Tecnologia e agricoltura
Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
L’agricoltura dei Romani corrisponde a un insieme di conoscenze in cui confluiscono non solo considerazioni di carattere economico per il profitto della tenuta e delle attività che vi hanno luogo, ma anche attente osservazioni di astronomia e meteorologia, zoologia e botanica; precise conoscenze tecniche sui macchinari per la premitura di olive e uve, di cui si traccia anche una dettagliata storia, accompagnano le attività più redditizie, viticoltura e olivicoltura. La comparsa di una letteratura specifica e ricca di interessanti osservazioni costituisce una peculiarità della cultura latina, che a questo tema ha dedicato opere di notevole livello.
I testi di agricoltura che ci arrivano dal mondo romano toccano una tale varietà di argomenti da rientrare, secondo la classificazione attuale, nell’ambito dell’economia, della zoologia, della botanica, il tutto all’interno di una cornice che prende in esame gli elementi fondamentali della meteorologia e dell’astronomia. Se prestiamo fede a Varrone, che nel De re rustica cita oltre 50 autori di testi di argomento agricolo, dobbiamo concludere che abbiamo perduto buona parte della letteratura prodotta dagli antichi su questo tema. Le opere che ci sono arrivate, di Catone, dello stesso Varrone, di Columella e Palladio coprono un arco temporale ampio, dal II secolo a.C. al IV d.C. e sono frutto di una selezione effettuata non solo dagli amanuensi medievali, ma dagli stessi eruditi latini che sul finire della repubblica produssero un’importante operazione di riordino del materiale in circolazione.
Si è soliti considerare autore di letteratura agronomica anche Plinio il Vecchio, che ha dedicato a questo tema una notevole quantità di informazioni all’interno della Naturalis Historia. Sembra quindi che la selezione operata abbia completamente cancellato le opere che gli autori di lingua greca avevano dedicato a questo tema; resta, a testimoniare questa vasta produzione, l’Oeconomicus, il trattato nel quale Senofonte nel IV secolo a.C. cerca di valorizzare l’aspetto economico dell’agricoltura. Sebbene pensato per l’ambiente ateniese, questo testo pone le basi per affrontare l’argomento in modo razionale a prescindere dalla realtà in cui ci si trova ad operare; il filo conduttore del lavoro di Senofonte è il profitto cui ogni proprietario terriero deve ambire e al quale mira anche Catone, che imposterà in modo analogo il suo De agri cultura, composto nella prima metà del II secolo a.C. e scaturito dalla volontà di fornire precise indicazioni sugli investimenti più produttivi in materia di tenuta agricola.
Vivace sostenitore della cultura tradizionale che cede il passo alle nuove mode che invadono Roma da Oriente, Catone compone la sua opera ispirandosi anche al perduto trattato del cartaginese Magone, autore di un testo che il senato romano avrebbe poi fatto tradurre in latino; Plinio il Vecchio attribuisce a Magone la stesura di 28 capitoli in punico nei quali, secondo Varrone (De re rustica, I, 1, 10) si sarebbe occupato di numerosi argomenti, tra cui veterinaria e alimentazione. Altrettanti temi si trovano nell’opera di Catone, una raccolta di consigli sulla conduzione dell’azienda, sulla coltivazione, sull’allevamento e sulle pratiche per la produzione e conservazione di olio e vino. Per quanto la successione dei 162 paragrafi in cui si divide l’opera sia disordinata, è possibile mettere a fuoco i punti essenziali del pensiero di Catone, che si rivolge al pater familias affinché possa gestire al meglio la tenuta rustica per il bene della famiglia. L’azienda di cui Catone parla non è più il piccolo podere delle origini di Roma, ma la tenuta di un proprietario che, investita una somma di denaro, esige un tornaconto. Di medie dimensioni, la proprietà agricola è percepita come redditizia soprattutto se vi hanno luogo coltivazioni specializzate come quelle dell’olivo e della vite. Produzioni capitalistiche, oliveto e vigneto devono essere curati da schiavi di cui Catone fissa il numero ideale, 16, per un’estensione che non deve superare i 100 iugeri (circa 24 ettari). D’altro canto, la produzione vinicola dell’Italia meridionale aveva ormai da tempo raggiunto un livello notevole, testimoniato non solo dai reperti archeologici direttamente riferibili a questa attività, ma anche da vicende come quella cui allude Ateneo (Deipnosophistae, 12, 519d), del condotto che dalle campagne attorno a Sibari avrebbe trasportato un fiume di vino fino al porto per la commercializzazione. Analoghe conferme vengono dalle anfore, prodotte in serie sin dalla fine del VII secolo a.C. e divenute i contenitori del vino per eccellenza. Con una capacità compresa tra i 20 e i 30 litri, erano state pensate apposta per lo stivaggio nelle imbarcazioni. I santuari etruschi e latini hanno restituito anfore greche che documentano le rotte di un commercio destinato ai centri dell’Italia arcaica. L’Etruria, dal canto suo, aveva già veduto lo sviluppo di una fiorente viticoltura destinata non solo al mercato interno, ma anche all’esportazione soprattutto in Gallia meridionale e Spagna. Il declino del commercio del vino etrusco, negli ultimi decenni del VI secolo a.C., è collegato alla messa in opera di estesi vigneti nella zona di Marsiglia e nel centro -sud dell’Italia. Dopo la conquista della Sicilia nel III secolo a.C. anche i Latini, per molto tempo clienti di un commercio che portava a Roma e nel Lazio il vino dai principali centri di produzione, cominciano a impiantare vigneti di dimensioni sempre maggiori. Garantendo il frumento siculo la base alimentare per la popolazione urbana, si creano le condizioni per il diffondersi nell’area laziale e campana di colture pregiate, come quella del vino e dell’ulivo, anch’esse espressione della ricchezza dei bottini di guerra che affluiscono a Roma.
