Tecnocrazia
SOMMARIO: 1. Il rischio dell'ambiguità concettuale. 2. L'economia come discrimine. 3. I precursori. 4. Tre rivoluzioni industriali. 5. Caratteri strutturali e funzionali. 6. La questione del potere. 7. Politica, competenza e autorità spirituale. □ Bibliografia.
1. Il rischio dell'ambiguità concettuale
La nozione di tecnocrazia condivide con numerose altre categorie del patrimonio concettuale delle scienze sociali moderne - da democrazia a totalitarismo - una utilizzazione vasta, articolata e composita che la espone al rischio ricorrente della ambiguità. Entrata nel linguaggio scientifico agli inizi degli anni trenta, per opera di Howard Scott e della sua scuola (v. Allen, 1933; v. Dagnino, 1933), la parola ‛tecnocrazia' designava originariamente i chimico-fisici e il ruolo che essi venivano assumendo nel processo di sviluppo della società del tempo. Da allora, peraltro, essa è stata impiegata per evocare, di volta in volta, il potere, l'influenza, la capacità di condizionamento di altri gruppi o settori socio-professionali: dagli ingegneri agli economisti, dai direttori della produzione ai cibernetici, dai burocrati agli stati maggiori militari e agli alti consiglieri scientifici delle autorità governative, mentre si ripropone di tanto in tanto la formula del ‛governo tecnico' (o anche ‛governo dei tecnici') in talune esperienze democratiche, ed è presente la variante tecnocratico-militare (così come quella burocratico-militare) nella tipologia dei regimi autoritari, ove è richiamato altresì il caso di reggimenti a predominio civile di tipo ‛organico' o corporativo con venature tecnocratiche.
Un secondo elemento di possibile ambiguità investe l'ampiezza storica del fenomeno tecnocratico. Non mancano, infatti, gli studiosi che - sulla base del requisito della competenza che costituisce uno dei fondamenti essenziali del ‛potere dei tecnici' - tendono a interpretare come prefigurazioni di una civiltà tecnocratica i grandi disegni teorici di alcuni pensatori politici d'altri tempi. Così è, ad esempio, per Platone, nella cui ‛sofocrazia' vengono rilevate vedute specificamente tecnocratiche. E così è, ancora, per la Nuova Atlantide di Francesco Bacone, descritta come un enorme stabilimento di ricerche scientifiche, ove squadre di specialisti nei vari rami del sapere lavorano a estendere il dominio dell'uomo sulla natura.
D'altra parte, sempre per rimanere nella cornice della problematica storica (stavolta più di storia delle istituzioni che di storia delle idee), il connotato della managerialità, così inerente - come vedremo meglio nei capitoli seguenti - al concetto di tecnocrazia, potrebbe indurre a iscrivere tra le esperienze tecnocratiche anche fenomeni sociali e moduli organizzativi già presenti nel mondo antico, ai quali alcuni filoni della letteratura scientifica applicano appunto la categoria di managerialità. Si pensi, per citare una interpretazione riferita tra gli altri all'Egitto e alla Mesopotamia (ma anche alla Cina, all'India e a numerose civiltà precolombiane), alla nozione di società idraulica agro-manageriale sviluppata da Karl A. Wittfogel nella sua opera sul Dispotismo orientale (v., 1957). O si pensi a quello ‛strumento fondamentale' dell'intero ‟ciclo economico interno ed esterno all'agricoltura, nell'ambito di un'impresa giuridicamente unitaria", che è ‟lo schiavo-manager: un'invenzione tipicamente romana" (v. Carandini, 1988).
Un terzo elemento di ambiguità concerne l'essenza e la natura del κρα*τος di cui sono, o sarebbero, detentori i tecnocrati. Si va, infatti, dalla tesi che configura tale potere come mera capacità di influenzare, mediante un ruolo di consulenza tecnica, le decisioni degli organi politici, alla tesi che individua nella tecnocrazia un vero e proprio regime sociale caratterizzato dalla compiuta emancipazione del potere dai suoi tradizionali connotati e attribuzioni politici, e dall'assunzione di una diversa fisionomia, spoliticizzata e ‛di competenza'. In altri termini, per quest'ultima tesi si assiste a un autentico spossessamento della funzione di decision-making sulla cosa pubblica a opera degli ‛esperti', i quali prendono il posto degli uomini politici, mentre la decisione di tipo politico, e per ciò stesso aperta alla discrezionalità, cede il campo a una decisione intesa come risultato di previsioni e calcoli scientifici, e quindi del tutto priva di residui discrezionali.
Un ultimo tratto con toni di ambiguità è quello relativo all'inquadramento sociale dei tecnocrati, i quali sono visti costituire ora una semplice categoria professionale, ora un gruppo sociale, ora infine una nuova classe sociale. È evidente che, nella misura in cui i tecnocrati sono l'una o l'altra cosa, i loro comportamenti variano sensibilmente, sia in ordine ai sentimenti di appartenenza e di identificazione, sia in ordine al perseguimento di scopi solidali. In effetti, se la tecnocrazia va intesa come una categoria professionale, è probabile che i singoli componenti conserveranno - almeno con riferimento a talune importanti scelte - orientamenti diversi e, conseguentemente, una larga disponibilità al perseguimento di finalità contrastanti; viceversa, se i tecnocrati si percepiscono, e sono percepiti, come una classe sociale, ne deriverà la tendenza a una identità assai più marcata dei loro scopi pubblici.
2. L'economia come discrimine
In presenza di un concetto spesso inflazionato e che copre una pluralità di fenomeni e di referenti spazio-temporali scarsamente assimilabili, l'interprete può prendere due diverse strade: abbandonare l'uso del concetto; oppure definirlo, escludendo segmenti di realtà, col sottinteso che tali altri segmenti potranno sempre essere compresi entro altre categorie concettuali, già esistenti o da creare. La definizione della nozione di tecnocrazia (che è la scelta metodologica qui adottata) pone di fronte a problemi di delimitazione da almeno tre punti di vista: a) storico; b) strutturale; c) funzionale.
Circa il primo punto, un'osservazione iniziale e discriminante riguarda il ruolo della dimensione economica nell'esistenza individuale e collettiva. Si può interpretare il κράτος del tecnocrate come semplice funzione di ‛consiglio' nei confronti del potere ‛generale' o, viceversa, come titolarità ed esercizio del potere ‛generale'; si può attenuare o accentuare l'incidenza riferibile alla competenza; ma un dato è ineludibile: sempre la nozione di tecnocrazia presuppone e si iscrive in un contesto sociale nel quale l'economia ha assunto una posizione civile (culturale e strutturale) eminente, preminente o addirittura escludente ed esclusiva.
Perché possa emergere e trovare coerente applicazione il concetto di tecnocrazia (con i suoi derivati), deve essere prima nato l'homo oeconomicus nella sua autonomia, visibilità e prestigio rispetto all'homo politicus e all'homo religiosus, deve essersi prima affermata nell'immaginario di massa la crucialità dell'attività economica e del processo economico, insomma deve essersi compiuta una trasformazione culturale che conduca il dato economico - pur con tutte le sue antinomie, contraddizioni, varietà organizzative, persino fasi fallimentari - nel cuore della società, sottraendolo e affrancandolo dalla condizione periferica.
Orbene, questo solo discrimine basta a escludere che Platone possa essere considerato un precursore, o addirittura un ‛protopensatore', della tecnocrazia. Tanto per cominciare, quella che viene definita la ‛sofocrazia' platonica implica il ruolo del sapiente, che però non è il ‛competente' di cui parla il pensiero tecnocratico, e di cui parlare a proposito della tecnocrazia. Qui, infatti, l'idea di competenza si iscrive essenzialmente nella cornice e nella visione della razionalità strumentale, intesa come congruenza consapevole tra mezzi e fini, tra costi e benefici. Viceversa, allorché Platone chiama ‛filosofia' - cioè amore della sapienza - ‟la propria ricerca, la propria attività educativa", attribuisce al sapiente, che è il simbolo della tradizione meritevole di essere recuperata (essenzialmente ‟tradizione della poesia e della religione"; v. Colli, 1992), un compito di conoscenza nel quale l'incidenza del momento etico e prescrittivo - senza trascurare il mito - si pone come decisiva. La saggezza del sapiente è ‟educazione alla ragione", vissuta come esercizio ‟a un tempo intellettuale e morale" (v. Isnardi Parente, 1982). La conoscenza sapienziale, dunque, ha un orizzonte che la conduce a spaziare lungo dimensioni e percorsi assai più ampi e ramificati di quelli tipici della ‛ragione strumentale' (che privilegiando la preoccupazione del rapporto tra costi e benefici, mezzi e fini, è essenzialmente ragione ‛economica').
E c'è di più. In Platone, coerentemente con le sue premesse teoretiche, lo status del momento economico dell'esistenza individuale e collettiva è radicalmente subordinato rispetto agli altri versanti della vita umana. In questa chiave, il soggetto categoriale che nel tempo moderno verrà detto ‛uomo economico' non deve avere spazio nella guida politica della comunità - sia egli ricco o povero, proprietario o nullatenente, contadino o servo, mercante o artigiano - perché inadatto all'autentica attività superiore, che è quella intellettuale (nel senso sapienziale), e perché animato - coerentemente con le pulsioni appetitive e acquisitive dell'anima concupiscente, fortemente attiva nell'arena economica - da una spinta particolaristica e privatistica che è deleteria per la πόλις, la quale viceversa va guidata secondo la logica generalistica incarnata dalla fusione tra spirito politico e spirito religioso, ed espressa (per usare la dizione che sarà di Montesquieu) dal ‛principio costitutivo' della aristocratica virtù patriottica. Con riferimento alla platonica ‛città ideale', la conclusione è perciò esplicita: la comunità politica è condannata a morte se in essa l'egemonia è assunta dalla classe economica (v. Fisichella, 1990).
Se ora ampliamo, sia pur brevemente, l'osservazione allo scenario più vasto dell'antichità, è agevole constatare che - pur con sfumature interpretative più o meno marcate - la condizione di ‛minorità civica' dell'attività economica e dell'immagine relativa rispetto al dominante paradigma politico-religioso risulta netta. Non a caso lo schiavo-manager è schiavo: egli svolge un compito comunque strumentale, ancorché non privo di una sua valenza organizzativa e amministrativa, in una temperie culturale nella quale l'attività economica è percepita, descritta e valutata in termini che vanno dalla distaccata riprovazione (talvolta) all'aperto disprezzo (più spesso) (v. Giardina, 1994). Il fatto è che ‟la società romana è e resta una società politica", ove, ‟in quanto determinatrice di status, e dunque di ‛dignità', la ‛politica' tende a dominare il sociale" (v. Nicolet, 1994).
