione (v. Lutz e Veltz, 1992, p. 282).
In uno sviluppo ulteriore, i nuovi professionisti vanno a costituire il gruppo sociale dei "lavoratori della conoscenza", figure dalla professionalità media e alta, la cui crescita è determinata dai nuovi contenuti di lavoro (l'applicazione di conoscenze scientifiche si estende a tutti i settori dell'organizzazione), dallo sviluppo dei servizi, dai cambiamenti organizzativi (produzione snella, impresa-rete; v. Butera e altri, 1997, cap. I). Questa evoluzione, che comporta un'attenuazione della tradizionale separazione tra scienza e tecnica, non è priva di contraddizioni e di rischi. Lutz e Veltz (v., 1992, pp. 284 ss.) hanno attirato l'attenzione sulla possibilità che la "dematerializzazione" della conoscenza tecnica, la sua assimilazione cioè a quella scientifica, comporti anche una sua "deprofessionalizzazione", una minore capacità cioè di affrontare l'incertezza, e hanno indicato l'emergere di possibili correttivi.La necessità di nuove categorie analitiche, come quella di 'lavoratori della conoscenza', deriva dal fatto che "professionals, managers e imprenditori, che tradizionalmente sono stati considerati gruppi distinti e, sotto alcuni punti di vista, antagonistici, oggi stanno assumendo diversi tratti comuni" (v. Bianco, 1996, p. 93). Queste figure si presentano oggi sempre più come 'lavoratori autonomi', retribuiti non più col pagamento di uno stipendio ma con il pagamento di una fattura (v. Bologna, Dieci tesi..., 1997, p. 24).
Era accaduto già spesso in passato che il disagio del tecnico nella grande impresa fordista si concludesse con la sua uscita e con la fondazione di piccole imprese, talvolta ad alto contenuto tecnologico (v. Bianco e Luciano, 1982). Questa forma di exit, sebbene fosse un indicatore importante di una delle contraddizioni interne all'organizzazione fordista, e sebbene configurasse forme di organizzazione almeno potenzialmente alternative, risultava tutto sommato complementare rispetto alla grande impresa, che non a caso la permetteva o addirittura l'incoraggiava. I cambiamenti in corso, che configurano per certi aspetti una vera e propria crisi del lavoro salariato, con il passaggio di larghissimi strati di lavoratori - inclusi i 'lavoratori della conoscenza' - alle file del lavoro autonomo, costituiscono un passaggio epocale e un 'mutamento antropologico' di portata comparabile a quello che segnò, alla fine del secolo scorso, il passaggio di molti lavoratori indipendenti alle file del lavoro salariato (v. Bologna, Per un'antropologia..., 1997). (V. anche Classi medie; Società industriale; Società postindustriale).
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