Tecnopolimeri
Rispetto all'accezione per la quale si identificavano con tale termine tutti quei materiali di natura organica polimerica con elevate prestazioni meccaniche e termiche che ne permettevano l'impiego in luogo dei materiali metallici, soprattutto in applicazioni strutturali, è invalsa una sua generalizzazione per definire un sempre crescente numero di materiali polimerici ad alte prestazioni, sia termoplastici sia termoindurenti, allo scopo di generarne una differenziazione rispetto ai materiali plastici ordinari. Purtroppo la matrice commerciale, piuttosto che scientifica, del termine in questione rende impossibile una netta classificazione e fa sì che in alcuni casi la sua attribuzione a un determinato materiale sia più un'operazione di marketing che un effettivo riconoscimento delle prestazioni possedute. Spesso le sostanze classificate come t. sono, in altri contesti, indicate come polimeri per l'ingegneria (polymers for engineering), superpolimeri oppure polimeri ad alte prestazioni (high performance polymers). Per limitare l'estensione di tale classe di materiali, contro l'abuso che si compie a scopo commerciale, si può definire come t. un materiale di natura organica polimerica reso insostituibile o possibile candidato alla sostituzione di materiali più nobili, estendendo l'originale definizione che prevedeva invece il solo confronto con i materiali metallici, dalle sue altissime prestazioni, nel singolo caso applicativo. La sovrapposizione con la classe dei materiali compositi a matrice plastica è alcune volte inevitabile.
La spinta verso lo sviluppo e la commercializzazione di nuovi t. nasce dalla combinazione di due diverse realtà. Da un lato vi è la sempre crescente domanda di nuovi materiali proveniente dall'industria automobilistica o, più in generale, della componentistica elettrica e meccanica, mentre inizialmente i t. erano quasi esclusivamente impiegati nel settore aeronautico e aerospaziale. Dall'altro, enormi progressi sono stati fatti nelle tecnologie di trasformazione delle materie plastiche in tutti i principali campi, dalla deposizione di film fino alla formatura e allo stampaggio. Un esempio tipico della nuova tendenza all'impiego massivo dei t. è fornito dallo stampaggio a iniezione di componenti per auto, pompe, elettrodomestici e dispositivi elettrici e telefonici. La possibilità di avere processi sempre più spinti e controllati ha permesso di sfruttare al massimo le potenzialità di nuovi materiali termoplastici, a loro volta appositamente ideati per lo stampaggio a iniezione. Dallo sviluppo combinato di materia prima e tecnologia di stampaggio risulta un grosso ritorno in termini economici, considerando che i componenti prodotti in tal modo sostituiscono direttamente parti in metallo, riducendo significativamente costi e tempi di produzione. Il vantaggio economico è particolarmente rilevante nelle applicazioni industriali di media e alta produttività in cui i processi di stampaggio e termoformatura non hanno praticamente rivali. Dal momento che tali tipologie di processo si applicano quasi esclusivamente a polimeri termoplastici, ne risulta che lo sviluppo più consistente nel settore dei t. si è avuto appunto in questa classe di materiali. La principale difficoltà che si riscontra nel loro impiego in settori tipici dei metalli è soprattutto di tipo progettuale. La diversità nelle leggi che descrivono il proprio comportamento, la maggiore sensibilità ai fenomeni ambientali, alla temperatura e alle condizioni di processo fanno sì che non si possa progettare un componente in t. sulla falsariga di come si progetterebbe un componente in metallo. A tale mancanza progettuale si preferisce sopperire con prove attuate su prototipi che garantiscano il corretto comportamento dei pezzi in esercizio.