Venendo adesso al modello della società idraulica agro-manageriale, collocata nel tempo antico e anche nel tempo meno antico (nel senso che essa, talvolta, si prolunga ‛nel' tempo moderno, pur se non è ‛del' tempo moderno), il profilo che ne traccia Wittfogel è quello di una economia agricola che implica lavori su vasta scala e a ‛direzione governativa' (pubblica) di irrigazione, regimazione e controllo delle acque. Anche se nella società di questo tipo è presente una proprietà privata attiva (produttiva), tuttavia i detentori della proprietà privata, in quanto tali, sono mantenuti disorganizzati e politicamente impotenti, mentre è preminente il ruolo di ‛direzione strategica' della produzione da parte del ‛governo' (potere pubblico); di qui il carattere ‛agro-manageriale'.
Orbene, è lo stesso Wittfogel a sottolineare costantemente che l'economia idraulica è un'economia ‟schiettamente politica", che in essa è incontestabile ‟l'importanza dell'organizzatore generale (politico) non solo in confronto allo specialista tecnico, ma anche al manager economico", e che la sovranità vi è comunque su base religiosa, talché il sovrano è talvolta teocratico (divino, nel senso che il sovrano è divinità), talvolta quasi-teocratico (pontificale). Quale che ne sia la varietà, la preminenza del dato religioso e la sua associazione al dato politico fanno delle realtà idrauliche agro-manageriali esperienze ove il dato economico è drasticamente subordinato, al punto che, nella sua forma tipica, il regime idraulico ‟adempie a decisive funzioni economiche per mezzo del lavoro coatto (forzato)".
Infine, va messa nel conto come cruciale la distinzione tra socialità agricola e socialità industriale. In un contesto (essenzialmente o prevalentemente) agricolo, il rapporto tra uomo e natura, nonché tra uomo e uomo, è diverso a vari livelli, a cominciare da quello intellettuale, rispetto al contesto (prevalentemente o essenzialmente) industriale. È ormai osservazione corrente che a una azione ridotta sulla natura (di tipo agricolo) si accompagna necessariamente una relativa semplicità di rapporti socio-economici, e quindi una scarsa possibilità di intervento nel processo produttivo e tecnologico, mentre un'azione umana sulla natura su vasta scala (di tipo industriale), rendendo straordinariamente più complessi i rapporti sociali ed economici, lascia maggiore campo libero all'intervento e dunque al mutamento: nel primo caso, la natura rimane sostanzialmente immota, nel secondo è messa in movimento. Da qui la conseguenza che viene spesso tratta. L'attitudine all'intervento trasformativo e manipolativo - sulla natura non meno che sulla società - conferisce al sistema industriale e scientifico-tecnologico uno spiccato carattere di artificialità, specie nella fase avanzata della socialità industriale. E ciò conduce talvolta i critici di tale sviluppo a sottolineare una radicale incompatibilità tra umano e artificiale, tra natura e τέχνη.
Questo ordine di questioni è significativo, come vedremo in più passaggi, per l'analisi del fenomeno e del pensiero tecnocratici, ed esige una rapida messa a fuoco. Tanto per iniziare, e per tornare un attimo a Platone, se è attendibile la lettura popperiana del pensatore greco - secondo la quale istanza fondamentale della Repubblica platonica è, insieme al motivo naturalistico che si esprime nell'imperativo ‟tornare alla natura", il precetto ‟bloccare ogni cambiamento", poiché ‟il cambiamento è male, l'immobilità è divina" (v. Popper, 1945) -, si conferma davvero arduo considerare Platone un precursore della tecnocrazia.
Ancora. La transizione dalla società tradizionale (agricola) alla società moderna (industriale) non può essere vista come un indiscriminato e deterministico passaggio dalla semplicità alla complessità. ‟A svelare l'inadeguatezza di questa tesi", per la quale - in virtù del suo presupposto evoluzionista - ciò che viene ‛prima', nelle fasi iniziali della scala evolutiva, è necessariamente più semplice di ciò che viene ‛dopo', nelle fasi più avanzate, ‟basterà ripensare, a titolo d'esempio, a quell'elemento che sta a fondamento delle strutture sociali di tutte le società: la famiglia. Orbene, solo nelle società relativamente moderne occidentali la famiglia è semplice, mentre nelle società cosiddette primitive (quelle date per semplici) la famiglia è precisamente complessa, o ‛estesa'. Dunque il carattere della complessità, come si vede, può essere preordinato e precedente rispetto a quello della semplicità" (v. Lanternari, 1987).
Ciò è vero, e suggerisce l'opportunità della cautela rispetto a schematismi interpretativi trasferiti automaticamente, senza residui e senza sfumature, nella (e sulla) realtà storico-sociale. Con tale avvertenza, è però altresì vero che, nel quadro generale della società moderna (industriale), i ruoli sono divenuti assai più numerosi, specializzati e distinti rispetto ai ruoli delle società tradizionali, e inoltre, per quanto riguarda la famiglia, il suo ruolo è oggi assai meno strategico di quanto non sia stato in altre esperienze, talché una comparazione che sia centrata soltanto sui connotati della famiglia risulta limitativa e solo parzialmente significativa sul piano descrittivo generale (la valutazione morale del fenomeno della caduta di ruolo della famiglia non è qui in discussione) (v. Fisichella, 1988).
In terzo luogo, al connotato dell'artificialità vengono non di rado attribuiti e associati i profili della ‛innaturalità' e della ‛inumanità'. Circa l'accusa di innaturalità, la consapevolezza è già in Cartesio, che formula questa risposta, davvero cartesiana: ‟tutte le regole delle meccaniche appartengono alla fisica, per cui tutte le cose che sono artificiali sono per ciò stesso naturali". Quanto alla ‛inumanità' dell'artificiale - e in primo luogo della macchina, che della socialità industriale e insieme dell'artificiale è l'espressione forse più tipica e certo più appariscente - vale la pena constatare che, non nascendo spontaneamente, le macchine sono in realtà una proiezione dell'uomo nel mondo esterno, talché, in questo senso, è indubbiamente più inumano (estraneo all'uomo) un albero, o una pietra, che non un telefono, un fax o un aeromobile.
Ciò non toglie, sia chiaro, che la paura dell'uomo nei confronti dell'artificiale abbia profonde radici psicologiche, come ha mostrato Emmanuel Mounier: ‟un sacro orrore interviene allorché l'ordine dell'uomo comincia a sostituirsi all'ordine delle cose. Si definisce allora inumano ciò che precisamente viene dall'uomo, ma emerge, senza preparazione dell'occhio o del sentimento, in quello che è stato fino a ora l'ambiente umano" (v. Mounier, 1949). E ciò non toglie, inoltre, che lo sviluppo tecnologico abbia suscitato problemi enormi e antinomie spesso laceranti, mettendo l'uomo di fronte al rischio di soccombere a opera dell'artificiale da lui stesso posto in essere, suprema forma di ribellione del generato al genitore. Tutto ciò non è estraneo alla tematica della tecnocrazia, ma rinvia con ogni evidenza alla dimensione della modernità e della socialità industriale.
3. I precursori
La prima, grande, sistematica costruzione teorica in punto di tecnocrazia (includente in pari tempo gli ingredienti fondamentali dell'ideologia tecnocratica) è quella dovuta alla riflessione di Claude Henri de Saint-Simon (1760-1825) e, soprattutto, di Auguste Comte (1798-1857). Certo, la Nuova Atlantide di Francesco Bacone, scritta probabilmente nel 1624 e pubblicata nel 1627, delinea, peraltro con accenti utopici, un modello di società ove l'azione sulla natura da parte dell'uomo in funzione del bene dell'umanità, la riproposizione dei fenomeni naturali in sede di laboratorio, la presenza di stabilimenti ove si preparano anche artificial metals mediante la combinazione di materiali naturali, costituiscono momento cruciale della vita collettiva, in un quadro di divisione del lavoro intellettuale, di ricerca e sperimentazione descritto con linguaggio insieme minuzioso e immaginifico: tra le figure ‛professionali', si va dai merchants of light ai depredators, dai mystery-men ai pioneers, dai compilers ai dowry-men, dagli inoculators agli interpreters of nature.
Tuttavia, pur nella suggestione di tali anticipazioni circa la posizione degli uomini di scienza ‛naturale', e quindi circa la competenza come studio e ‟conoscenza delle Cause", presenti nel disegno ideale baconiano, è poi praticamente assente nell'operetta del gentiluomo inglese ogni accenno significativo di analisi economica, viceversa centrale in ordine alla questione tecnocratica propriamente intesa. Ciò suggerisce che storicamente e culturalmente occorre spingersi oltre, per giungere appunto ai due maestri francesi del positivismo sociale, il cui pensiero - che peraltro ha investito anche una ricca molteplicità di altri argomenti - include un disegno assai penetrante e lucidamente precorritore dei passaggi fondamentali della problematica tecnocratica quale si è progressivamente proposta all'attenzione degli studiosi e dei sistemi politici.
La storia dell'umanità si caratterizza come un grande processo di evoluzione dalla socialità militare alla socialità industriale. Questo è il punto di partenza della sintesi sociologica saintsimoniana e comtiana. La parte più avanzata della specie umana è ormai giunta nella fase industriale del suo sviluppo. Dopo il periodo del ‛macchinismo', stagione che ha mosso i suoi primi passi già con l'abolizione della servitù e con l'età dei Comuni ma che diviene fenomeno crescentemente espansivo in tempi più recenti, la società industriale attraversa un'epoca di trasformazioni che hanno insieme il carattere della ineluttabilità storica (inerente all'idea stessa di progresso che è la chiave filosofica dell'interpretazione dei due pensatori) e del programma di intervento intellettuale e civile.
Primo aspetto di tale mutamento è il declino della nozione e della prassi di politica, intesa come azione dell'uomo sull'uomo basata sui criteri del comando, della coazione e della discrezionalità. Tipica della socialità militare nelle sue pur diverse manifestazioni storiche, la politica tende progressivamente a essere sostituita da un nuovo, diverso modo di conduzione potestativa. Attraverso un lungo lavorio di dépolitisation, ormai alla vigilia di realizzare la ‟fine della politica", al posto dell'azione dell'uomo sull'uomo, in breve, si afferma l'azione dell'uomo sulla natura, che esige e impone rapporti di potere non più coercitivi ma fondati sulla logica della dimostrazione, dell'amministrazione e della gestione sia della ‛divisione del lavoro', sia della ‛cooperazione degli sforzi' economici e sociali.
