Tecnopolitica
La politica mediatica
Il rapporto tra la politica e la tecnica non può essere descritto solo in termini strumentali, come se la tecnica si limitasse a mettere a disposizione della politica dei mezzi di cui questa si serve senza per ciò veder modificate le proprie caratteristiche. Sono esistite, e continuano a esistere, situazioni nelle quali l’aspetto strumentale si presenta come esclusivo o prevalente: l’avvento del microfono, per es., può essere considerato come una semplice amplificazione della voce, anche se in concreto diviene uno strumento che accresce il numero di soggetti raggiungibili nello stesso momento dalla stessa comunicazione, e che si trasforma in una protesi tecnologica la quale consente di includere nella dimensione della comunicazione politica soggetti che altrimenti, per le loro caratteristiche fisiche, ne sarebbero esclusi. Ma, nella fase che stiamo vivendo, l’innovazione tecnologica ha inciso profondamente sul modo in cui la sfera della politica non solo si presenta ma si struttura.
Si può definire come tecnopolitica l’insieme di queste trasformazioni. Esse, tuttavia, pur assumendo caratteri profondamente innovativi o addirittura rivoluzionari, non possono essere analizzate esclusivamente dal punto di vista delle discontinuità che producono, anche perché il succedersi delle tecnologie disponibili non sempre produce effetti sostitutivi, ma piuttosto cumulativi (Rodotà 20042). Proprio per comprendere la profondità del cambiamento, è necessario tener presenti i diversi modi in cui la politica si è servita delle tecniche via via disponibili per finalità di comunicazione, organizzazione, controllo. Con quel termine, tuttavia, si vuole soprattutto segnalare un fenomeno tipico della fase più recente, che vede le tecnologie dell’informazione e della comunicazione dare forme inedite alla politica, creando addirittura sfere pubbliche distinte da quelle costruite attraverso i canali politici tradizionali, e mutando persino la natura delle organizzazioni sociali.
Il forte impiego delle tecnologie della comunicazione si coglie già negli anni Trenta, con il diffondersi della radio e del cinema. Sono divenute proverbiali le fireside chats, le conversazioni accanto al caminetto del presidente degli Stati Uniti Franklin D. Roosevelt, che il 12 marzo 1933 si rivolse per radio all’insieme degli americani, instaurando con loro un rapporto diretto che negli anni successivi si sarebbe istituzionalizzato. E dopo che la tecnologia del microfono aveva reso possibili le adunate ‘oceaniche’ e i fluviali discorsi dei leader, Benito Mussolini, inaugurando nel 1937 Cinecittà, definì il cinema «l’arma più potente», cogliendo un dato nuovo e destinato a stabilizzarsi nelle varie utilizzazioni del cinema come strumento di persuasione. Con la televisione questo processo conosce una accelerazione decisiva, e cominciano a manifestarsi effetti che mostrano come il mezzo modifichi il modo di essere della politica, imponendo nuove forme di selezione e legittimazione dei candidati (aspetto gradevole, capacità di avvicinarsi a stereotipi collaudati nei programmi di intrattenimento, addirittura passaggio diretto dalla proprietà delle reti a ruoli politici) e una semplificazione di alcuni aspetti della comunicazione politica che, per tempi e contenuti, si avvicina allo stile dello spot pubblicitario.
Il diffondersi delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione, e in primo luogo l’espansione planetaria di Internet, fanno parlare di un cambiamento radicale. Le tecnologie precedenti instauravano una comunicazione verticale, a una sola via, dall’alto verso il basso, esaltando tanto il potere del comunicatore quanto la passività della platea di coloro i quali ricevevano il suo messaggio. Le nuove tecnologie modificano questo quadro. La comunicazione si fa orizzontale, paritaria, può procedere dal basso verso l’alto, può fare a meno dei tradizionali mediatori sociali, espandendo i poteri individuali e collettivi e rivelando potenzialità egualitarie. La natura stessa del sistema politico ne risulta influenzata, e si ricorre abitualmente all’espressione ‘democrazia elettronica’.
La rivoluzione di Internet ha contagiato il linguaggio della politica, che sempre più spesso descrive sé stessa con le parole attinte proprio dal lessico della rete, come dimostrano i titoli di alcuni tra i moltissimi libri che da qualche tempo hanno assunto questa tipologia di comunicazione: La polis Internet di Paul Mathias, Giorgio Pacifici, Pieraugusto Pozzi e Giuseppe Sacco (2000); Vote.com di Dick Morris e Gilles Delafon (2002); Governance.com di Elaine C. Kamark e Joseph S. Nye (2002); Republic.com. 2.0 di Cass R. Sunstein (2007). Si giunge così a concludere perentoriamente che «nella nostra società, la politica è in primo luogo politica mediatica» (Castells 2008, p. 12). Ma che cosa significa, in concreto, un’affermazione come questa?
Bisogna, in primo luogo, identificare quale sia il sistema dei media al quale si fa riferimento. Si è già detto che l’analisi deve aver riguardo, in primo luogo, agli effetti cumulativi e non sostitutivi. Si pensi, allora, a un evento sempre citato come il capostipite del nuovo modo di fare politica in pubblico, come il debutto planetario del movimento no global: la manifestazione contro la WTO (World Trade Organization) organizzata a Seattle nel 1999. Non v’è dubbio che quella manifestazione capostipite non sarebbe stata possibile senza Internet, senza la costruzione di una rete di contatti che percorreva le strade elettroniche. Ma si poté cogliere il senso di quella preparazione, avvenuta nello spazio virtuale, solo quando persone reali si ritrovarono in spazi reali, nelle strade e nelle piazze di quella lontana città degli Stati Uniti, che apparve per un momento come il centro del mondo perché le immagini di quelle giornate raggiungevano ogni angolo della Terra attraverso la ‘vecchia’ televisione.