Di questa produzione l’opera di Catone segue ogni aspetto: preparazione dei contenitori, potatura, aratura, concimazione, apprestamento degli strumenti e dei macchinari necessari. Il torchio a pressa che Catone descrive (De agricultura, 18-19) è da usarsi tanto per le olive quanto per l’uva: un’estremità della pesante trave è ancorata in una nicchia a parete oppure bloccata tra due elementi verticali, mentre l’altra è collegata alla sucula, il tamburo, attraverso una fune e un sistema di carrucole. Per azionare l’argano che servirà ad agire sulla trave sono praticati nel tamburo dei fori nei quali vengono inseriti dei manici. Il funzionamento di questo congegno verte sulla combinazione tra argano, carrucole e trave, dunque una catena meccanica tra alcune delle macchine semplici alla cui presenza gli antichi ridurranno la disciplina meccanica teorica e pratica. Descritta da Erone di Alessandria (Meccanica, 3, 14), questa macchina doveva essere ancora impiegata nelle tenute agricole dell’Africa romana alla metà del I secolo.
Con la fine del II secolo a.C. avviene la svolta dell’agricoltura a base schiavile praticata su vasta scala. Il territorio di Cosa in Etruria, la zona di Minturno nel Lazio meridionale e l’area vesuviana sono i territori maggiormente interessati da questo fenomeno.
Per questa nuova realtà l’opera di Catone è superata e la sintesi del cambiamento è nel De re rustica di Varrone, composto nel 37 a.C., in cui si descrive un’azienda dotata di strutture tecnologiche avanzate per produrre olio e vino in quantità. Mentre Catone faceva probabilmente riferimento a ville realmente esistenti tra Lazio meridionale e Campania, Varrone fornisce un quadro generale dell’agricoltura attingendo dall’esperienza personale, relativa alle sue proprietà nelle vicinanze di Rieti, in Puglia, nel Lazio e in Campania, e da letture e conversazioni con esperti. Varrone si rivolge a senatori e cavalieri, ovvero a quella parte dell’aristocrazia romana che sul finire dell’età repubblicana possiede ville e terreni la cui condotta, affidata a una famiglia di schiavi, permette al proprietario di risiedere altrove. Vissuto circa un secolo dopo Catone, Varrone tratta agricoltura e allevamento come due attività distinte e indipendenti e ad esse dedica i tre libri che compongono l’opera. All’insieme dei temi affrontati, qualità del terreno ed elementi che costituiscono la tenuta agricola, allevamento delle specie maggiori (bovini, equini, suini, caprini e cani) e di quelle minori (uccelli, lepri, pesci e api), Varrone aggiunge un interessante calendario dei lavori da compiere in ciascun mese, presumibilmente in maniera specifica relativo alla zona della Sabina. Attente considerazioni sono riservate alla coltura della vite e dell’olivo, attività dalle quali è possibile trarre buoni guadagni. Ben fotografa questa nuova situazione lo scavo della villa di Settefinestre, nella zona di Capalbio, un edificio ampliato a più riprese e abitato da una famiglia le cui fortune erano legate proprio al commercio del vino nel Mediterraneo. Con strutture riservate alla parte abitativa e ai macchinari, la villa mette in evidenza l’atteggiamento imprenditoriale dei proprietari, i cui investimenti in tecnologia meccanica dovevano velocizzare la produzione di olio e vino che in buona parte veniva poi immesso sul mercato.
Sebbene la meccanizzazione della vendemmia presupponesse l’allestimento di impianti costosi e non alla portata di tutti, il torchio diviene l’ingranaggio basilare nel perfetto meccanismo della politica economica dei nuovi ricchi viticoltori intenti a commerciare il prodotto dei loro vigneti.