Secondo, correlativo aspetto del mutamento che caratterizza la società industriale è la sostituzione della borghesia con la nuova avanguardia sociale dei directeurs della produzione (come li chiama Comte), degli industriels dirigeants (come li definisce Saint-Simon). La borghesia è la classe egemone propria della stagione della industrializzazione ‛spontanea'. Qui lo sviluppo economico procede fuori da ogni progetto organico, piano, programma generale in grado di realizzare l'utilità per il più gran numero. I meriti culturali e strutturali della borghesia - classe che ha focalizzato l'attenzione sull'economia e che in sede teorica e pratica con la sua visione ‛critica' del mondo, con la sua idea di legalità, con la sua concezione di proprietà ha dato un contributo primario alla disarticolazione del sistema teologico-feudale, incarnazione più recente della socialità militare - non bastano ora a cancellare la constatazione che i costi della persistenza dell'influenza borghese sono divenuti troppo alti e intollerabili per la società industriale e per la pienezza della sua realizzazione. Con il suo stile di vita che tenta di imitare la feudalità in rotta senza averne i presupposti, con un ‛pensiero critico' che impedisce ogni autentica riorganizzazione del tessuto socio-economico europeo e occidentale, con una statualità che impone alle masse ormai riluttanti pratiche e comportamenti militari, la borghesia costituisce a questo punto il principale ostacolo all'emergenza della fase più alta e compiuta della socialità industriale.
Terzo aspetto del mutamento è che tale fase più alta esige, e in pari tempo registra, l'ascesa crescente dei direttori della produzione, dei managers. La classe generale della società industriale è, evidentemente, la classe industriale, cioè il proletariato. All'interno del proletariato esiste una divisione del lavoro tra industriels dirigeants e industriels exécutants (come vedremo, vi è anche un'ulteriore divisione del lavoro, tra ‛potere temporale' e ‛potere spirituale'). Che permanga o meno una proprietà formalmente privata dei mezzi di produzione, sempre la socialità industriale avanzata si caratterizza per una vocazione sociale, di disposizione al servizio della collettività. In tale contesto, quella che Comte definisce la ‟prépondérance des directeurs" non è fondata sulla proprietà privata dei mezzi di produzione, ma sulla loro gestione e amministrazione (pur se la figura personale del ‛proprietario' e del manager può ancora, talvolta o spesso, coincidere). Il maestro francese, in altri termini, vede con grande lungimiranza le tendenze al distacco tra titolarità e control degli strumenti produttivi : il directeur, cioè il manager, è colui che ha la guida del processo produttivo, latamente inteso, non in virtù della proprietà formale, non dunque in virtù di un rapporto patrimoniale diretto (che era il caso dell'imprenditore ‛borghese' nella stagione dell'industrializzazione ‛spontanea'), ma in relazione all'effettivo control che esercita sull'azienda e sull'intera meccanica economica grazie alle sue attitudini ‛positive' (competenza, capacità organizzativa, scientificità, spirito sociale). In questo ‟elevarsi dall'esercizio individuale al carattere collettivo" si colloca la transizione dall'egemonia della funzione proprietaria alla egemonia della funzione gestionale, tipica del directeur, talché la managerialità si qualifica come la punta avanzata e il segmento guida della intera classe operosa, industriale e proletaria.
Quarto aspetto del mutamento è l'approccio scientifico e tecnologicamente sofisticato che la preminenza dei directeurs comporta rispetto ai fenomeni sociali ed economici, nonché rispetto all'azione sulla natura, da condurre ormai su base di programmi organici e reciprocamente coerenti di intervento e sviluppo. In tale quadro, il deperimento dello Stato (‟al posto del governo sulle persone appare l'amministrazione delle cose e la direzione dei processi produttivi: lo Stato non viene ‛abolito', esso si estingue", ripeterà praticamente con le stesse parole Friedrich Engels nell'Antidühring) implica una duplice lettura in termini di fenomeni connessi e presenti in tale processo. Per un verso, la fine della statualità, intimamente intrecciata con la fine della politica, significa - con riferimento alla fase storica che segna altresì il superamento dell'egemonia borghese - la conclusione della stagione ‟rappresentativa e costituzionale". Se l'etica protestante, tipicamente ‛critica' e dispersiva, individualististica ed egoistica, ha esercitato un'influenza rivoluzionaria che ha conferito un senso anarchico ai valori di libertà e uguaglianza, con la fase ‛positiva' della storia il discorso si fa diverso, e necessariamente tale cambiamento di prospettiva deve investire le istituzioni rappresentative e costituzionali, non più necessarie e non più utili allo sviluppo di una società industriale avanzata.
Dominio incontrastato dell'elefantiasi legislativa, dell'incompetenza, dell'arbitrio soggettivistico, degli infiniti dibattiti astratti e ‛metafisici' tra giuristi e letterati (magistrati, avvocati, professori di diritto, giornalisti, pubblicisti e calligrafi di varia umanità), ambiente istituzionale ove fiorisce rigogliosa la corruzione - non soltanto ‛materiale' ma latamente intesa, con Comte, come ‟i diversi modi mediante i quali si tenta di fare prevalere i motivi di interesse privato nelle questioni di interesse pubblico" -, il regime costituzionale e rappresentativo è ormai un ostacolo alla piena realizzazione di una società ‛positiva' ove abbiano spazio i veri produttori, fisici, naturalisti, chimici, biologi, architetti, ingegneri (Comte è stato tra i primi a mettere in rilievo l'importanza sociale degli ingegneri, sulla quale insisterà poi l'opera di Thorstein Veblen), coordinati e diretti dai managers.
Tuttavia, ecco il verso ulteriore da tenere presente, il deperimento dello Stato non significa necessariamente caduta di ogni divisione del lavoro, ivi inclusa la distinzione tra i diversi ruoli e funzioni della vita sociale. Cade, in altri termini, la divisione del lavoro su base e legittimazione politica, non ogni divisione del lavoro. Se nell'Ideologia tedesca emerge la marxiana ed engelsiana visione utopica di una ‟società comunista, dove ciascuno non ha un esclusivo ambito di attività, ma può invece svilupparsi nel ramo da lui preferito", talché ‟la società regola la produzione universale e mi rende quindi possibile fare oggi questo domani quest'altro", sia Saint-Simon sia Comte respingono come anarchica la prospettiva della fine della divisione del lavoro sociale: in particolare, prendendo evidentemente spunto dalle nozioni di attraction industrielle e di industrie attrayante proposte da Charles Fourier tra il 1822 e il 1829, Comte nel Cours de philosophie positive (1830-1842) respinge con ironia il ‟nuovo progetto di lavoro universale che oggi si è osato raccomandare come essenzialmente attrayant", e che consisterebbe ‟nel perseguire contemporaneamente più occupazioni differenti e nel passare deliberatamente dall'una all'altra con tutta la rapidità possibile". Al contrario, la divisione del lavoro, ed entro essa l'articolazione tra coloro che dirigono e coloro che eseguono, è resa necessaria sia per ragioni di competenza sia per le esigenze di organizzazione e programmazione dello sviluppo sociale.
Quinto, importantissimo aspetto del mutamento, secondo Saint-Simon e Comte, è il recupero della distinzione tra potere temporale e potere spirituale, grande retaggio della visione istituzionale del Medioevo cattolico, ora da riproporre in forme nuove e perfezionate nella società industriale avanzata. Qui il punto di partenza è di singolare lungimiranza. Con la elevazione della produzione e del momento industriale a valore centrale della società positiva, con la conseguente razionalizzazione delle strutture e delle posizioni sociali in funzione della finalità principe della vita moderna, con la systématisation degli indirizzi settoriali in un plan generale in grado di realizzare l'indispensabile unità di orientamento industriale per il maggior benessere collettivo, infine con l'attribuzione del potere agli amministratori e direttori della produzione, i due pensatori francesi delineano, primi nella storia delle idee occidentali, il quadro della società industriale pianificata e tecnocratica.
Tuttavia, nello stesso momento in cui predicano e predicono l'inevitabile e imminente realizzazione di tante e concorrenti condizioni, i due filosofi avvertono nella società che ne deriva - tutta tesa nello sforzo produttivistico, totalmente incorporata in un sistema di piani volti in maniera esclusiva all'attuazione del più alto grado possibile di intervento sulla natura, immersa in un'atmosfera unicamente materialista e intenta al conseguimento di traguardi soltanto materiali, non esente perciò anch'essa da tentazioni egoistiche e particolaristiche, guidata da un'élite unicamente preoccupata dei traguardi industriali - la presenza minacciosa di gravi pericoli per l'umanità intera.
A questo punto il pensiero positivista rivisita la lezione istituzionale e culturale del Medioevo cattolico: infatti, per porre rimedio agli inevitabili eccessi di una organizzazione sociale così coerentemente pianificata e tecnocratica - neutralizzandone finché possibile gli effetti negativi - esso trasferisce alla moderna società scientifica e industrializzata la divisione del potere in temporale e spirituale. Accanto al potere temporale di cui sono depositari i direttori industriali, i quali si pongono perciò al vertice nella comtiana scala della generalità crescente delle funzioni e attribuzioni (sono dunque i ‛generalisti' nella dimensione temporale), sta un potere spirituale diversamente costituito, con una diversa sfera di influenza, con un compito diverso da quello meramente produttivo: lo compongono gli uomini dell'arte, della scienza teorica, della filosofia, della morale, con questi ultimi al vertice nella scala della generalità crescente nella dimensione spirituale. Compito degli intellettuali (così li definisce già Saint-Simon, al quale si deve l'uso sostantivato sia dell'aggettivo ‛industriale' sia dell'aggettivo ‛intellettuale') non è quello di comandare, perché, come dice Comte, ‟il vero potere teorico si limita sempre a consigliare, senza mai comandare": è invece, appunto, quello del consiglio e della persuasione attraverso l'influenza della (e sulla) opinione pubblica, della vasta communis opinio in via di formazione attorno ai valori inerenti alla religione secolare e secolarizzata dell'Umanità.
In breve, se da un lato sono alle origini della moderna idea tecnocratica, da un altro lato Saint-Simon e Comte appaiono alle origini delle preoccupazioni suscitate nel pensiero sociale a noi contemporaneo dalle intemperanze tecnocratiche: la dottrina della distinzione dei due poteri può considerarsi il contributo del positivismo alla ricerca e alla proposta dei rimedi atti a ovviare ai drammi di una società totalmente tecnicizzata e pianificata (v. Fisichella, 1965 e 1995).