Questa esperienza ci mostra una piazza reale non separata dai luoghi virtuali, manifestazioni che non si esauriscono nello spazio elettronico e sono amplificate, anzi rese ‘reali’, da tutto il sistema delle comunicazioni. Si tratta di un modello che vede l’integrazione di luoghi e mezzi diversi, e non la cancellazione dei vecchi media a opera dei nuovi o l’assoluta prevalenza del cyberspazio, ma piuttosto l’emergere di una mixed reality. Queste sono sperimentazioni che muovono piuttosto dal basso, integrano tecnologie e modalità d’azione differenziate, e sollecitano più la partecipazione che il puro fatto della decisione.
Lungo questa linea di analisi può essere collocata l’esperienza avviata nel 2004 da uno dei candidati democratici alle primarie per la presidenza degli Stati Uniti, l’ex governatore del Vermont Howard Dean, che fece emergere una nuova ‘strategia elettronica’, al centro della quale non si colloca semplicemente il sito del candidato. Compaiono altri strumenti: una ‘web tv’, un blog for America animato dal candidato e dai suoi collaboratori, il Dean wireless (una lista di diffusione che opera soprattutto attraverso gli SMS). E questi mezzi vengono integrati con siti, liste di indirizzi e-mail e di telefonia cellulare, blog militanti, dando vita a un vero metanetwork, il Meetup.
Si determina così un mutamento nella natura del sito del candidato, non più sua semplice ‘vetrina’. Si dà luogo a un’interazione continua, con la costruzione progressiva di una piattaforma politica attraverso una molteplicità di contributi provenienti dall’intera platea degli interlocutori. Siamo di fronte alla ‘versione politica dell’open source’: non un modello imposto, ma reattivo, che via via si configura secondo le caratteristiche del ‘popolo’ che lo frequenta. Questo modo di organizzare l’azione politica, inoltre, è stato utilizzato per il finanziamento dei candidati attraverso una miriade di piccole donazioni (già nel giugno 2004 i fondi così raccolti erano diventati la prima fonte di finanziamento per il candidato democratico alla presidenza, John Kerry). Si può partire da qui per curare una delle crescenti distorsioni della democrazia, la dipendenza dei candidati dai grandi finanziatori, che così diventano i veri padroni della politica?
Ma sono emerse anche le debolezze di questa strategia. Dean ha affermato pubblicamente che, se si accorge che un suo discorso o una sua proposta non sono piaciuti ai blogger o agli elettori, la volta successiva cambia il discorso o la proposta. Si prospetta così un modello dal quale sembra trasparire la ricerca del consenso a ogni costo, alimentando dubbi sulla capacità del candidato di mettere a punto un programma autonomo e coerente. Si coglie qui un punto critico del ricorso alle nuove tecnologie nei processi di selezione della rappresentanza e nella connessa definizione dell’agenda politica. Quelle tecnologie consentono un maggior ascolto delle opinioni dei cittadini, ma possono anche produrre una perdita di autonomia nell’elaborazione politica, determinando una nuova forma di passività, che prende il posto di quella tradizionale, trasferita dai cittadini ai politici.
Questo processo, tuttavia, non si esaurisce nello spazio di Internet. Ne innesca un altro, quello degli house meetings, delle riunioni ‘fisiche’ in bar e ristoranti, con la presenza dei sostenitori del candidato anche nelle case di chi, magari raggiunto via Internet, accetta di organizzare un incontro per discutere di problemi politici: una miriade di contatti diretti che replicano nel mondo ‘reale’ la stessa logica della rete. Tutti questi effetti sono stati consolidati e amplificati dalle strategie adottate dall’attuale presidente degli Stati Uniti, Barack Obama.
La novità profonda, allora, va colta anche nel significato diverso che luoghi tradizionali e tecniche abituali assumono per il fatto di essere collocati in una struttura diversa, orizzontale e non verticale, in una rete di rapporti che dà rilievo a ogni partecipante. Il diffondersi della possibilità di essere ‘ovunque’, e di poterlo fare senza dover seguire indicazioni provenienti dall’alto, mette in discussione l’idea di una politica fatta di spazi chiusi, di luoghi deputati accessibili solo attraverso procedure selettive. L’‘ubiquità’ delle persone modifica i processi sociali, politici, economici, della conoscenza. Siamo di fronte a forme inedite di creazione di spazi pubblici, di espaces citoyen, che non portano naturalmente impresso il marchio della democrazia, ma sicuramente possono ribaltare gerarchie e liberare da vincoli impropri, con effetti immediati di rafforzamento dell’eguaglianza. Si avviano così processi di inclusione in una sfera pubblica rinnovata e diversa da quella che conoscevamo, oggi rappresentata da Internet, grande metafora di tutte le potenzialità nascenti, di quel power of us, di quel potere diffuso descritto da tanti studiosi, che proprio per ciò dev’essere al riparo dal rischio di censure e di impieghi soltanto commerciali, per evitare che le potenzialità civili di Internet vengano progressivamente assimilate a quelle di uno sterminato supermercato a cielo aperto.
L’esperienza delle elezioni presidenziali americane del 2008 ha mostrato, insieme, la persistenza di queste dinamiche e il manifestarsi di significative rotture. È cresciuta, fino a raggiungere il 67% del totale, la percentuale delle risorse finanziarie raccolte attraverso la rete, confermando così una tendenza virtuosa che può consentire una riduzione della dipendenza dei candidati dai contributi, non sempre disinteressati, delle grandi imprese. Tuttavia si è registrato un effetto ‘cumulativo’: dopo aver utilizzato i diversi strumenti messi a disposizione dalle innovazioni su Internet, negli ultimi giorni di campagna elettorale Obama ha investito tre milioni di dollari per messaggi trasmessi dalle tradizionali reti televisive. Ma è il modo nuovo in cui si sono combinati i diversi strumenti a costituire la sostanza del cambiamento tecnopolitico.