Alcuni dei polimeri termoplastici che soltanto pochi anni fa erano indicati come t. e a cui per primi è stato associato tale termine, sono ormai talmente impiegati nella pratica dello stampaggio che a fatica si riconoscono ancora come tali. Questo è, per es., il caso del policarbonato (PC), della poliammide (PA), del poliossimetilene (POM) e della miscela polimerica di acrilonitrile-butadiene-stirene (ABS), tutti materiali considerati di uso comune. Esiste per queste tipologie di polimeri una enorme varietà di modificazioni. Per es., solo per le poliammidi si contano decine di formulazioni speciali, molte delle quali definite soprattutto per la produzione di fibre forti e resistenti riguardo alla temperatura (come la PA 6T e il PA-PDA-T) e in alcuni casi anche per lo stampaggio (la stessa PA 6T e la PA 6I). Tralasciando le infinite nuove formulazioni di questi primi t., una certa innovazione è stata anche introdotta modificando in alcuni casi l'entità e la qualità di eventuali rinforzi (in forma di polvere, fibre e particelle). Tali rinforzi sono inseriti nei materiali vergini a monte dell'operazione di stampaggio. Un esempio di tale innovazione è lo sviluppo di compositi per lo stampaggio a iniezione (costituiti da una matrice di poliammide e da una carica fino al 35% in peso di microfibre di vetro) utilizzati per la fabbricazione di serbatoi e di parti di pompe o piccoli dispositivi elettrici, laddove è previsto in esercizio una combinazione di carichi termici e strutturali. Un ulteriore esempio è lo stampaggio nel settore automobilistico e della componentistica meccanica di parti di piccole e medie dimensioni in polipropilene (PP), caricato a fibre di vetro lunghe con un contenuto di fibra fino al 40% in peso. In tal caso, per fibre lunghe si intendono comunque fibre discrete, ma di lunghezza fino a 10 mm, una dimensione molto elevata se si considera che tipicamente i polimeri da stampaggio sono caricati con microfibre. L'idea alla base della definizione di questi materiali è quella di produrre per stampaggio a iniezione componenti con proprietà il più possibile similari a quelle dei laminati compositi a fibre lunghe. Tuttavia notevoli problematiche possono generarsi durante la loro trasformazione: innanzitutto vi è il rischio di generare un eccessivo sminuzzamento delle fibre, che inevitabilmente si produce durante la plastificazione della massa di stampaggio; in secondo luogo il posizionamento delle fibre nello stampo non è controllato, come nel caso della laminazione dei materiali compositi, ma dipende dalle condizioni di flusso del polimero nello stampo, dando luogo a orientamenti indesiderati e alla riduzione della quantità di rinforzo in prossimità di singolarità geometriche (come fori o asole).
Al di là delle caratteristiche dei rinforzi impiegabili, le innovazioni più interessanti nel campo dei polimeri ad alte prestazioni nascono però dall'impiego sempre più diffuso di alcune classi di materiali polimerici prima relegate a campi di applicazione molto esigui. Per tali materiali, e in generale per un qualunque t., l'enorme vantaggio che nasce dal loro impiego in virtù della sostituzione di materiali più nobili o della semplice riduzione di tempi e costi di produzione, si paga con il rischio derivante da una cattiva esecuzione delle fasi del loro processo. Un processo di stampaggio con un'errata temperatura di stampo, oppure una pressione insufficiente o ancora con un'eccessiva velocità di iniezione, può generare un prodotto esteticamente identico a quello desiderato, ma con proprietà meccaniche scadenti e al limite similari a quelle delle plastiche ordinarie. L'effetto che si ottiene è particolarmente disastroso, dal momento che i t. si realizzano in condizioni estreme rispetto ai materiali plastici ordinari e hanno costi di acquisizione e di trasformazione molto superiori. Per questo motivo l'impiego sempre crescente di tali materiali nell'industria moderna va di pari passo con lo sviluppo di processi di trasformazione idonei, che devono essere in grado di fornire alte pressioni in fase di stampaggio, alte temperature di stampo con bassi gradienti termici e alta ripetibilità nel tempo delle condizioni di lavoro. In particolare gli stampi devono essere ben progettati e continuamente oggetto di manutenzione e, se nella pratica dello stampaggio dei polimeri ordinari questi sono raffreddati per ridurre al minimo i tempi di produzione, per i t. è invece necessario un riscaldamento anche oltre i 200 °C; le temperature delle masse fuse sono notevolmente diverse nei due casi. Ne risulta che lo stampaggio di un t. è particolarmente oneroso e richiede sistemi più sofisticati e costosi di quelli normalmente impiegati per lo stampaggio di materiali ordinari.