4. Tre rivoluzioni industriali
La realtà sociale nella quale iscrivere il fenomeno tecnocratico e la relativa problematica è, dunque, la società industriale. Ma all'interno di questa occorre distinguere, e allo scopo si possono individuare tipologicamente tre ‛rivoluzioni industriali', ciascuna con suoi tratti prevalenti e peculiari. Tale distinzione è significativa per un più preciso inquadramento storico della tecnocrazia.
La prima rivoluzione industriale si caratterizza anzitutto per una tendenziale spontaneità: non è indotta dalla ‛mano pubblica', ma è piuttosto un prodotto dell'iniziativa autonoma del sistema economico e dei suoi soggetti. Essa si realizza, inoltre, mediante la crescente utilizzazione della macchina nel processo produttivo. Mentre la società preindustriale vive una condizione che comparativamente può essere considerata di stagnazione del livello di vita e della produttività, talché il processo di sviluppo, quando c'è, ‟risulta terribilmente lento o discontinuo, oppure facilmente reversibile" (v. Deane, 1965), la prima rivoluzione industriale coincide culturalmente con una aspettativa dello sviluppo. Altri elementi che connotano la realtà preindustriale - e che la prima rivoluzione industriale inizia a ribaltare - sono: la forte prevalenza della produzione agricola come attività economica (si calcola che permane in fase preindustriale un paese nel quale 1'80% della popolazione è dedito all'agricoltura, mentre è compiutamente divenuto industriale un paese dove l'occupazione agricola è del 15%, per entrambe le cifre con un certo margine in più o in meno, a seconda dell'incidenza del commercio estero); la sostanziale carenza di specializzazione professionale e lavorativa nel processo produttivo (modesta divisione del lavoro); lo scarso livello di integrazione tra le regioni di un paese e i relativi mercati; il fatto che i processi produttivi sono fortemente condizionati dalle situazioni naturali (emblematico il trascorrere delle stagioni e la sua primaria importanza per l'agricoltura: pioggia, siccità, gelate, grandine, piene o secche dei corsi d'acqua), laddove l'azione dell'uomo sulla natura in chiave industriale diviene vieppiù modificativa, tende all'affrancamento dai condizionamenti naturali, in una parola si ‛artificializza'.
Ancora, alla prima rivoluzione industriale si accompagnano di solito la crescita nel lungo periodo della popolazione, della produzione e del reddito pro capite (con tassi variabili ma sempre significativi), il fenomeno dell'inurbamento, profondi mutamenti nella forza-lavoro sia sotto il profilo quantitativo sia sotto il profilo qualitativo (emerge nella sua distintività sociale la classe del proletariato urbano industriale), una redistribuzione del reddito tra classi e ceti sociali, una maggiore e diffusa disponibilità di capitale per lo svolgimento delle attività produttive come risultato di un risparmio annuo sufficiente non solo a sostituire il capitale che si esaurisce nel processo produttivo, ma anche ad acquisirne di più. Correlativamente, si sviluppa nella sua distintività sociale la classe dell'imprenditore industriale capitalista proprietario e gestore degli strumenti della produzione.
Si parla di seconda rivoluzione industriale per mettere in evidenza una nuova situazione, caratterizzata dalla presenza combinata di quattro condizioni fondamentali: la rilevante e crescente utilizzazione delle acquisizioni scientifiche e tecnologiche nei processi produttivi; l'inserimento dell'azione trasformativa sulla natura in un sistema di previsioni e in un complesso di piani generali e/o di programmi aziendali volti a conferire razionalità allo sviluppo economico e a evitarne le crisi e le cadute; la spinta alla concentrazione delle aziende e alla correlativa espansione dell'impresa; la pratica dell'azionariato di massa, con la conseguente dispersione della nominalità del capitale tra un'ingente e anonima molteplicità di titolari (fenomeno, quest'ultimo, già evidenziato da Adolf A. Berle Jr. e Gardiner C. Means nel 1934). In breve, se la prima rivoluzione industriale è la rivoluzione del macchinismo, la seconda può esser definita la rivoluzione dell'organizzazione (v. Pasdermadjian, 1959).
Sul piano sociale, tali condizioni si accompagnano alla nascita e all'ascesa di gruppi e di categorie il cui titolo di promozione sociale è di per sé estraneo a una concezione patrimoniale della natura. Poiché l'intervento su quest'ultima al fine di trasformarla parte logicamente non dal possesso della res, ma dalla sua conoscenza, è la competenza la nuova fons honorum nella società industriale avanzata. Un solo esempio di questo meccanismo che privilegia la competenza: nella misura in cui si ha concentrazione delle aziende e in pari tempo la titolarità del diritto di proprietà si sparpaglia tra una miriade di azionisti, in larghissima parte senza alcun rapporto funzionale con l'impresa e privi di un qualunque potere di decisione in sede aziendale, si determina un moto di separazione tra bene economico e titolarità del medesimo. Qui l'attore che acquista rilievo potestativo è colui che prende di fatto le decisioni che interessano lo sviluppo produttivo. Se prima era sostanzialmente l'imprenditore capitalista, titolare della proprietà, ora è presente la nuova figura di chi esercita la funzione di ‛gestione' dell'azienda in base a criteri di competenza e comunque indipendentemente da un rapporto di proprietà. L'imprenditore somma titolarità e gestione. Con la rivoluzione dell'organizzazione, nasce la figura di chi gestisce l'azienda anche senza averne la titolarità. E si badi: ciò che vale per le grandi corporations neocapitalistiche (il cui carattere privatistico non è formalmente negato) può essere ipotizzato anche per i regimi di capitalismo di Stato, in base all'assunto che lo Stato è un titolare assai più anonimo del pulviscolo di azionisti delle imprese occidentali.
È evidente che, nel contesto delle economie di mercato, il passaggio dalla prima alla seconda rivoluzione industriale non determina la scomparsa dell'imprenditore capitalista. Piuttosto, si manifestano differenti prospettive funzionali, e se permangono aziende a conduzione strettamente imprenditoriale, se ne affiancano altre ove si assiste a una ‛dialettica' tra imprenditore e gestore, e altre ancora ove quest'ultimo è preminente. Quanto a sapere chi sono questi ‛gestori', due sono le definizioni fondamentali: quella appunto di tecnocrate, o manager, che focalizza piuttosto l'elemento individuale, e quella di tecnostruttura, di cui parla John Kenneth Galbraith, e che focalizza piuttosto l'elemento collegiale, cioè ‟lo staff dei tecnici, dei programmatori e degli altri esperti" che costituisce ‟l'intelligenza direttiva - il cervello - dell'impresa" e nel quale è saldamente localizzato ‟l'effettivo potere di decisione" (v. Galbraith, 1967).
Possiamo definire la terza rivoluzione industriale come la information revolution, la rivoluzione dell'informatica, del calcolatore. In questo senso, essa prelude e avvia quella che Zbigniew K. Brzezinski ha chiamato ‛società tecnetronica', ‟una società, cioè, culturalmente, psicologicamente, socialmente, economicamente plasmata dal forte influsso della tecnologia e dell'elettronica, in particolare dei calcolatori e dei nuovi mezzi di comunicazione" (v. Brzezinski, 1969). Ma fortuna maggiore ha trovato la dizione di società postindustriale, popolarizzata da Daniel Bell e poi ampiamente condivisa. Primo elemento da evidenziare è che tale società è (sarà) caratterizzata - sul piano tecnologico, economico, sociale - da ‟tempi di raddoppio tipici compresi fra tre e trent'anni". In tale chiave, è stato rilevato già un trentennio fa che ‟i calcolatori elettronici del 1967 hanno una capacità d'azione dieci volte superiore a quelli del 1964 e 1965, il che significa che i concetti che riguardano le funzioni proprie dei calcolatori, che valevano per quelli di due o tre anni fa, devono essere riveduti e talvolta completamente cambiati [...]. Sebbene il calcolatore costituisca un esempio limite di rapido mutamento, esso è abbastanza indicativo, ma l'arco di tempo in cui, verosimilmente, si dovrebbero svolgere i cambiamenti significativi nella maggior parte dei campi è più prossimo a dieci o vent'anni che a due o tre" (v. Kahn e Wiener, 1967).
Altri caratteri della società postindustriale possono essere così riassunti. Reddito pro capite all'incirca cinquanta volte superiore a quello della società preindustriale. La maggior parte delle attività ‛economiche' sono terziarie e quaternarie (servizi), piuttosto che primarie o secondarie (produzione). Un numero crescente di problemi ammette soluzioni alternative tra le quali è possibile scegliere in base a fattori e obiettivi non solo economici ma anche tecnologici e culturali, talché l'impegno serio del lavoro intellettuale sarà dedicato all'arte di ‟elaborare alternative" (v. Bell, 1969). Le imprese non rappresentano più la maggior fonte di innovazione, ma sono vieppiù sostituite in questo compito dai centri di ricerca, dalle fondazioni scientifiche, dalle università. L'applicazione della cibernetica si diffonde costantemente. L'organizzazione sociale e l'organizzazione del lavoro sono improntate a dinamismo e flessibilità maggiori: le esperienze di lavoro durante la vita, il cambio di mansioni e di orari durante il lavoro, saranno sempre più frequenti e permetteranno all'individuo di aderire meglio alla rapida evoluzione del sistema produttivo e sociale. I mass media e l'informatica costituiranno l'elemento connettivo di un sistema fisicamente sempre più articolato e frammentario, ma collegato da una rete nevralgica di comunicazioni che assicurerà il nesso e il contatto tra la pluralità delle parti (v. De Masi, 1985). La società è in continuo aggiornamento culturale, e si trasformano le tecniche e le istituzioni di istruzione. Declinano i valori legati al lavoro e tende ad aumentare il tempo libero. Il lavoro fisico viene progressivamente delegato al robot, il lavoro mentale di tipo ripetitivo e programmabile viene delegato all'elaboratore. La classe operaia, nel senso tradizionale, si contrae progressivamente. Si afferma quella che Bell definisce la ‟classe teoretica", composta di economisti, sociologi, psicologi, scienziati, programmatori, cibernetici, ricercatori dei diversi settori (v. Bell, 1971). Poiché è controverso che la società postindustriale sia in grado di assicurare un'opulenza crescente, vuoi per limiti naturali delle risorse vuoi per i costi sociali e ambientali dello sviluppo economico, le ragioni di conflitto sociale non mancheranno, tra l'altro anche perché non mancheranno problemi di disoccupazione, per il ricorso sempre più largo agli strumenti tecnologici nei luoghi di lavoro, per i dissesti del Welfare State e per il sovraccarico del sistema previdenziale e assistenziale.