Del resto, le impressionanti cifre del consumo del vino nel Mediterraneo occidentale, 40 milioni di anfore nella sola Gallia tra il I secolo a.C. e il I d.C., lasciano presupporre un massiccio impiego di macchinari impiegati per la premitura. La storia della tecnica insegna che quando la resa di una macchina non è soddisfacente, si cercano altre soluzioni. È quello che dovette accadere con il torchio catoniano, il cui problema principale era quello di sollevare la grande e pesantissima trave pressoria. Il notevolissimo volume del commercio del vino richiedeva macchinari più maneggevoli, efficaci, veloci. È in quest’ottica che dobbiamo inquadrare la comparsa di un nuovo modello di torchio, caratterizzato dalla presenza di un elemento verticale a vite inserito nell’estremità libera della trave e terminante, a sua volta, all’interno di un blocco in pietra scanalato con funzione di ancoraggio al terreno. Per azionare la macchina è adesso sufficiente agire su un dado posizionato sull’albero a vite, semplificando l’operazione e velocizzando la premitura. È plausibile ritenere che l’elemento verticale a vite venisse spesso inserito nei torchi a trave già esistenti, ottenendo un nuovo modello in cui viene superata la difficoltà insita nel maneggiare pesi ingenti. Il ritrovamento, soprattutto in Spagna, Francia e Palestina, di numerosi pesi in pietra con scanalatura all’interno per consentire l’alloggio dell’estremità inferiore dell’albero a vite testimonia la diffusione e la validità di questa macchina.
Se Varrone è il portavoce degli interessi dei grandi proprietari terrieri, Virgilio torna invece a sottolineare i vantaggi dei piccoli appezzamenti di terra coltivati dallo stesso proprietario (Georgiche, II, 412 e ss.: laudato ingentia rura, exiguum colito). Ammirato da generazioni e generazioni di lettori, il poema delle Georgiche inquadra l’agricoltura all’interno dell’astronomia, chiave di lettura indispensabile per conoscere l’esito del lavoro svolto nei campi. Ai segni che già Esiodo aveva registrato come necessari per comprendere i capricci del tempo, Virgilio aggiunge una dottrina complessa ma necessaria per prevenire i fenomeni atmosferici in base al moto del Sole, della Luna e dei pianeti nel cielo.
Dal punto di vista storico il riferimento alla piccola proprietà costituisce un’eccezione, dal momento che tutta la letteratura latina riferibile a questo momento storico presenta un quadro relativo alla grande proprietà fondiaria. Anzi, proprio per cercare di velocizzare ulteriormente la produzione viene compiuto un ultimo perfezionamento per migliorare la premitura di uve e olive. Dalla precisa volontà di eliminare del tutto la grande e ingombrante trave del torchio a pressione scaturisce infatti un ulteriore tipo di macchina, di dimensioni notevolmente ridotte rispetto ai precedenti e dalle maggiori potenzialità. Si tratta, secondo Plinio (Nat. Hist., XVIII, 74, 317), di un’invenzione da collocare alla metà del I secolo circa: “Ai vecchi tempi la gente usava abbassare le travi delle presse con corde e cinghie di cuoio e con leve a mano; ma durante gli ultimi cento anni è stato inventato il modello di pressa greca che ha pali tondi con solchi che corrono tutt’intorno a spirale. […] Durante gli ultimi venti anni è stato inventato un metodo per schiacciare con piccole presse e frantoi più piccoli, aventi un palo diritto più corto che si abbassa direttamente al centro, che scende dall’alto con tutto il suo peso sul coperchio collocato sull’uva e costruendo una struttura al di sopra della pressa”. Di questo innovativo torchio esiste anche la descrizione di Erone di Alessandria (Meccanica, III, 19-20), che registra la possibilità di avere tanto un albero singolo quanto un doppio elemento parallelo a vite all’interno di una cornice lignea.
Dopo aver descritto i precedenti tipi di torchio, Erone sottolinea i vantaggi derivanti dall’uso di questa macchina, non solo più maneggevole, ma soprattutto, capace di esercitare una pressione continua e costante sui grappoli e sulle olive. Inoltre, dettaglio non secondario, questo tipo di pressa poteva essere anche trasportabile. La versatilità di questo dispositivo meccanico trova conferma nella sua applicazione anche ad altri ambiti: celebre la testimonianza visiva del suo impiego in una pittura da una bottega di fullones a Pompei, dove era usata per la lavorazione dei panni quando dovevano essere ben pressati. L’operazione più complessa doveva essere la lavorazione della vite dell’albero, per la quale occorreva una certa perizia: il problema doveva essere particolarmente vivo, dal momento che Erone dedica a questo tema un paragrafo della Meccanica (III, 21). Davanti alla tradizionale longevità delle tecniche agricole, il torchio a vite rappresenta una sensazionale novità, che presumibilmente prende piede in virtù di un mutamento di scala nello scenario produttivo e commerciale. Ne rende conto Plinio (Nat. Hist., XVII, 164), per il quale la pigiatura, per essere soddisfacente, deve riempire almeno 20 cullei (105 hl) di vino; per il naturalista, per ottenere questo risultato minimo è necessario partire dalla conoscenza delle diverse tecniche di impianto della vite, mai generalizzabili e diverse da regione a regione, e integrarle con attente osservazioni sulla direzione del vento e sull’incidenza del Sole, nonché con nozioni astronomiche e astrologiche.