Per una resa democratica delle tecnologie
Con il passaggio all’Internet 2.0, all’era del social networking, i diversi processi hanno conosciuto un’accelerazione e un cambiamento, che possono essere descritti mettendo a confronto diverse strategie, proposte sempre negli Stati Uniti e sempre in occasione delle elezioni presidenziali, momento massimo della mobilitazione politica. Nel 1994 un politico americano allora in ascesa, Newt Gingrich, propose un ‘contratto con l’America’ che avrebbe di lì a poco ispirato iniziative simili dalle nostre parti. In quel contratto si materializzava uno dei sogni di ogni populista: la cancellazione del Parlamento, il rapporto diretto tra il leader al vertice della piramide del potere e la massa dei cittadini. Si proponeva, infatti, di chiudere il Congresso degli Stati Uniti e di sostituirlo con un Congresso ‘virtuale’. Tutti gli americani, grazie alle tecnologie elettroniche, avrebbero potuto votare direttamente le leggi, dando alla sovranità popolare la sua pienezza.
In questi anni è stato messo da parte questo pericoloso modello nel quale, dietro l’illusione della sovranità, si scorgeva il rischio di un’estrema manipolazione dei cittadini. La democrazia elettronica ha percorso altre strade. L’attenzione è stata rivolta alle nuove forme di distribuzione del potere, all’emersione di nuovi soggetti e di nuove forme della politica. È stata privilegiata la dimensione locale, facendo crescere l’efficienza amministrativa e creando così le condizioni concrete per tornare a riflettere sulla partecipazione dei cittadini senza nulla concedere a tentazioni plebiscitarie. Ci si muove su Internet, il maggior spazio pubblico che l’umanità abbia conosciuto. Ma lungo questa strada s’incontra un rifiorire della democrazia o quel ‘nuovo Medioevo’ che affascina studiosi come Manuel Castells, con l’immagine della rete che si proietta su un mondo globale senza un centro, dove convivono poteri molteplici?
Un attento studioso di questi problemi, Carlo Formenti, ha rilevato che Internet si presenta come «un formidabile incubatore di forme di partecipazione dal basso della politica» che «hanno poco da spartire con quelle tradizionali della democrazia rappresentativa» (2004, p. 71). Una rivoluzione che ha dissolto vecchi legami sociali e politici, accelerato i fenomeni di deterritorializzazione, contribuito alla nascita di un mercato globale e di nuove forme di controllo dei soggetti che qui agiscono, determinato la nascita di comunità software free e open source «protagoniste di uno straordinario esperimento di socialismo informatico» (p. 72), ispirato anche l’azione di governi, dall’India al Brasile.
Ma lo sguardo non può essere rivolto solo a questi possibili sviluppi, trascurando altri fenomeni che, invece, insidiano la democrazia. Spesso ai cittadini viene promesso un futuro pieno di efficienza amministrativa e occultato un presente in cui si moltiplicano gli strumenti di un controllo sempre più invasivo e capillare. Sembra quasi che si stiano costruendo due mondi non comunicanti, e che l’e-government, l’amministrazione elettronica, possa evolversi senza tener conto della contemporanea compressione di diritti individuali e collettivi, motivata con esigenze di efficienza o di sicurezza.
La ‘resa democratica’ delle tecnologie dev’essere misurata considerando l’insieme dei loro effetti sociali. Altrimenti anche l’efficienza può essere vittima della schizofrenia istituzionale. La presenza del cittadino nei processi di e-government, utilizzando per via elettronica servizi offerti dal Comune o intervenendo in procedure pubbliche, è sempre accompagnata da registrazioni dei suoi dati. Ma questi come saranno utilizzati? Verranno cancellati, serviranno per costruire profili di cittadini attivi o liste di ‘attivisti’ da tenere sotto controllo? Senza certezze su questo punto, si rischia di disincentivare la partecipazione, perché il cittadino potrebbe astenersi dal cogliere le nuove opportunità proprio per allontanarne da sé le possibili conseguenze indesiderate. Non si può costruire una partecipazione separata da un rigoroso rispetto di tutti i diritti dei partecipanti. Non è possibile separare la questione dell’e-government da quella dell’e-democracy.
Si possono, a questo punto, indicare diverse fasi di sviluppo e diverse dinamiche che caratterizzano la tecnopolitica: utilizzazioni volte a realizzare condizioni per una democrazia diretta o plebiscitaria o continua; marketing politico, con il trasferimento nella sfera politica delle tecniche messe a punto nel mondo dell’impresa; crescita dell’efficienza delle istituzioni pubbliche, con la considerazione del cittadino prevalentemente come consumatore; insieme di strumenti che rendono più agevole il controllo delle persone, con una tendenziale trasformazione delle organizzazioni sociali in società della sorveglianza e della selezione; costruzioni di sfere pubbliche autonome (blogsfera, reti sociali). Questi sono i fenomeni più rilevanti, ai quali devono essere applicati i criteri di analisi già indicati, in primo luogo quelli che mettono in evidenza gli effetti cumulativi e non sostitutivi del ricorso alle diverse tecnologie.
Tecnologia della libertà e tecnologia del controllo
La tecnologia diventa così prodiga di promesse. Alla democrazia offre strumenti per combattere l’efficienza declinante, e arriva a proporne addirittura una rigenerazione. Si sperimenta sempre più largamente il voto elettronico, non solo per semplificare le operazioni elettorali, ma nella speranza che la semplificazione delle procedure di voto possa contribuire a ridurre l’astensionismo. La prospettiva dei referendum elettronici, o di un’immensa electronic town hall corrispondente a un’intera nazione, ha da tempo riproposto l’immagine di una democrazia che, riguadagnato il suo popolo, torna ad abbeverarsi alle antiche sorgenti, alla democrazia diretta ateniese.