5. Caratteri strutturali e funzionali
Il profilo tipologico, or ora succintamente tracciato, delle tre rivoluzioni industriali, suggerisce che in fatto la questione tecnocratica nasce e si iscrive pienamente nel contesto della seconda rivoluzione industriale. Non a caso, del resto, in James Burnham la managerial revolution - come titola l'opera dello scrittore americano (v., 1941) che, probabilmente sviluppando e articolando un'intuizione formulata alla vigilia della seconda guerra mondiale dall'italiano Bruno Rizzi nel saggio sulla Bureaucratisation du monde, molto ha contribuito a focalizzare l'attenzione sul problema della tecnocrazia - coincide ampiamente con i caratteri della rivoluzione dell'organizzazione: in questo senso, mentre la traduzione italiana usa nel titolo la dizione impropria (vedremo subito perché tale) di ‛rivoluzione dei tecnici' (1947), l'edizione francese traduce più opportunamente con L'ère des organisateurs (1948), anche se bizzarramente scarta il termine di directeur perché ‟inusuale sia nel linguaggio comune sia nel linguaggio scientifico". L'opera del grande francese Auguste Comte, fondatore della sociologia, è dunque passata invano per il ‛linguaggio scientifico' di certi editori francesi...
Ciò premesso, se il terminus a quo storico è ormai evidente, e se dalla precedente analisi sono già venute indicazioni significative circa la delimitazione strutturale e funzionale del fenomeno tecnocratico, altre precisazioni vanno però ancora tracciate. La prima riguarda la distinzione tipologica tra tecnico e tecnocrate. Per tecnico si intende solitamente uno specialista, cioè un attore sociale dotato di competenza in un particolare settore dell'esperienza collettiva, e che svolge il suo ruolo secondo un programma di efficienza. Al contrario del tecnico - ecco la differenza di fondo - il tecnocrate non è (non si percepisce, non si propone come) uno specialista. Beninteso, anche il tecnocrate parte dalla competenza e mira all'efficienza. Ma, mentre il tecnico si qualifica come un esperto del particolare, il tecnocrate va definito - e si definisce - come un esperto del generale. Se il primo è uno specialista, il secondo è un generalista, caratterizzato com'è da una polivalenza di funzioni e da una conoscenza globale delle variabili dell'azione.
Generalista, perciò, è colui che sta al livello funzionale più alto nell'ambito del processo di produzione industriale. Il tecnocrate è il direttore supremo di tale processo (va da sé che il tecnico - ingegnere, economista, cibernetico, ecc. - è ben suscettibile di promozione a tecnocrate, ma ciò comporta l'abbandono della logica specialistica). Ecco, tra l'altro, perché si parla di polivalenza di funzioni e di conoscenza globale delle variabili: il manager, infatti, sovrintende sia alla direzione del personale (tecnico ed esecutivo), sia all'amministrazione delle cose, sia all'organizzazione delle complesse relazioni tra produzione, distribuzione e consumo. Beninteso, si serve dell'opera degli specialisti a vario livello (e in effetti la seconda rivoluzione industriale apre la via all'emergenza e all'espansione di molteplici categorie di tecnici e gruppi professionali), ma è lui che rielabora e coordina i risultati dell'altrui collaborazione, integrandoli nei meccanismi di decisione in tema di politica aziendale. Di più. Dall'assunto generalista la cultura tecnocratica fa derivare un sillogismo carico di implicazioni importanti sul terreno politico. Infatti, poiché il carattere industriale è il connotato generale della società moderna e contemporanea nei paesi avanzati (che è appunto società industriale), poiché il tecnocrate è al vertice nel processo produttivo della società industriale, il tecnocrate è il generalista della (nella) società industriale.
Una seconda precisazione struttural-funzionale riguarda lo status socio-economico e la condizione di classe del tecnocrate. L'idea comtiana e marxiana che il proletariato come classe produttiva tenda a divenire la classe unica, ‛classe-non-classe', rimane ampiamente confutata dall'esperienza. In concreto, la società industriale avanzata evidenzia fasi e situazioni che gli analisti tendono a dipingere come proletarizzazione del ceto medio, e fasi e situazioni rispetto alle quali si sottolinea la trasformazione del proletariato urbano industriale verso caratteristiche di ceto medio (ed è, inoltre, fuori discussione la contrazione numerica di tale proletariato, della ‛classe operaia' in senso stretto). Ancora. Un dato recente che registra costanti conferme sottolinea che i processi di ristrutturazione produttiva, di innovazione tecnologica, di modificazione concettuale e operativa del Welfare State, stanno agendo nel senso di una accentuazione delle disuguaglianze socio-economiche.
In tale contesto, la previsione saintsimoniana e comtiana che comunque i managers, industriali dirigenti, godrebbero di una condizione economica superiore, connessa al loro ruolo nella divisione del lavoro sociale, trova puntuale conferma. Come ha scritto Burnham, l'economia di una società retta dai tecnocrati (cioè i direttori e amministratori della produzione) è, anch'essa, un'economia ‟di sfruttamento", attribuendo alla parola ‛sfruttamento' un peso morale neutro, e intendendo con essa solo una ineguale distribuzione dei prodotti dell'economia medesima. Naturalmente, il trattamento preferenziale nella distribuzione è garantito ai managers ‟in termini di ‛posizione' (status) nella struttura politico-economica, non in termini dei diritti di proprietà del tipo capitalistico (non più che di quelli del tipo feudale)" (v. Burnham, 1941). Possiamo tradurre il concetto dicendo che la competenza è una risorsa, e come tale il suo investimento produce (è suscettibile di produrre) ricchezza e condizioni sociali distinte.
Che poi esista un problema di compatibilità tra (ipotetico, teorico) monoclassismo e diversificazione di status economico, è vero. Ma qui, ad esempio, Georges Gurvitch sarebbe pronto a sostenere che ‟la necessità di una gerarchia dei salari è stata riconosciuta dalla maggior parte delle dottrine socialiste" (v. Gurvitch, 1949), malgrado Engels nell'Antidühring abbia rimproverato a Saint-Simon di avere attribuito agli amministratori una posizione economicamente privilegiata. Quanto alla notazione comtiana sul connotato ‛proletario' del tecnocrate, anche senza estendere ai managers la considerazione di Charles Bettelheim, secondo il quale ‟se i tecnici si distinguono certamente in virtù di una funzione specifica nel sistema di produzione [...] i loro rapporti con i mezzi di produzione non li distinguono fondamentalmente dalle altre categorie di lavoratori" (v. Bettelheim, 1949), poiché viceversa i managers hanno il control del sistema di produzione, gestiscono e dirigono gli strumenti della produzione (cosa che in concreto non accade per gli altri lavoratori, neppure nelle forme più avanzate di cogestione, di Mitbestimmung, ove semmai sono le burocrazie sindacali che se la vedono con i tecnocrati), tale notazione va piuttosto riformulata e intesa nel senso che la tecnocrazia è fenomeno difficilmente riconducibile tanto alla borghesia imprenditoriale quanto alla borghesia intellettuale, nelle loro puntuali espressioni storiche. Che sia una classe, o che sia un gruppo sociale (ma la risposta più plausibile appare la seconda, anche per la sempre più impervia utilizzabilità della nozione di classe nella realtà contemporanea delle società avanzate), la tecnocrazia costituisce un quid novi rispetto alla cultura e alla struttura borghesi.
Una terza precisazione struttural-funzionale riguarda la posizione della tecnocrazia nelle società di democrazia occidentale e nelle società a reggimento comunista o, più puntualmente, nelle società a capitalismo formalmente e prevalentemente privato e nelle società a capitalismo formalmente e prevalentemente pubblico (tra le due coppie non vi è piena sovrapposizione: ad esempio, una società a capitalismo privato può avere un regime politico autoritario). Orbene, in merito da più parti sono state riscontrate marcate analogie nei rispettivi meccanismi produttivi e amministrativi: qui basterà ricordare che una ricerca condotta circa un quarantennio fa da David Granick aveva messo appunto in rilievo le forti affinità, in ordine alle funzioni e ai poteri degli amministratori, tra l'impresa economica statunitense e l'impresa sovietica, pur nel corretto riconoscimento delle profonde diversità di ambiente ideale, giuridico e politico (v. Granick, 1960). D'altra parte, come trascurare che più di un autore della scuola di Francoforte, da Friedrich Pollock a Herbert Marcuse, ha insistito sui caratteri unificanti dello sviluppo tecnologico, ben oltre lo schermo delle (apparenti) distinzioni politiche e istituzionali (v. Fisichella, 1993)?
Riservando a un paragrafo successivo l'esame del profilo politico della questione, qui merita prendere le mosse dall'osservazione di William H. Whyte, secondo il quale negli Stati Uniti la nascita e soprattutto l'affermazione dell'‛uomo dell'organizzazione', dell'amministratore, coincidono ampiamente con il ‛tramonto dell'etica protestante' e con il deperimento dei connessi valori di competizione, risparmio, impegno individuale, spirito di intrapresa, sacertà della proprietà privata, rischio personale e imprenditoriale (v. Whyte, 1956). Non è certo un caso che per Comte l'etica protestante rappresenti un ostacolo al processo di organizzazione della produzione e della società. Adesso possiamo limitarci a segnalare che indubbiamente molti fattori omologanti agiscono (hanno agito) nelle società occidentali e nelle società comuniste, anche in relazione all'incidenza del fenomeno manageriale. Ma con due differenze fondamentali: il mercato e (correlativamente) l'autonomia della società civile. Per quante trasformazioni abbiano subito l'uno e l'altra nel senso della concentrazione aziendale, della conglomerazione oligopolistica e della compenetrazione tra arena economica e arena politica, per quanto forti siano stati gli attentati ai valori che hanno alimentato lo ‛spirito del capitalismo' privato (che peraltro non sono sempre e prioritariamente valori ‛protestanti', come ormai mostra un'ampia letteratura che rivisita criticamente Max Weber), la persistenza del mercato, o al contrario la sua negazione, rappresentano un discrimine ‛sistemico' che non può essere trascurato e sottovalutato. La vera differenza sta qui, più e oltre che nel carattere privato o pubblico della titolarità degli strumenti della produzione, dunque del capitale e della tecnologia.