Il I secolo vede anche la stesura del De re rustica di Columella, originario di Cadice e autore della più importante opera di agricoltura composta in epoca romana. Diviso in 12 libri, il trattato descrive le pratiche agricole in uso nell’impero, con particolare riguardo per l’area accomunata dal clima mediterraneo. Capace di coniugare esperienza diretta aveva infatti dei possedimenti nei pressi di Roma e formazione scientifica, Columella raccoglie in un sistema ordinato di nozioni i precetti dell’agricoltura facendone una scienza la cui validità verrà riconosciuta e mantenuta praticamente inalterata fino all’età moderna, quando l’applicazione dei prodotti chimici alle piante segnerà un punto di non ritorno nei confronti della tradizione del passato. Non a caso, anche l’organizzazione dei capitoli dell’opera di Columella sarà lo schema di riferimento per gli scrittori di agricoltura di ogni epoca e provenienza.
Dopo aver ricordato i maggiori autori in tema di agricoltura, Columella indica i criteri in base ai quali acquistare terreni, che classifica in base alle differenti qualità esistenti. Desiderando migliorare lo stato dell’agricoltura italica, a suo dire pessimo, Columella si dichiara fautore della coltura intensiva, sottolineando i vantaggi della viticoltura come migliore attività da svolgere in una proprietà ottimale. Con i capitoli dedicati alla vite e all’olivo Columella tocca dunque le due colture chiave sviluppatesi nel quadro del dominio di Roma nel Mediterraneo. Lo scenario è ancora quello delle tenute agricole portate avanti da manodopera schiavile per organizzare il commercio della produzione in eccedenza. Alla base del successo dell’attività agricola Columella pone la conoscenza dei meccanismi in base ai quali la terra produce. Se in ogni settore l’umanità ha cercato di accrescere il proprio sapere, ciò deve valere anche per l’agricoltura, che deve essere liberata da superstizioni e credenze decisamente superate. Confutando la tesi cara non solo agli agronomi ma anche agli epicurei, della stanchezza e dell’esaurimento della terra, Columella sottolinea la possibilità di rinnovare in perpetuo la fecondità del suolo, che l’agricoltore deve saper ravvivare affinché l’umanità possa trarne il necessario sostentamento.
Con questo testo l’agronomia degli antichi raggiunge il massimo livello di organizzazione, precisione e perfezione. La scienza agronomica di cui Columella traccia i contenuti è conoscenza complessa, che abbraccia talmente tanti temi da non poter essere argomento alla portata di tutti.
Sebbene talvolta discordanti, le minuziosissime informazioni riportate nei testi degli agronomi latini sono lo specchio di una società che su questi temi dibatte e scrive, onde conservare i precetti di base e l’esperienza delle generazioni. I dati a cui si è fatto brevemente cenno rivelano l’esistenza di agricoltori attenti all’aspetto tecnologico della loro attività, pronti a fare investimenti importanti per implementare i macchinari a disposizione. Dalla vasca per gli addetti alla pigiatura delle uve alle presse ad albero a vite verticale, i diversi sistemi meccanici ideati per la produzione di olio e vino offrono un punto di vista privilegiato per osservare da vicino i processi di innovazione e diffusione dei saperi tecnici nel bacino del Mediterraneo nel settore della produzione agricola.
Del resto, quanto accaduto con i torchi non è un fenomeno isolato e il lavoro dei campi offre altri interessanti esempi di innovazione tecnologica: un nuovo tipo di aratro pesante, l’erpice, il mulino, la livella che Columella inventa per misurare i solchi in cui andranno alloggiate le viti (De re rustica, XIII, 3) e un’attrezzatura di tutto rispetto invitano a riconoscere nell’agricoltura romana una realtà capace di coniugare, almeno a livello locale, tradizione e innovazione tecnologica. Si considerino, per esempio, gli investimenti, confermati da documenti letterari ed epigrafici, relativi alle macchine idrauliche. Elemento essenziale per ogni tipo di coltivazione, l’acqua era incanalata e guidata sapientemente per gli usi desiderati attraverso investimenti mirati: norie, pompe, viti idrauliche e ruote di mulini dovevano costituire uno scenario tecnologico molto più comune di quanto non si sia soliti credere.