Tra i nuovi materiali ad alte prestazioni che si sono affermati nel settore dello stampaggio, è da menzionare innanzitutto la classe dei PAEK (poliarileterchetoni o polieterchetoni aromatici) e dei loro derivati. I poliarileterchetoni si ottengono mediante la giunzione di gruppi etere con gruppi chetone e la modalità con cui tali gruppi si dispongono nella molecola finale identifica i vari costituenti della famiglia. Sono polimeri termoplastici semicristallini con temperatura di fusione dipendente dalla percentuale dei gruppi chetone. Il componente più significativo è senza ombra di dubbio il PEEK (polietereterchetone) la cui struttura nasce appunto dalla ripetizione di due gruppi etere e di uno chetone. La presenza di anelli aromatici e chetoni conferisce una certa rigidità alla struttura molecolare, smorzata però dall'introduzione dei gruppi etere. Per questo il PEEK presenta una temperatura di fusione inferiore a quella di altri composti della stessa famiglia, per es., tipo il PEK (polieterchetone) o il PEKK (polieterchetonechetone). Il grado di cristallinità è limitato dalla ridotta mobilità della catena polimerica e può arrivare a un massimo del 40%, ottenibile solo in condizioni di processo molto controllate (alte temperature del fuso e basse velocità di raffreddamento). In condizioni di raffreddamento rapido è possibile determinare anche la totale assenza di cristalli e un conseguente 100% di fase amorfa. Inoltre, all'aliquota amorfa del PEEK compete un rammollimento che insorge già intorno ai 150 °C (che è appunto la temperatura di transizione vetrosa) e che difatti limita a 250 °C la massima temperatura di esercizio in aria (mentre la temperatura di fusione dei cristalli è addirittura intorno ai 340 °C). La significativa distanza in temperatura tra rammollimento e fusione fa sì che i cristalli di PEEK (più duri e rigidi della parte amorfa) siano molto stabili anche nel campo di temperatura del rammollimento. Ne risulta che tale polimero conserva ottime proprietà meccaniche in temperatura, anche in prossimità del limite di esercizio, qualora si riesca a stamparlo ottenendo un livello di cristallinità prossimo al suo massimo. Nella pratica dello stampaggio a iniezione, proprio per avvicinarsi a tale massimo, si aggiunge spesso, in coda alla fase di stampaggio vera e propria, una successiva fase di ricottura in forno a una temperatura compresa tra quella di transizione vetrosa e quella di fusione. La ricottura viene eseguita in tal modo in primo luogo per trasformare la maggior quantità possibile di parte amorfa in parte cristallina, senza pregiudicare la forma del componente, e in secondo luogo per eliminare eventuali difetti nei cristalli formati durante il raffreddamento in stampo.
Oltre alle alte prestazioni meccaniche (in termini soprattutto di proprietà di rottura) e all'ottimo mantenimento di queste prestazioni rispetto alla temperatura, altre importanti proprietà del PEEK sono l'eccellente resistenza chimica e la buona resistenza a fatica, le ottime proprietà elettriche, le alte temperature di distorsione, la buona resistenza all'abrasione, la buona stabilità chimica e dimensionale e le ridotte emissioni di gas tossici e di fumo. Tutte queste caratteristiche sono in genere esaltate dall'impiego di apposite cariche di rinforzo (soprattutto microfibre di vetro e carbonio fino al 40% in peso). In alcuni casi, per migliorare l'aspetto tribologico degli stampati (vale a dire per ridurre l'attrito superficiale per quei componenti che devono fare parte di accoppiamenti con strisciamento), è possibile inserire nella matrice di PEEK fino al 15% in peso di PTFE (politetrafluoroetilene, un polimero fluorurato a bassissimo coefficiente di attrito). La scelta del rinforzo permette, dunque, di migliorare uno oppure più aspetti prestazionali di interesse per una data applicazione, ma introduce problematiche ancor maggiori nel processo di tali materiali. Maggiori viscosità del fuso, orientamento delle cariche, e pure ridotta cristallinità della matrice possono determinare difetti all'interno degli stampati di entità tali da essere difficilmente attenuati anche da una ricottura poststampaggio.