Una quarta precisazione struttural-funzionale, infine, investe il rapporto tra tecnocrazia e burocrazia. La parola ‛burocrazia' si deve al fisiocratico e liberale francese Jean Claude Marie Vincent de Gournay (1712-1759), ma l'oggetto designato è di gran lunga più antico. I grandi imperi - romano, bizantino, cinese, indiano - disponevano di vasti apparati amministrativi, civili e militari. In particolare, il mandarinato cinese era costituito da una ufficialità civile e militare che aveva il suo fondamento funzionale e di giustificazione sociale nella preminenza intellettuale ed educativa, cioè in un tipo di ‛competenza' che si configurava come saggezza studiosa nei ranghi superiori e come specializzazione di esperti ai livelli inferiori.
È sufficiente quest'ultima osservazione per evidenziare che vi sono affinità tra tecnocrazia e burocrazia, talvolta enfatizzate da alcuni analisti fino a ricondurre l'intero quadro delle realtà burocratiche, civili e militari (direttori generali ministeriali, commis pubblici, stati maggiori militari) entro l'unica casella tecnocratica. Tuttavia occorre distinguere. Per cominciare, sotto il profilo genetico burocrazie emergono già ben prima dell'era cristiana, dunque in ambienti sociali di tipo agricolo, mentre la tecnocrazia nasce nel contesto industriale. Inoltre, per lunghe fasi gli apparati amministrativi hanno operato - anche, o prevalentemente - in una logica di patrimonialismo (possesso e trasmissibilità della carica) e prebendalismo (ricompensa ampiamente in natura), mentre la burocrazia in senso proprio, moderna, soprattutto pubblica ma anche privata, si caratterizza su base di impersonalità, neutralità, separazione tra persona e carica, remunerazione essenzialmente monetaria, distacco tra funzione e strumenti impiegati per espletarla, potere legale-razionale e dunque competenza nel duplice significato di titolo culturale-professionale a ricoprire un incarico e di ambito preciso e formale dell'ufficio. Inoltre, in termini remunerativi vi sono in genere differenze di rilievo tra burocrati pubblici e managers industriali.
Ciò detto, rimane peraltro che nel nostro tempo, quanto più è attiva l'interpenetrazione tra arena politica e arena economica, quanto più si registrano fenomeni di privatizzazione della dimensione pubblica e di pubblicizzazione della dimensione privata, quanto più si muovono in una ratio di gruppi oligarchici, tanto più fenomeno burocratico e fenomeno tecnocratico tendono a realizzare spazi di sovrapposizione o di contiguità funzionali e a perseguire stili di vita e prestazioni professionali almeno relativamente omologhi, ove sia alleanze e coalizioni sia dissociazioni e conflitti sono condotti e praticati come relazioni e interazioni tra simili.
Così, se per un verso registriamo la presenza di alti gradi militari e cariche di vertice dell'amministrazione civile che si autodefiniscono managers, per un altro verso si è spesso potuto parlare di apparato industriale-militare come struttura sinergica capace di esercitare forti influenze nei processi decisionali di vari regimi politici, democratici e non democratici. Rimane peraltro che - sebbene per Saint-Simon, Comte e Marx il modello organizzativo della fabbrica si sia ispirato al modello militare, nonostante il nesso tra esigenze mercantili e guerre marittime, coloniali e imperiali sia stato molto stretto, quantunque il ventesimo secolo sia stato la stagione delle guerre mondiali e della guerra totale - socialità militare e socialità industriale divergono per una vasta gamma di motivi. Per richiamare un solo aspetto, il senso dell'onore dell'ufficialità militare fa parte di un'etica ‛professionale' che include competenza ed efficienza, ma che non si esaurisce in esse.
6. La questione del potere
L'influenza del manager nel sistema sociale moderno è una ‛funzione' dell'aumentato rilievo del momento economico. Fin qui la constatazione è pacifica, e riguarda altresì quella specifica figura di tecnocrate che è il banchiere o, meglio, il bancocrate, per dirla con il barone siciliano Giuseppe Corvaja. Seguace di Saint-Simon, attivo nella prima metà dell'Ottocento, Corvaja dedica alla ‛bancocrazia' due lavori ove condensa i termini della sua analisi e delle sue aspettative circa il ruolo del credito, della finanza e dei suoi uomini, anche sulla scia del suo ispiratore francese che ha attribuito alla legge di bilancio il rango di ‟legge generale", poiché ‟il denaro è per il corpo politico ciò che il sangue è per il corpo umano" (v. Corvaja, 1840-1841 e 1841).
Ciò premesso, occorre ormai andare oltre, affrontando la questione cruciale della natura del κρα*τος. Nella storia, i modi di selezione e promozione sociale e di reclutamento e designazione alle massime cariche non sono numerosi, si ripropongono da moltissimi secoli, e si possono raggruppare nell'ereditarietà (tipica delle forme aristo-monarchiche ma vigente anche per la trasmissione dei beni economici nei sistemi di capitalismo a proprietà privata), nell'elezione (tipica della democrazia ma originariamente attiva in sede aristo-oligarchica), nella cooptazione (tipica delle forme oligarchiche e dei ‛comitati', nonché di organismi religiosi), nella competenza (tipica di gruppi professionali intellettuali, gruppi imprenditoriali e finanziari, burocrazia, tecnocrazia), nell'estrazione a sorte (in talune fasi e cariche della democrazia antica e comunque del mondo antico), nella conquista, se con ciò intendiamo che l'aspirante al potere se ne impadronisce con la forza, sia essa regolamentata, conforme a norme stabilite (successione tra i figli del sovrano defunto decisa da duelli all'ultimo sangue: in talune aree africane), oppure no (caso dell'usurpatore). Ci sono poi le forme miste: monarchie elettive, consessi di studiosi (cioè fondati sulla competenza) che accolgono nel loro seno altri studiosi o per cooptazione o per elezione, e così via.
Il tecnocrate, dunque, si rifà alla competenza. Ma come individuare nella tecnocrazia un vero e proprio regime con suoi tratti specifici? Per rispondere non si può che partire dall'ideologia tecnocratica. Infatti, esiste una ideologia tecnocratica, ed essa ha molta parte nella valutazione della fenomenologia tecnocratica. Capisaldi di tale ideologia sono - oltre alla preminenza della competenza e dell'efficienza (ma questa deriva dalla prima: si è efficienti in quanto competenti, pur se è vero che si può essere competenti senza essere efficienti) - la concezione della politica come regno dell'incompetenza, della corruzione e del particolarismo, il tema del disinteresse delle masse nei confronti della res publica con la conseguente professionalizzazione del decision-making, la tesi del declino delle ideologie politiche (cioè le ‛altre' ideologie o, se si vuole, le ideologie degli ‛altri') e la sostituzione con una sorta di κοινη* unificante l'umanità in nome della scienza, della tecnologia e dello sviluppo economico. Vi è, infine, il sillogismo di fondo del quale abbiamo già detto nel quinto capitolo, circa la posizione generalista del manager.
È evidente che l'ideologia tecnocratica si basa (anche) su taluni elementi di realtà, tenuti poi insieme dal rifiuto della politicità: la crisi delle ideologie è, in alcuni periodi, un dato di fatto, le masse sono impreparate e spesso disattente in ordine a scelte complesse che esigono conoscenze approfondite e professionalità, e così avanti. Tuttavia, per dimostrare l'esistenza di un regime non-politico (questa è infatti la praesumptio tecnocratica, il mutamento dell'essenza del potere), e in particolare per dimostrare che il tecnocrate è il generalista non soltanto del processo produttivo ma dell'intero sistema di gestione pubblica, si dovrebbe intanto provare che per la gestione della società bastano la competenza e la logica ‛dimostrativa', senza alcun ricorso alla politicità. Partiamo ora da qui: in senso stretto, regime tecnocratico può essere definito quello nel quale il tecnocrate indica e applica, su basi di competenza, sia i mezzi, sia i fini dell'azione sociale. Regime politico è, viceversa, tanto quello nel quale il politico indica e applica - in relazione a suoi criteri - mezzi e fini, quanto quello nel quale al competente è tendenzialmente affidata l'indicazione dei mezzi, tra i quali il politico sceglie in relazione a fini politicamente determinati. Perché ci sia un regime tecnocratico, come regime non-politico, è necessario dunque che sia il tecnocrate a fissare, su esclusive basi di competenza, non solo i mezzi ma anche i fini dell'azione sociale. Generalista, infatti, è chi, messe nel conto le diverse variabili, anche strumentali, decide sui fini dell'azione sociale. Ma basta la competenza a decidere sui fini? O questi non chiamano piuttosto in causa opzioni di valori, scelte di civiltà, persino considerazioni metafisiche, e in definitiva passioni, positive e negative? Tutto ciò configura spinte, atteggiamenti e motivazioni che la competenza può sostituire e cancellare nel complesso gioco delle relazioni sociali e potestative?
Di più. Il problema dei fini introduce al problema dell'interesse, e degli interessi. L'uomo politico cede al particolarismo degli interessi, e le ideologie altro non sono che le giustificazioni degli interessi particolari di classi, gruppi, categorie: così recita l'ideologia tecnocratica, che al pari di altre ideologie antipolitiche postula una concezione oggettivistica del bene comune, di un bene comune conoscibile mediante ragione, e qui mediante ragione ‛scientifica'. Ma si può immaginare una ‛competenza' così asettica da sfuggire sempre e comunque a ogni condizionamento dell'interesse? ‟Si può peccare per ignoranza - osserva Vilfredo Pareto - ma si può anche peccare per interesse. La competenza tecnica può fare evitare il primo male, ma non può nulla contro il secondo" (v. Pareto, 1902). E ancora. Accanto alla questione del particolarismo, c'è la questione della corruzione, che può legarsi alla prima, senza peraltro coincidere con essa, perché non è detto che il perseguimento di un interesse particolare debba necessariamente comportare corruzione. Ora, è certamente vero che ci sono uomini politici corrotti, e non si può negare che specie taluni regimi politici favoriscono o non ostacolano l'espansione della corruzione. Ma la corruzione è un'esclusiva della politica? E attiene all'essenza della politica? L'esperienza dice di no, nel senso che la corruzione (corruttibilità) attiene piuttosto all'essenza della natura umana, mentre semmai è questione politica la capacità o meno di identificare ed edificare sistemi istituzionali in grado di ridurre e limitare gli spazi e le opportunità della corruzione. Inoltre, sempre l'esperienza dice che il mondo è pieno di scienziati e di intellettuali che si prostituiscono al potere e ne avallano tutte le abiezioni. Forse che costoro non sono corrotti perché sono competenti?