Accanto a queste ipotesi estreme si colloca un’infinità di varianti, diversamente volte a prospettare una partecipazione sempre più larga ai processi di decisione. La democrazia deliberativa sembra imboccare le vie obbligate della tecnopolitica. Accompagnando l’intero processo politico e amministrativo, grazie alle tecnologie dell’informazione e della comunicazione, la democrazia si fa ‘continua’ con il ricorso ai sondaggi e alle mobilitazioni via Internet, con la diffusione delle informazioni e l’accesso planetario alla conoscenza, con la progressiva trasformazione dei rapporti tra politica e cittadini.
Ma le vie della tecnopolitica non vanno in una sola direzione. Cambiando il punto d’osservazione, ci si avvede che le variegate possibilità offerte dalle tecnologie dell’informazione e della comunicazione trasformano la politica anche in forme assai diverse dall’espansione delle possibilità di partecipazione, aprendo invece le porte a processi di manipolazione e di controllo, al potere di gruppi ristretti. La congiunzione tra estrema personalizzazione e uso crescente delle tecnologie per una comunicazione diretta tra leader e cittadini può anche configurare una forma politica congeniale alla democrazia plebiscitaria, al populismo del nostro tempo. Convivono, fianco a fianco, tecnologie della libertà e tecnologie del controllo.
Inoltre, le tecnologie dell’informazione e della comunicazione non arrivano nel mondo della politica ‘allo stato puro’. Soprattutto nella prima fase, la politica ne ha conosciuto la versione elaborata per strategie di mercato. Si è così parlato di ‘marketing politico’, con una deformazione dell’idea di politica che le tecniche adoperate hanno trasformato in un prodotto da vendere. Ha così perduto forza l’ipotesi estrema cui si è già accennato, quella di una democrazia elettronica che, in una rozza versione della democrazia dell’agorà, avrebbe dovuto portare alla cancellazione dei luoghi della rappresentanza.
Messo da parte questo pericoloso modello nel quale, dietro l’illusione della sovranità, si scorgeva il rischio d’una estrema manipolazione dei cittadini, la democrazia elettronica ha percorso altre strade. L’attenzione è stata rivolta alle nuove forme di distribuzione del potere, all’emersione di nuovi soggetti e di nuove forme della politica. È stata privilegiata la dimensione locale, facendo crescere l’efficienza amministrativa e creando così le condizioni concrete per tornare a riflettere sulla partecipazione dei cittadini senza nulla concedere a tentazioni plebiscitarie. Ci si muove su Internet cercando di garantire anche in questa nuova, pervasiva dimensione il rispetto dei diritti, le opportunità di partecipazione, l’accesso alla conoscenza. L’esplosione della blogsfera e successivamente del social networking di Internet 2.0 (YouTube, Facebook, Myface ecc.) ha prodotto un nuovo spazio pubblico.
Ma nel momento in cui la tecnologia viene sempre più massicciamente impiegata per la creazione di una società della sorveglianza, della classificazione e del controllo, bisogna in ogni momento definire le condizioni necessarie per evitare che la tecnopolitica si risolva nel controllo autoritario, nella discriminazione, in vecchie e nuove stratificazioni sociali produttive di esclusione, nel dominio pieno di una logica di mercato che cerca un’ulteriore legittimazione proprio nella tecnologia. Questo esige processi sociali e soluzioni istituzionali capaci di tener fermo il quadro della democrazia e dei diritti di libertà.
La dimensione nuova offerta da una tecnopolitica al servizio della libertà incontra così il tema delle regole, delle forme certamente nuove che devono accompagnare il suo prepotente insediarsi nel cuore delle società, la sua forte attitudine a disegnare il futuro. All’attenzione per l’innovazione tecnologica si accompagna la consapevolezza crescente della necessità di un’innovazione istituzionale, che prenda le forme di una ‘Costituzione per Internet’, di un Internet bill of rights, che possa garantire le possibilità di muoversi liberamente nel cyberspazio, anzi nello spazio allargato dove realtà virtuale e realtà senza aggettivi si mescolano e creano, appunto, una realtà inedita.
Un Internet bill of rights
Si sono, infatti, moltiplicate negli ultimi anni le violazioni dei diritti su Internet. Il caso più clamoroso è quello delle grandi società di Internet – Google, Microsoft, Yahoo – che accettano richieste censorie da parte di Stati autoritari, giustificandosi con il fatto che, altrimenti, si vedrebbero precluso l’accesso a mercati che, come quello cinese, sono economicamente importantissimi.
Nasce così una censura di mercato, e il governo del mondo digitale viene assoggettato a un’inquietante mezzadria che ha come protagonisti grandi imprese e Stati autoritari, in un perverso intreccio tra globale e locale. Così, la Cina chiede che cada il velo dell’anonimato per rintracciare un giornalista che aveva mandato negli Stati Uniti una notizia sgradita al regime; Yahoo lo fa, e il giornalista viene arrestato e condannato a dieci anni di carcere. Google, da parte sua, gestisce i rapporti con Stati sovrani come la Turchia o la Thailandia, che chiedono la rimozione da YouTube di video sgraditi. Al di là dei singoli episodi, si coglie così, con nettezza, il modo in cui si sta strutturando la vera ‘catena di comando’ del sistema planetario della comunicazione, che ha uno dei suoi più importanti terminali a Mountain View, in California, nella sede di Google, dove si decidono le sorti della libertà d’espressione, stabilendo anche regole più restrittive per ‘pubblicare’ alcune categorie di video su YouTube. Google si presenta così come il ‘decisore globale finale’ in materie che riguardano libertà e diritti, esercita un potere non soggetto ad alcun controllo, che suscita serie inquietudini, tanto che un gruppo di parlamentari democratici e repubblicani ha presentato al Congresso americano una proposta, il Global on-line freedom act, per obbligare tutte le società operanti su Internet a comunicare a un nuovo ufficio del dipartimento di Stato tutti i casi in cui hanno ‘filtrato’ materiali su richiesta di Stati esteri. Si cerca così di creare almeno una situazione di trasparenza, di bilanciare con una regola istituzionale un potere altrimenti incontrollabile, di cominciare a spostare qualche parte del governo del mondo in sedi democraticamente responsabili.