I polimeri della famiglia del PAEK si possono stampare o estrudere con temperature di massa variabili tra i 350 e i 420 °C e temperature di stampo tra i 150 e i 190 °C (fino anche a 250 °C nel caso di geometrie complesse). Il postriscaldamento si può effettuare tra i 150 e i 200 °C per circa tre ore. Essi presentano una scarsa resistenza ai raggi UV per cui nel caso di impiego prolungato in esterni si rende necessaria una pigmentazione oppure una verniciatura. Sfruttando la combinazione delle buone caratteristiche antincendio con l'alta resistenza termica e chimica, sono impiegati nello stampaggio per l'industria automobilistica, aeronautica ed elettronica, nell'isolamento di cavi, per film, fibre, nastri e lastre.
In termini di prestazioni, alla punta della piramide dei materiali plastici vi è di sicuro, insieme con il PAEK, la classe dei poliarilsolfuri (tra cui principalmente il polifenilensolfuro, PPS) e dei poliarisolfoni aromatici (tra cui il polisolfone PSU, il polifenilensolfone PPSU e il polietersolfone PES). Entrambe le famiglie di materiali sono meno recenti del PAEK e per questo hanno attualmente una maggiore diffusione industriale. Il PPS è un polimero semicristallino in cui gli anelli aromatici sono collegati tra loro mediante atomi di zolfo; esso presenta un'elevata temperatura di deformazione al calore, un'elevata resistenza chimica e rigidità e fonde completamente oltre i 445 °C. Il PPS viene soprattutto stampato a iniezione con temperatura di massa tra i 315 e i 370 °C e temperatura di stampo fino a 200 °C. A basse temperature di stampo si predilige la tenacità (con un massimo a 40 °C), mentre oltre i 120 °C è possibile ottenere una superficie dei pezzi stampati liscia e lucente. Essendo questo polimero molto poco viscoso, è possibile caricarlo senza grandi effetti sulla fase di iniezione (e anzi è una pratica quasi obbligata vista la sua alta fragilità a fine stampaggio) ed è inoltre possibile realizzare parti con piccolissimo spessore; in alterativa lo si può anche lavorare per stampaggio a compressione e sinterizzazione.
Il PPS si impiega per il microstampaggio a iniezione di precisione, l'incapsulamento di componenti elettronici, la componentistica elettrica (anche dell'auto), parti di pompe e piccoli dispositivi, manufatti espansi e film. I polisolfoni sono invece caratterizzati dalla presenza di gruppi diarisolfone (costituiti da due anelli aromatici collegati mediante un gruppo SO2). I vari elementi della famiglia si distinguono per la presenza di ulteriori gruppi di collegamento tra gli anelli aromatici (tipo O, S e altri ponti) e per questo sono anche poliarilati. Il PSU, a causa della sua bassissima mobilità molecolare, è completamente amorfo e presenta anche un'elevata viscosità in fase fusa che ne complica non poco la lavorazione. Il PSU viene stampato con temperature di massa tra i 350 e i 400 °C e temperatura di stampo da 70 a 150 °C. Al di sotto di tali intervalli, aumentano significativamente l'orientamento molecolare e le tensioni interne con la conseguente tendenza alla fessurazione sotto carico. Essendo amorfo, il PSU è normalmente trasparente: inoltre presenta una buona rigidità e un'elevata elongazione a rottura. Questo materiale è presente sul mercato in molte possibili modificazioni, da quelle altomolecolari per garantire la tenacità a quelle rinforzate con fibre di vetro, a quelle antifiamma; tra le principali applicazioni sono da ricordare quelle elettriche ed elettroniche (fino ai circuiti stampati), la fabbricazione di parti di elettrodomestici soggette ad alte temperature, lenti e riflettori.