Dopo i tre nodi relativi ai fini, al particolarismo degli interessi, alla corruzione, veniamo all'aspetto più squisitamente politico, che è poi l'aspetto dell'azione dell'uomo sull'uomo, ivi compresa la coazione, l'impiego della forza fisica. In merito, è davvero plausibile che il governo dei managers configurerebbe un modo di gestire la cosa pubblica diverso alla radice da quello politico, esaurendosi perciò nell'azione dell'uomo sulla natura, quindi nell'‛amministrazione delle cose' e nella ‛direzione delle persone', senza mai ricorso alle modalità politiche e in particolare all'elemento coattivo, ma solo mediante ‛dimostrazione'?
Quando Saint-Simon afferma, nel Nouveau christianisme (1825), che gli uomini della positività ‟si propongono come scopo finale del loro impegno di annientare completamente il potere del gladio, il potere di Cesare, che, per sua natura, è essenzialmente provvisorio", egli ha per bersaglio l'essenza stessa della politicità. Fanno certamente parte di quest'ultima le diverse modalità della mediazione, la prospettiva dell'equilibrio, gli sforzi e le aspettative del temperamento reciproco tra soggetti individuali e collettivi: e già sotto tale profilo ci si potrebbe interrogare sul livello di compatibilità tra logica della ‛dimostrazione' e logica dell'equilibrio, della mediazione, del temperamento potestativo. La ‛dimostrazione' basta a sopperire a tutte queste incombenze e modalità, e ne giustifica il ‛superamento'? Ma il nodo più squisitamente problematico è poi un altro.
Il carattere in relazione al quale una tradizione multimillenaria, fin qui non confutata e non confutabile, riconosce alla politica il suo requisito costitutivo è dato dalla discrezionalità, ove con tale connotato si sottolinea che, in ultima e suprema istanza, è politica la decisione su ‛chi' è amico (o va considerato tale) e su ‛chi' è nemico (o va considerato tale) (v. Fisichella, 1988).
Si può naturalmente modulare variamente il tasso qualitativo e quantitativo di tale discrezionalità (e anche su siffatto indicatore si compareranno perciò i regimi politici), ma sempre vi è un momento nel quale interviene (o è suscettibile di intervenire), nella dimensione ‛temporale', il criterio discrezionale, e quindi il ricorso alla coazione, sia interna sia internazionale. Non può allora bastare, o comunque può non bastare, la ‛dimostrazione scientifica' per decidere ‛chi' è amico e ‛chi' è nemico.
Un ipotetico regime tecnocratico sarebbe non-politico fino al punto di espungere il momento ultimo della discrezionalità? Per rispondere, merita considerare questo aspetto. Il problema del potere non è solo il problema di come e a quale titolo accedere al potere. È, anche e soprattutto, il problema di come mantenervisi. Ammettiamo adesso che il criterio di accesso al potere e la sua fonte di legittimità sia la competenza. La questione, sia chiaro, è controversa. Se si assume, come vuole l'ideologia tecnocratica, che la società nel suo complesso debba essere retta dai managers, cioè dai direttori e organizzatori della produzione e del processo economico, si deve pur segnalare che Wright Mills in The power elite sostiene che nelle grandi corporations il meccanismo della cooptazione degli organization men è impostato in maniera tale che ‟il più adatto sopravvive", e fin qui siamo alle regole della selezione naturale, ma ‟l'essere adatti non significa possedere una competenza specifica - è probabile che non esista nulla di simile per le massime cariche direttive - bensì sapersi conformare ai criteri di coloro che già si trovano in alto. Rendersi benaccetti ai grandi capi vuol dire agire come loro, assumere il loro aspetto, pensare come loro, essere uno di loro e tutto per loro, o almeno comportarsi nei loro confronti in modo da dare appunto tale impressione" (v. Mills, 1956).
In effetti, anche senza considerare quei managers che nelle aziende a capitale pubblico o a partecipazione statale debbono la loro posizione a designazioni partitocratiche o ‛sindacatocratiche', accade che non di rado nella struttura tecnocratica siano presenti yes men, che debbono il loro status alla disponibilità a essere condiscendenti od ‛omologabili', più che ad attitudini tecno-professionali. Ciò premesso, non si può tuttavia negare che la competenza abbia un ruolo come fattore di promozione sociale e come veicolo per il raggiungimento di posizioni di vertice. Ammesso ciò, rimane il problema della conservazione del potere. E qui domandiamoci: come si comporterebbe il tecnocrate in una situazione di conflitto tra una decisione consigliata dalla competenza, ma che per talune sue implicazioni potrebbe comportargli il rischio di perdere la posizione di potere, e una decisione che gli consentisse di mantenere il potere, anche se non rispondesse alle esigenze della ‛razionalità scientifica' e anzi comportasse il ricorso alla coazione e alla discrezionalità? Davvero sarebbe disposto a rinunciare al potere, pur di tenere fede ai dettami della competenza? In altri termini, i competenti governerebbero come competenti, o (almeno in ultima istanza) non indulgerebbero al modo ‛politico' di gestire il potere? La ‛preponderanza dei direttori' comporterebbe la scomparsa del potere di tipo politico, o solo una sua diversa allocazione?
In senso stretto, un regime tecnocratico è un regime che ha espunto la politicità, che segna la ‛fine della politica'; come tale, non esiste e non è alle viste, allo stesso modo in cui regimi militari, ierocrazie, regimi burocratici non sono regimi alieni dalla categoria della politicità. Ciò non toglie, anzitutto, che la crisi della politica nelle società avanzate sia molto grave, e che molto seria sia, al loro interno, la crisi delle istituzioni, delle procedure e dei valori della democrazia rappresentativa: il crollo delle esperienze potestative comuniste non attenua ma per taluni aspetti rende più evidente, nel presente scorcio conclusivo del secondo millennio, tale situazione di crisi (v. Fisichella, 1990, 1995 e 1996). Ciò non toglie, inoltre, che in una società caratterizzata da un alto impiego combinato di fattori economici, scientifici e tecnologici il problema della competenza assuma un particolare rilievo e apra la strada a ulteriori, importanti interrogativi.
7. Politica, competenza e autorità spirituale
Il primo interrogativo riguarda il ruolo della competenza nei processi decisionali relativi all'azione pubblica. In merito, la risposta rinvia alla summa divisio (tendenziale) tra politica come regno dei fini e competenza (o tecnica) come regno dei mezzi, cosicché il ‛generalista' - colui al quale spetta l'opzione ultima circa i fini, e quindi anzitutto circa ‛amicizia' e ‛inimicizia' (hostis come nemico ‛pubblico') - rimane l'uomo politico, o meglio chi si comporta ‛politicamente': dunque è la politica che ‛ordina' e ‛regola' le sintesi civili, ivi compresi i loro aspetti economico-sociali, e proprio per questo il monopolio della forza coattiva rinvia a essa. Ciò, però, non significa una deminutio della competenza: basti ricordare che il ‛calcolo dei mezzi' è un passaggio ineludibile per definire la praticabilità o meno dei fini (se si vuole rimanere nel contesto della relazione costi/benefici), e quindi anche per decidere l'abbandono, definitivo o temporaneo, di un fine, oppure la scelta dell'uno piuttosto che dell'altro. Si vuole solo mettere in evidenza un criterio di divisione del lavoro tra politica e tecnica, politica e competenza, politica ed economia (intesa quest'ultima, in senso lato, come scienza, teorica e applicata, dei mezzi) (v. Fisichella, 1986).
C'è però chi non si appaga di questa distinzione teorica, e muove una duplice obiezione. Da una parte pone in evidenza che la forte interpenetrazione e interdipendenza tra area economico-tecnologica e area politica fa venir meno, nelle società complesse del nostro tempo, i confini tra le due aree, che attenuano progressivamente le loro identità (v. Pasquino, 1983). Dall'altra rileva che tecnocrazia e tecnostruttura non si limitano a giocare sul terreno economico e dei mezzi dell'azione sociale, ma più o meno surrettiziamente entrano nel regno dei fini e dei valori, manipolandolo e piegandolo alle loro esigenze, in ciò facilitate dalla suggestione dell'ideologia tecnocratica, vista come ideologia monistica, di reductio ad unum in nome della razionalità tecnologica. Si ricordino, ad esempio, le pagine marcusiane sul predominio dell'organizzazione economico-tecnica nella società industriale avanzata (v. Marcuse, 1964).
Circa la prima obiezione, va detto che l'osservazione di fatto relativa all'interpenetrazione tra area economico-tecnologica e area politica non fa cadere la necessità di mantenere ferma la distinzione teorica tra le due aree, distinzione che conferma sul piano scientifico la sua validità analitica: in caso contrario, non potremmo neppure misurare di quanto e con quale intensità e su quale versante e in quale direzione si è verificata interpenetrazione tra le due aree, poiché ci mancherebbe il termine di partenza. Circa la seconda obiezione, va rilevato che nel rapporto tra politica ed economia sono presenti nella società contemporanea due tendenze, una nella direzione dell'economia che ‛prevarica' e soggioga la politica, un'altra inversa. Possiamo definire la prima come tendenza ‛paneconomica' e la seconda come tendenza ‛panpolitica'. È perciò unilaterale assumere aprioristicamente una preminenza senza residui del potere economico, rappresentato nella specie dalla tecnocrazia e dalla tecnostruttura (concetti entrambi che per se stessi e in partenza rinviano e pertengono al sistema socio-economico) sul potere politico. Ciò non toglie che la tecnocrazia, intesa nel senso pieno di ‛regime dei direttori', sia probabilmente il modo di essere potestativo più conseguente ed estremo della tendenza paneconomica. Ciò non toglie, a un diverso livello, che aggregazioni tecnocratiche e tecnostrutturali possano essere tentate di interferire sul piano politico per meglio affermare i loro interessi e orientamenti. Con quanta intensità, frequenza e successo questo avvenga è una quaestio facti, da accertare empiricamente.
In merito, va ricordato che, specie nelle società complesse, le arene in cui si sviluppa la dinamica socio-politica e in cui si prendono le decisioni sono molteplici. E può anche darsi che i tecnocrati riescano a soggiogarle tutte: arene governativa, parlamentare, finanziaria, partitica, elettorale, culturale, delle comunicazioni di massa. Però prima di affermare l'onnipotenza della tecnocrazia occorre accertare empiricamente la capacità di influenza e pressione del potere economico su tutte queste arene, tenendo presente che le decisioni sono numerose e distribuite nel tempo, che ci sono decisioni assunte in certe arene ma non in altre, che non sempre sono decisive le stesse arene, che esistono fasi e momenti nei quali acquistano rilievo alcune di esse (con riferimento all'andamento della cultura politica, della cultura sociale, delle relazioni internazionali, dello sviluppo economico) e fasi e momenti nei quali acquisiscono rilievo altre arene. Così non di rado, soprattutto in certi paesi, la cultura politica prevalente (cultura politica nel senso almondiano: orientamenti del pubblico sui processi politici: v. Almond e Powell, 1978) è fortemente ostile nei confronti della tecnocrazia, limitandone le possibilità di movimento.