È significativo che queste vicende si siano intrecciate con le celebrazioni di YouTube come strumento chiave della nuova democrazia, come un mezzo che ha contribuito in modo significativo alla vittoria di Obama, creando una nuova sfera pubblica, più aperta e libera dai condizionamenti ai quali sono soggetti i media tradizionali. Qui si coglie una contraddizione, che apre un problema ineludibile: si possono affidare i luoghi e i mezzi di una democrazia in trasformazione soltanto alle logiche imprenditoriali e alle volontà di governi non democratici? È vero che i grandi attori di Internet, Google in primo luogo, si mostrano consapevoli di questa realtà e propongono codici di autoregolamentazione per fornire qualche garanzia. Ma si sta pure avverando una facile previsione. Sotto la pressione di richieste di sicurezza e di interessi economici, Internet si vede negata progressivamente la sua natura di spazio libero, e tende a essere configurato come uno spazio ‘normalizzato’, dove sia ridotto al minimo il rischio di imbattersi in opinioni dissenzienti, sgradite ai diversi poteri o ritenute dannose da chi è preoccupato soprattutto del fatturato pubblicitario e dell’incentivo ai consumi. Le libertà su Internet sono concretamente in pericolo e, se manca un quadro di garanzie istituzionali, le regole le produce solo la logica di mercato, che non esita a sacrificare i diritti dei cittadini.
La forza delle cose travolge così le resistenze di quanti continuano a opporsi all’ipotesi stessa di un Internet bill of rights, temendo che in questo modo si impongano vincoli che la storia libertaria della rete non vuole sopportare. Una posizione di retroguardia. Non fa i conti con una realtà che vede ogni giorno crescere le situazioni in cui i diritti in rete sono compressi, e non solo dagli Stati autoritari, ma da un Occidente che utilizza l’argomento della lotta al terrorismo per imporre lunghe conservazioni dei dati riguardanti ogni forma di comunicazione elettronica, consegna informazioni delicate ad autorità di polizia, realizza schedature di massa delle persone. Ignora, poi, che le costituzioni, le carte e le dichiarazioni dei diritti sono sempre state l’opposto delle limitazioni delle libertà, rappresentando proprio lo strumento che ha consentito la garanzia e l’espansione dei diritti.
Naturalmente, questo non vuol dire che il cammino da seguire sia quello che, in passato, ha portato all’approvazione di costituzioni e carte dei diritti. Queste sono sempre state il frutto di iniziative dall’alto, si trattasse di costituzioni octroyées, concesse dal sovrano, o approvate da assemblee costituenti. La natura stessa di Internet si oppone all’adozione di questo schema. Internet è il luogo della discussione diffusa, delle iniziative che vogliono e possono coinvolgere un numero larghissimo di persone, dell’elaborazione comune.
Una ‘Costituzione per Internet’ non può che essere il risultato di un processo che, al di là della specifica materia, individua quali sono le caratteristiche tecnopolitiche della rete e, attraverso queste, le future modalità dell’azione politica e istituzionale. Le decisioni non possono essere affidate a procedure discendenti, dall’alto verso il basso (top-down), e neppure a un semplice rovesciamento di questa logica (bottom-up). La natura dei processi di decisione è centrata piuttosto sulla diffusione e sulla partecipazione; sulla contemporanea presenza di una molteplicità di soggetti privati e pubblici, individuali e collettivi; sull’adozione di strumenti diversi; sulla messa a punto di regole a diversi livelli territoriali. Per le decisioni riguardanti la garanzia in rete di libertà e diritti, diventa centrale la questione dell’attitudine ‘inclusiva’ del modello adottato, perché a esso possa essere riconosciuta rappresentatività e, dunque, legittimazione democratica.
Si individua un processo e, di conseguenza, si pone anche il problema delle sue modalità, di quali dovrebbero essere i suoi contenuti. Se si esaminano le molte proposte in circolazione, si colgono immediatamente impostazioni assai diverse: mirate a individuare alcuni grandi principi o, al contrario, articolate in una serie di prescrizioni analitiche. La prima impostazione appare preferibile, non solo perché rispecchia la tradizionale natura delle dichiarazioni dei diritti. Le norme di principio hanno maggiore capacità di incorporare la dimensione del futuro, dunque di disciplinare situazioni in perenne mutamento, fornendo il quadro di riferimento a una molteplicità di regole, anche variabili, provenienti da fonti diverse.
Affrontando specificamente la questione dei contenuti, l’attribuzione di specifici diritti ha una precondizione: il riconoscimento pieno del diritto di accesso, che implica non solo la possibilità di connessione; richiede un’accumulazione di sapere critico, dunque di istruzione adeguata; e soprattutto esige una crescente considerazione dei beni disponibili in rete come beni comuni, reagendo alla creazione artificiale di scarsità di beni altrimenti disponibili in quantità tendenzialmente illimitata. Rischiamo, altrimenti, che ci venga consegnata una chiave che apre soltanto una stanza vuota, priva di contenuti significativi liberamente utilizzabili. O che venga esaltato il potere dei mediatori che, come i grandi motori di ricerca, esercitano un enorme potere sociale svincolato da ogni responsabilità. La posta in gioco non è piccola. Il raccordo accesso/beni comuni si presenta come un antidoto alla privatizzazione del mondo, offre possibilità inedite di percorrerlo liberamente, con equilibri nuovi tra diritti individuali e godimento collettivo, che possono risultare solo da standard aperti, da condivisione di codici, da un ripensamento radicale di brevetto e copyright.