Altri materiali termoplastici da menzionare fra i t. sono ancora il PBT (polibutilentereftalato, detto anche politetrametilentereftalato, PTMT) e il PPE (polifeniletere, o anche polifenilenossido, PPO) anche se la loro diffusione e la distanza in termini di prestazioni dai precedenti è ormai tale da relegarli al limite del mondo dei polimeri ad alte prestazioni. Il PBT è un materiale termoplastico molto simile al PET (polietilenetereftalato) ed è come esso un termoplastico parzialmente cristallino il quale però cristallizza più velocemente e per questo è più adatto allo stampaggio a iniezione dello stesso PET. Il PBT viene stampato in condizioni piuttosto ordinarie, con temperature di stampo che spesso sono inferiori ai 60 °C, anche se una superficie ottimale si ottiene solo oltre i 110 °C; si impiega per la fabbricazione di cuscinetti, parti di valvole, pompe ed elettrodomestici. Se l'importanza del PBT nasce dal sostituire il PET in un processo fondamentale quale lo stampaggio a iniezione, quella del PPE deriva dalle infinite possibilità di combinarlo con altri materiali termoplastici quali il polistirene PS, la poliammide PA o il PBT. Tali miscele sono impiegate come masse da stampaggio, lavorabili a temperature inferiori ai 320 °C, da cui si possono ottenere manufatti aventi ottime prestazioni meccaniche, in modo speciale in termini di resistenza all'urto (anche alle basse temperature) e di massima temperatura di esercizio (oltre i 100 °C). La miscela più diffusa è quella con il PS in un rapporto unitario. La presenza dello stirolo migliora la resistenza all'ossidazione rispetto al PPE puro così come la sua lavorabilità, anche se ne aumenta la tendenza a fessurazione sotto sforzo. Questo materiale è spesso impiegato per parti interne degli autoveicoli, griglie di radiatori, parti di macchine da ufficio ed elettrodomestici e, nella forma di espanso strutturale, per apparecchi televisivi ed elettrici.
Le ultime menzioni da fare sui t. riguardano le famiglie dei polimeri fluorurati e delle poliimmidi. Per i polimeri fluorurati, oltre al PTFE che possiede la maggiore stabilità al calore di tutti i t. (con temperature massime di esercizio nel breve periodo di circa 300 °C e nel lungo periodo di quasi 250 °C), è di grande interesse il polivinildenfluoruro (PVDF) che invece supera tutti i componenti della sua famiglia per la resistenza alle radiazioni di elevata energia. Altri componenti di pregio sono i copolimeri fluorurati come il copolimero etilene-clorotrifluoroetilene (ECTFE) che è uno dei polimeri contenenti fluoro a maggior modulo elastico e resistenza, pur presentando un significativo valore di resilienza. Le poliimmidi sono invece sia termoplastiche (tra cui in particolare la poliammideimmide, PAI e la polieterimmide, PEI) sia termoindurenti (principalmente il polibenzimidazolo, PBI). Il PAI è un materiale molto impiegato per l'industria del freddo sia per il settore aeronautico che spaziale. Il PEI invece, vista l'ottima resistenza alla fiamma e le buone caratteristiche elettriche e meccaniche, è molto impiegato nel settore elettrico e per la componentistica di forni a microonde, carburatori e freni. Infine il PBI è un polimero semiconduttore che, indurito, può presentare una temperatura di transizione vetrosa fino a giungere ai 300 °C; la resistenza a tutti i solventi, combinata alla minima tendenza all'ossidazione alle alte temperature e alle ottime caratteristiche meccaniche, ne fa un candidato ideale per la fabbricazione di supporti di circuiti stampati e di altri particolari elettronici, di isolanti e protezioni nell'industria automobilistica e aeronautica.
bibliografia
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