Già con riferimento ai regimi democratici, dunque, la pluralità delle arene è un test rilevante per avere elementi circa la forza rispettiva della tecnocrazia e del potere politico, anche perché non è detto che la tecnocrazia operi sempre come un blocco omogeneo e compatto: ci sono conflitti (di interesse, di orientamento) anche tra i segmenti della struttura tecnocratica, che i soggetti politici possono sfruttare. Quanto poi ai regimi monopartitici di tipo panpolitico, come le esperienze totalitarie (il totalitarismo è l'espressione potestativa più coerentemente radicale del panpoliticismo), caratterizzate da una economia-non-economica, qui la molteplicità delle arene è fortemente distorta dalla pressione panpolitica e a essa subordinata, la preminenza del partito unico è un cardine dell'ideologia dominante, quest'ultima a sua volta rifiuta autonomia alla competenza (la riforma agraria può fallire perché le acquisizioni più avanzate della genetica sono respinte in quanto ‛incompatibili' con il marxismo-leninismo, o la teoria dei quanti è ‛negata' sulla base di analoghe motivazioni), talché diviene assai difficile, con riferimento a tali esperienze, sostenere l'esistenza di un predominio della tecnocrazia, salvo l'ipotesi che l'apparato tecnocratico si sia impadronito anche del partito e delle sue leve di comando, mentre semmai è più realistico il contrario (v. Fisichella, 1987). In breve, che ci sia una tecnocrazia in più regimi, d'accordo; ma le condizioni in cui i tecnocrati agiscono vanno viste con riferimento a una varietà di fattori, e sono diverse specie in relazione alla vigenza o meno del mercato e di altri processi istituzionali e culturali.
A quest'ultimo proposito, occorre riprendere il tema dei rapporti tra politica e competenza, sviluppando qualche ulteriore considerazione. Una, molto semplice, è la seguente: anche gli esperti sbagliano, cioè possono compiere errori tecnici. Non si può sottovalutare l'importanza di tale rilievo. Altra considerazione. Come abbiamo già visto, esiste un'esigenza di inserzione della competenza nei processi decisionali e anche rappresentativi delle società complesse, per esercitarvi il ‛calcolo dei mezzi' e, più in generale, il controllo tecnico sugli atti e sulle scelte inerenti all'azione sociale (v. Fisichella, 1986). Ma chi o cosa garantisce che il controllo tecnico, soprattutto sulle scelte e sugli indirizzi del potere politico e quindi del governo, possa essere esercitato e poi ascoltato e magari fatto proprio dal governo stesso? Qui il discorso ridiventa politico, e chiama in causa la presenza e il funzionamento di istituzioni fondate sul principio della responsabilità politica. Un potere politico sottoposto a controllo politico tenderà a consentire la libera espressione del controllo di competenza, mentre un potere politico alieno dal controllo politico può non consentire tale libera espressione. Non solo. In un regime estraneo alla logica del controllo politico nulla vieta al potere politico di disattendere le eventuali indicazioni del controllo tecnico. Anche in un regime di controllo politico - si badi - il governo non è vincolato alle valutazioni tecniche e può riservarsi in prima persona la questione dei mezzi; ma se non sollecita o disattende le valutazioni degli esperti può essere chiamato a rispondere politicamente di tali decisioni. Dunque, un meccanismo di controllo politico è condizione necessaria, pur se non sufficiente, per l'enunciazione di libere proposizioni di controllo tecnico.
Una terza considerazione riguarda quello che, riprendendo il linguaggio saintsimoniano e comtiano, possiamo definire il rapporto tra ‛potere temporale' e ‛potere spirituale'. Il potere temporale è costituito dai tecnocrati, il potere spirituale dagli intellettuali. Ora, il fatto è che tale relazione implica, per cominciare, un problema di fondo: entrambi hanno una base comune di legittimazione sociale, che non afferisce né alla ‛proprietà' della res, né alla ‛conquista', ma piuttosto al ‛lavoro intellettuale' latamente inteso, e al suo interno assai spesso alla competenza (hanno inoltre un medesimo background di classe, almeno nell'ottica positivista, essendo di radice proletaria sia i tecnocrati sia gli ‛intellettuali positivi'). E allora, per intenderci, la ‛classe teoretica' di cui parla Bell a proposito della società postindustriale, quanto è potere spirituale e quanto è potere temporale? E se può essere entrambe le cose, tra i due ruoli, e più in generale tra i due poteri, non sono ipotizzabili un intreccio e persino aree di sovrapposizione, almeno potenziale?
Anche a voler trascurare l'osservazione che l'epistemologia contemporanea propone una visione della conoscenza scientifica come acquisizione probabilistica aperta alla falsificabilità, piuttosto che volta a una definitività dimostrativa - come, viceversa, in concreto assumono le premesse oggettivistiche dell'ideologia tecnocratica -, in che maniera si modula la funzione di consiglio e soprattutto di controllo del potere spirituale rispetto al potere temporale? Comte, respingendo la ‟fallace utopia greca" (platonica, non aristotelica) del filosofo-re, bolla con l'epiteto di ‛pedantocrazia', coniato da John Stuart Mill e utilizzato nel corso della corrispondenza tra i due pensatori, il dominio ‛temporale' degli intellettuali. Ciò premesso, lo scrittore francese opera poi un recupero di Platone là dove questi si pone contro privatismo e particolarismo, aggiungendo che anche nella società ‛positiva' il particolarismo materialistico e l'economicismo saranno - già lo sappiamo - una tentazione ricorrente tra i directeurs. Di qui il compito di riequilibrio affidato all'autorità spirituale, e in particolare alla morale, suo vertice funzionale.
La suggestione della proposta comtiana è forte, ma con due limiti cruciali, emblematici anche in proiezione contemporanea. Ammettiamo che gli intellettuali riescano sempre (di fatto, talvolta sì, talvolta no) a sottrarsi al rischio di diventare ‛servi del potere' tecnico-economico (v. Baritz, 1960). Rimangono i due limiti testé evocati. Da una parte, infatti, ad avviso del positivismo sociale vengono meno le ragioni della politica: la realtà sociale si dépolitise. Dall'altra, tale filone di pensiero, pur nella riaffermazione dell'importanza della dimensione spirituale, si iscrive tra le correnti culturali che sanciscono la ‛morte di Dio', e quindi priva l'autorità spirituale della risorsa della trascendenza, che era viceversa l'autentico fattore di forza etico-civile del magistero sacerdotale nel Medioevo cattolico e del connesso sistema generale di credenze. Dopo queste due operazioni di sottrazione (fine della politica e fine della trascendenza), sotto il profilo sistemico non rimane soltanto l'economia a dominare il campo? E in queste condizioni, come e quanto e attorno a cosa sarebbe possibile chiamare a raccolta gli intellettuali per esercitare un incisivo, duraturo, organico, sistematico controllo, soprattutto morale, sui tecnocrati?
Di fronte alla essenzialità di questi interrogativi, le trasformazioni che tendono a distinguere la società industriale sviluppatasi con la seconda rivoluzione e l'emergente società postindustriale, pure significative, non sono tali da modificare i termini di base della situazione in oggetto. Certo, nuove figure e categorie professionali e tecnologiche emergono, altre (compresa quella del manager) si rimodulano almeno parzialmente, l'organizzazione del lavoro (sia aziendale sia sociale) muta vari suoi connotati, cibernetica e robotica avanzano. Certo, l'industria pesante cede il passo a un sistema produttivo ove operano aziende più dinamiche, leggere, flessibili, articolate, capaci di cercare e trovare ovunque nel pianeta la forza-lavoro, meno orientate all'approccio ingegneristico classico e più a quello econometrico. Certo, vi è una crescente mobilità professionale, in parte inerente alle nuove procedure operative della produzione e dei servizi, in parte legata alle dure necessità che accompagnano una disoccupazione indotta dall'innovazione tecnologica e che comportano la ricerca di nuovi posti di lavoro, solo in minima parte riconducibile a quella prospettiva in qualche modo ‛estetica' e ‛libidica' del lavoro fungibile a piacimento cui sembrano fare riferimento la società attrayante di Fourier o il prolétaire interchangeable di cui scrive Georges Duveau a proposito dell'Ideologia tedesca (v. Duveau, 1961).
Tuttavia tali elementi non bastano ad alterare in profondità l'ideologia tecnocratica, non ribaltano la sua visione delle relazioni tra potere e competenza, non confutano la robusta capacità espansiva e invasiva delle motivazioni economiche rispetto alle motivazioni culturali, e ciò è tanto più vero quanto meno le seconde sono alimentate da contenuti genuinamente politici e genuinamente etico-religiosi. Si aggiunga d'altro canto che i vasti processi di globalizzazione economica e finanziaria dislocano a un livello assai meno visibile, e quindi anche assai meno giudicabile, l'interazione tra politica e tecnocrazia. Per un verso, infatti, emerge un ceto tecnocratico (e tecno-burocratico) internazionale e sovranazionale, che trasferisce in tale arena sovrastatuale conflitti e convergenze; quanto ciò possa incoraggiare la persistenza o l'espansione delle forme di reggimento democratico risulta misterioso. Per un altro verso, però, la globalizzazione economica e finanziaria non è politicamente neutra e neutrale, come sovente si è portati a ritenere, allorché si afferma, ad esempio, che tale globalizzazione ridimensiona la sovranità politica di ogni Stato e nazione. Può darsi che ciò avvenga sotto il profilo meramente giuridico-formale. Però come escludere a priori che all'interno della dinamica della mondializzazione abbiano maggiore influenza (quaestio facti, non più quaestio iuris) grandi centri economici e finanziari riferibili in ultima istanza a talune potenze (con i loro apparati produttivi e distributivi, ma anche con i loro strumenti militari) piuttosto che ad altre, riproducendo così, sia pure con modalità meno esplicite di epoche precedenti, egemonie e aree di predominanza? Se l'arena si è mondializzata, non è detto che tutti i soggetti - politici, economici, finanziari, culturali - vi abbiano lo stesso peso e la medesima incidenza. E poi la tempesta demografica si avvicina. La ‛fine della storia' non è davvero alle viste.
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