Ma il diritto di sapere può essere effettivamente esercitato solo se viene garantita la neutralità della rete, che non è affatto una condizione tecnica, ma una componente dell’eguaglianza. L’Internet bill of rights assume così le caratteristiche di un documento costituzionale; i diritti in esso riconosciuti si presentano come componenti della nuova cittadinanza planetaria.
Siamo di fronte a un nuovo intreccio tra la ‘costituzionalizzazione’ della persona, ben visibile, per es., nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, e la dimensione della rete, che non solo propone diritti nuovi, ma impone una rilettura degli stessi diritti tradizionali. Non è un caso che oggi si distingua tra tutela della privacy, come garanzia di una sfera privata chiusa, e diritto alla protezione dei dati, come autonomo diritto fondamentale che consente la proiezione nel mondo e mette tutti in condizione di sviluppare liberamente la propria personalità. Così, anche quando si continua a usare il termine privacy, in realtà si individuano una forma essenziale della libertà dei contemporanei e uno strumento indispensabile per resistere a un’interpretazione della società della conoscenza che attribuisce a soggetti pubblici e privati il potere di conoscere ogni dato riguardante la vita delle persone, trasformando le società democratiche in società del controllo, della sorveglianza, della classificazione e della selezione sociale. Solo così si può uscire dalla schizofrenia politica e istituzionale di questo tempo, che riconosce formalmente diritti fondamentali e, al tempo stesso, li nega in nome di una sicurezza dilatata fino a divenire ‘fabbrica della paura’ e di un’efficienza economica insofferente di ogni regola.
Questo è uno dei pilastri dell’Internet bill of rights, che non è un nuovo catalogo di diritti, ma l’individuazione di un modello sociale e politico. Su questo si fonda la libertà d’espressione come diritto di «cercare, ricevere e diffondere informazioni e idee»: questa è la formula adottata dall’art. 19 della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo che, proiettata nella dimensione della rete, sprigiona una potenza finora sconosciuta. E assume più netta fisionomia il diritto alla identità che, considerato nel quadro della libera costruzione della personalità, comprende anche il diritto all’anonimato e alle identità digitali. In questa prospettiva, la stessa tutela dei dati personali non è affidata alla logica proprietaria (‘il dato è mio e me lo gestisco io’), ma a una rinnovata visione della persona e dei suoi diritti. Nella Magna charta inglese del 1215, l’habeas corpus consisteva nella promessa del re ai suoi cavalieri che non sarebbero stati imprigionati illegalmente o torturati. Questa promessa dev’essere rinnovata dall’Internet bill of rights nonché trasferita dal corpo fisico al corpo elettronico, alla persona che vive nel mondo globale e le cui informazioni costituiscono una parte essenziale della società della conoscenza.
Partendo da questa reinterpretazione dei riferimenti fondamentali – accesso alla conoscenza, immunità dalle interferenze, garanzia della libera costruzione della personalità, rispetto della diversità, libertà di comunicazione, liberazione da vincoli proprietari, costruzione di beni comuni – è possibile procedere a inventari più analitici di situazioni meritevoli di tutela. Tenendo presente, però, che questa nuova dimensione della cittadinanza non guarda a individui dispersi, in attesa passiva che qualcuno attribuisca loro qualche diritto. Siamo di fronte a un ‘popolo-mondo’, protagonista di una vicenda inedita, che produce esso stesso l’individuazione e le forme di tutela dei diritti che lo riguardano, in una nuova alleanza con una molteplicità di soggetti, in primo luogo con istituzioni pubbliche, nazionali e sopranazionali, di cui contribuisce a mutare le logiche e le modalità d’azione.
Democrazia rappresentativa e democrazia partecipativa
Considerata nell’ormai ineludibile dimensione della rete, la tecnopolitica rivela così le precondizioni necessarie per un suo sviluppo democratico, gli intrecci istituzionali che fa nascere, le sfide che pone alle forme dei sistemi politici. L’incidenza delle tecnologie dell’informazione e delle comunicazioni sui parlamenti, dunque sul luogo della democrazia rappresentativa, può essere esaminato da diversi punti di vista. Da una parte, si può considerare la fase di costruzione delle istituzioni rappresentative, quindi la selezione dei candidati, la campagna elettorale, le modalità del voto. Dall’altra, l’organizzazione interna del lavoro parlamentare e le diverse forme di rapporto con i cittadini. Le tecniche di voto e quelle organizzative sono certamente rilevanti, ma possono essere considerate parte di un continuo, e fisiologico, adattamento a quelle che sono le innovazioni tecnologiche via via disponibili, anche se pongono problemi rilevanti quando, per es., si prevede voto elettronico a distanza, perché questo cambiamento può mettere in discussione il carattere personale, libero e segreto del voto.
Diversa è la portata delle innovazioni quando, nel loro complesso, modificano il circuito cittadini/parlamenti. Ma queste novità non possono essere analizzate utilizzando strumenti tradizionali. Oggi siamo al di là della storica contrapposizione tra democrazia rappresentativa e democrazia diretta. E la voce dei cittadini si fa sentire in forme impensabili in passato.
Nel Contrat social (1762), Jean-Jacques Rousseau, criticando la democrazia rappresentativa, scriveva: «il popolo inglese pensa di essere libero; si sbaglia di grosso, perché lo è solo durante l’elezione dei membri del Parlamento; appena questi sono eletti, non è più nulla, e ritorna schiavo. Nel breve periodo della sua libertà, l’uso che di questa fa merita ampiamente che la perda». Questo giudizio può apparire eccessivamente pessimistico, o addirittura ingiusto, ma nella sostanza corrisponde a una valutazione che è stata per lungo tempo alla base di una logica politico-istituzionale che prendeva in considerazione proprio il silenzio postelettorale dei cittadini. Si è parlato, e ancora si parla, di una honeymoon, dei cento giorni immediatamente successivi alle elezioni come del periodo propizio a riforme anche impopolari, perché il successivo tempo della legislatura consentirebbe di assorbirne gli effetti negativi. Questa impostazione è stata via via erosa dal diffondersi dei sondaggi sul consenso dei cittadini all’azione di governo e parlamento, che ha modificato il funzionamento del circuito istituzioni/opinione pubblica, incidendo anche sull’agenda politica, soprattutto quella a lungo termine.
Gli effetti di questa innovazione sono stati fortemente amplificati dalle tecnologie dell’informazione e della comunicazione, tanto che si è parlato di ‘sondocrazia’, di ‘campagna elettorale permanente’, ma anche di ‘democrazia continua’. Le opportunità crescenti offerte dalle tecnologie, infatti, hanno pure reso possibili forme di intervento attivo dei cittadini, che così rompono il silenzio tra un’elezione e l’altra e si sottraggono al destino di essere soltanto ‘carne da sondaggio’. Si possono fare molti esempi di questo mutamento: dall’ampliarsi, grazie ai numeri telefonici toll-free, delle legislative calls dei cittadini ai parlamentari per indurli ad assumere un particolare atteggiamento su una legge; fino alle diverse forme di uso del web per costruire gruppi di pressione, dynamic coalitions, organizzare manifestazioni, costruire reti sociali, influenzando in questo modo l’azione di governo e parlamento.
Il mutamento di prospettiva si riesce a cogliere ancor più nettamente se si considera il fatto che siamo ormai oltre la logica binaria democrazia rappresentativa/democrazia diretta. Quest’ultima, infatti, si presentava come una forma istituzionale integralmente sostitutiva dell’altra. Oggi, invece, siamo di fronte a dinamiche più complesse, che possono produrre effetti diversi: integrazione della tradizionale democrazia rappresentativa con strumenti di e-participation; oppure costruzione di una sfera politica separata, che assume soprattutto funzioni di rappresentanza che sarebbero state perdute dalle istituzioni tradizionali, così private di una legittimazione forte e svuotate del loro ruolo storico. Schematizzando molto, si potrebbe dire che, nel primo caso, siamo piuttosto di fronte alla costruzione di nuovi canali interattivi tra i cittadini e la politica, tra la società civile e gli organi rappresentativi; nel secondo, i canali sono concepiti soprattutto, o esclusivamente, tra i cittadini.
Si pone così un problema di ristrutturazione complessiva del sistema politico. Quali possono essere gli effetti della convivenza di due sistemi di rappresentanza, uno dei quali si presenta come portatore della ‘vera’ rappresentanza, perché espressione diretta e diffusa della presenza continua dei cittadini?
La domanda, evidentemente, è rivolta alle istituzioni storiche, ai parlamenti in primo luogo. Ma, per rispondere, è necessario considerare in maniera più approfondita le dinamiche e le proposte che già si sono manifestate nei diversi sistemi politici. Nel Trattato di Lisbona la democrazia rappresentativa è esplicitamente affiancata dalla democrazia partecipativa, ed è prevista l’iniziativa popolare di un milione di cittadini per sollecitare l’intervento della Commissione europea. Si diffonde il ricorso a elezioni primarie, che hanno come effetto non solo quello di anticipare la partecipazione dei cittadini per quanto riguarda la scelta dei rappresentanti, ma anche quello di sottrarre tale potere ai tradizionali mediatori sociali, i partiti in primo luogo. In Francia si è proposta la creazione di jurys des citoyens, composti da persone estratte a sorte dalle liste elettorali per controllare come gli eletti svolgono il loro mandato. In questo modo il tradizionale rapporto tra eletto ed elettori verrebbe profondamente cambiato, poiché per i parlamentari si configurerebbe una specie di vincolo di mandato. Un’ipotesi ancor più radicale, in quest’ultima direzione, è quella, avanzata negli Stati Uniti, che prevede il diritto dei cittadini a revocare i membri del Congresso (già variamente previsto da 26 Stati) ma anche a porre il veto a ogni legge approvata dal Congresso. Due studiosi americani, James Fishkin e Bruce Ackerman, hanno elaborato una proposta di ‘sondaggi deliberativi’, per consentire una partecipazione attiva dei cittadini ai processi di decisione attraverso una discussione criticamente informata, reagendo così al carattere passivo e acritico delle risposte ai tradizionali sondaggi (La democrazia fa nuovi esperimenti, 2002). In alcuni Paesi, come per es. l’Estonia, si è cercato di coinvolgere i cittadini nei processi parlamentari attraverso una procedura in sei tappe: invio dell’idea o proposta, commento, editing, voto pro o contro, firma, feedback del governo. Tutti questi casi mettono in evidenza modificazioni significative del circuito cittadini/istituzioni. Si potrebbe obiettare che in alcuni casi non si fa ricorso alle nuove tecnologie. Ma questa è un’obiezione debole. Il mutamento complesso del contesto è sempre più dominato dal ricorso a queste tecnologie. Siamo di fronte a una trasformazione profonda della sfera pubblica e dei suoi rapporti con i processi politici, sì che ogni attività è destinata a essere progressivamente compresa nella dimensione tecnologica, a divenire parte della tecnopolitica.
Quali sono, allora, le indicazioni che i parlamenti dovrebbero prendere in considerazione? Il riferimento fondamentale, ovviamente, è il modo in cui Internet sta strutturando la presenza pubblica, individuale e collettiva. Si possono individuare alcune dinamiche, tra loro non sempre omogenee: a) siamo di fronte all’emergere di una autocomunicazione di massa, che si caratterizza anche attraverso il coinvolgimento del cittadino comune, tuttavia con il possibile effetto di una partecipazione individuale atomizzata; b) si determinano così anche una frammentazione e una segmentazione della sfera pubblica; c) sono cresciute le possibilità di mobilitazioni politiche istantanee; d) siamo ormai di fronte a una campagna ‘ipermediatica’, che si traduce poi in una campagna elettorale continua; e) cambiano la natura e il ruolo dei soggetti della mediazione politica; f) l’emersione di una realtà costituita dalla blogsfera, dall’insieme delle reti sociali allarga e rafforza la tendenza all’autorappresentazione; g) la cultura delle reti sociali è reinventata ogni giorno.
Così cambia il mondo intorno ai parlamenti, che debbono prendere atto che la crisi della rappresentanza è la loro crisi. Debbono rendersi conto che l’avversario della democrazia rappresentativa non è la democrazia diretta, ma il populismo con i suoi appelli diretti ai cittadini, con la cancellazione di ogni forma di mediazione, con la trasformazione delle elezioni in investitura, con il rischioso trasferimento della ‘vera’ rappresentatività fuori dai circuiti politici tradizionali.
Osservazioni conclusive
L’esperienza più recente e più significativa, quella legata alla campagna di Obama, mostra non solo che la tecnopolitica si è in parte liberata dall’ipoteca del marketing politico e che la sua utilizzazione non è riducibile alla capacità di sommare intelligentemente l’uso di massa degli SMS e le molteplici offerte dell’Internet 2.0. Il suo risultato più significativo consiste nell’aver ‘riconciliato’ appunto quelle due sfere pubbliche che sembravano destinate a una radicale divaricazione, a ignorarsi reciprocamente, o addirittura a entrare in conflitto perché portatrici di forme diverse di legittimità: quella della tradizionale democrazia rappresentativa e quella dell’autorappresentazione realizzata nell’articolarsi delle sempre rinnovate reti sociali. Questo non vuol dire che sia stata operata una sorta di ‘normalizzazione’ di queste ultime. Non vi è stato l’assorbimento di una sfera da parte di un’altra, ma neppure il permanere di una situazione descritta come la continua esposizione dei politici al dileggio delle folle ondivaghe. Il risultato effettivo potrebbe piuttosto essere descritto come una reciproca contaminazione, grazie alla quale nessuna delle due sfere pubbliche può oggi ritenersi identica a quella che era prima delle ultime vicende.
In generale, può dirsi che si è determinata una convergenza tra i media che ha portato a una redistribuzione di potere e che ha fatto parlare di un ‘rinascimento democratico’. Enfasi a parte, le variegate modalità di intervento diretto dei cittadini non sono tutte riconducibili alle logiche populiste, ma esprimono anche un’autonomia ottenuta grazie alla presenza in luoghi distinti da quelli istituzionali. Partendo dai blog o da YouTube, i cittadini hanno potuto realizzare un modo diverso e diretto di intervenire nella politica, integrandosi con altri mezzi e, comunque, mettendo in discussione il potere dei media tradizionali. Basta ricordare la capacità di YouTube di rendere possibili dibattiti immediati, o anche di costruire campagne elettorali parallele a quelle di un candidato.
L’approdo a una nuova utopia tecnopolitica? Ogni dubbio è stato spazzato via dall’apparizione del ‘presidente.com’? Non solo la consapevolezza di un’innovazione produttrice di continue sorprese deve indurre a usare rigore analitico e prudenza interpretativa. È la storia, solo nelle apparenze breve, di questi anni ad aver consumato molte frettolose speranze, affidate a logiche libertarie dietro le quali si è poi materializzata una maniera di intendere Internet come la ‘mano invisibile’ del mondo tecnologicamente globalizzato, e per ciò destinato a subire la logica economica e a produrre nuove disuguaglianze (Formenti 2008). Speranze di nuovo incarnate da una lettura miracolistica dell’Internet 2.0 e delle sue reti sociali, che sottovaluta il riprodursi in rete di modelli in qualche modo plebiscitari. Per questo diventa importante muoversi costantemente verso la costruzione di una dimensione ‘costituzionale’ di Internet, che va nella direzione esattamente opposta a quella che può imboccare qualsiasi forma di cyberpopulismo. Nell’intrecciarsi degli splendori e delle miserie di Internet, la dimensione della politica, nella sua versione tecnopolitica, esige un esercizio continuo di vigilanza critica, per non restare prigioniera di improvvisi entusiasmi e di cadute altrettanto repentine.
Finora si è assistito piuttosto a una tecnologia che sorprende e a una politica che si lascia sedurre. Torna allora attuale l’ammonimento del politologo statunitense Theodore J. Lowi, il quale nel 1980 affermò che se la tecnologia apre le porte, il capitale le chiude. Il ruolo della politica sta proprio lì, tra l’innovazione e la sua distorsione, per garantire Internet come spazio neutrale e nella sua capacità ‘generativa’, nella sua attitudine a produrre innovazione (Zittrain 2008). Nell’attesa di un Internet bill of rights, che dia alla tecnopolitica la sua corretta cornice costituzionale, dev’essere salvaguardata la ‘Costituzione materiale’ che ha finora proiettato Internet oltre lo strumentalismo, offrendo buone opportunità a una tecnopolitica non obbligata a farsi marketing o puro strumento di controllo sociale.
Bibliografia
La democrazia fa nuovi esperimenti, «Reset», 2002, 71, pp. 5-18.
C. Formenti, Comunità virtuali, Stato a rete e crisi della democrazia rappresentativa: verso una società postdemocratica, «Gli argomenti umani», 2004, 1.
S. Rodotà, Tecnopolitica. La democrazia e le nuove tecnologie della comunicazione, Roma-Bari 20042.
M. Castells, Comunicazione e potere nel XXI secolo, in Saperi e poteri, a cura di P. Corsi, Milano 2008.
C. Formenti, Cybersoviet. Utopie postdemocratiche e nuovi media, Milano 2008.
J. Zittrain, The future of the Internet and how to stop it, London 2008.